L’inefficacia della revocatoria in pendenza di fallimento

Edoardo Staunovo Polacco
15 Aprile 2019

La sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell'elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costituiva, in quanto...
Massima

La sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, in forza di un diritto potestativo comune, al di là delle differenze esistenti tra le medesime, ma in considerazione dell'elemento soggettivo di comune accertamento da parte del giudice, quantomeno nella forma della scientia decoctionis, ha natura costituiva, in quanto modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto.

Non è ammissibile un'azione revocatoria, non solo fallimentare ma neppure ordinaria, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l'effetto giuridico favorevole all'attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura della procedura stessa.

La sentenza ed i principi giuridici

Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate sul tema della proponibilità dell'azione revocatoria – tanto fallimentare quanto ordinaria – proposta nei confronti di un soggetto dichiarato fallito per un atto da lui compiuto anteriormente all'apertura della procedura, essendo state a ciò chiamate dall'ordinanza del 25 gennaio 2018, n. 1894, della Prima Sezione, pubblicata su questo portale in data 26 gennaio 2018.

La risposta del Giudice nomofilattico è negativa, come del resto negative erano state le due precedenti decisioni di legittimità che si rinvengono negli esatti termini, rappresentate da Cass. 12 maggio 2011, n. 10486, pubblicata su questo portale con nota parzialmente critica di Lamanna e Jachia, Inesperibilità dell'azione revocatoria verso un altro fallimento, e da Cass. 8 marzo 2012, n. 3672, pubblicata su questo portale con nota di Jachia, Ancora sull'inesperibilità della revocatoria avverso un fallimento.

La motivazione chiarisce, in primo luogo, che sull'argomento in diritto non vi era un contrasto di decisioni delle sezioni semplici, tale da motivare il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi della prima ipotesi prevista dall'art. 374, comma 2, c.p.c., dal momento che le pronunce citate come difformi nell'ordinanza di remissione erano rese, in realtà, in altra fattispecie. La decisione a Sezioni Unite si è resa invece opportuna - si legge sempre nella parte motiva – in base alla seconda delle ipotesi di cui alla disposizione citata, relativa alle questioni di massima di particolare importanza.

Senza indugiare su tali profili, per il carattere secondario che presentano (anche se l'assenza di un contrasto in seno alla Suprema Corte era degna di nota), e non senza segnalare come, nella prima massima, compaia una imprecisione nell'indicazione di un presupposto soggettivo comune a revocatoria ordinaria e fallimentare, costituito dalla scientia decoctionis (che riguarda la sola revocatoria fallimentare, altro essendo il requisito soggettivo di cui all'art. 2901 c.c.), va concentrata l'attenzione sulle premesse logico giuridiche del principio di diritto enunciato nella seconda massima, la prima delle quali è la natura dell'azione revocatoria, tanto ordinaria quanto fallimentare, che la sentenza in commento definisce, nella prima massima, “costitutiva”.

Si tratta di un dato acquisito in giurisprudenza, da oltre vent'anni, e che trova riscontro in svariate pronunce di legittimità, nelle quali si precisa che le due azioni corrispondono all'esercizio, da parte dell'attore, di un diritto potestativo: per limitarsi ad un decennio, e senza pretesa di completezza, si possono menzionare in tal senso Cass. 23 maggio 2018, n. 12850; Cass. 24 agosto 2016, n. 17311; Cass. 3 luglio 2015, n. 13767; Cass. 30 luglio 2012, n. 13560; Cass. 17 maggio 2012, n. 7774; Cass. 15 dicembre 2011, n. 27084; Cass. 29 luglio 2011, n. 16737; Cass. 6 agosto 2010, n. 18438; Cass. 16 settembre 2009, n. 19989; Cass. 25 giugno 2009, n. 14896; Cass. 19 marzo 2009, n. 6709; e si rammenta che, sul punto ed in conformità, si sono pronunciate due volte le Sezioni Unite, con Cass. 15 giugno 2000, n. 437, e Cass. 13 giugno 1996, n. 5443.

Fra le conseguenze di tale principio vi è che l'effetto costitutivo, se da un lato si produce con il passaggio in giudicato della pronuncia che definisce il giudizio (Cass. 24 agosto 2016, n. 17311, Cass. 29 luglio 2011, n. 16737), dall'altro retroagisce alla data della domanda (Cass. 21 marzo 2013, n. 7182; Cass. 30 luglio 2012, n. 13560; Cass. 11 giugno 2004, n. 11097). Proprio tale data, alla quale gli effetti della revoca retroagiscono, segna il discrimine tra la proponibilità e l'improponibilità dell'azione nei confronti del fallito, perché, come si legge nella sentenza in commento, se essa è anteriore all'apertura della procedura la pretesa può essere formulata, mentre, se è successiva, non può esserlo.

Il fondamento della cesura sta nel principio di cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso, sancito dagli artt. 51 e 52 l. fall., che verrebbe violato se si ammettesse la possibilità di far valere nella procedura un'inefficacia prodotta da una domanda proposta successivamente all'avvio della procedura, a questa dovendo risalire, come già detto, l'effetto della revoca. Inoltre, qualora la revocatoria riguardi atti soggetti a trascrizione, è necessario che la domanda sia trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento del convenuto, a pena di inopponibilità ex art. 45 l. fall.

Osservazioni

Le ragioni in diritto della decisione, così sinteticamente riassunte, paiono del tutto condivisibili; a meno di mettere mano al ricordato principio della natura costitutiva dell'azione revocatoria, per sostituirlo con una efficacia meramente dichiarativa, che tuttavia è abbandonata da tempo (l'ultima motivata affermazione in tal senso si rinviene in Cass. 8 marzo 1995, n. 2706).

In mancanza di una tale rimeditazione, l'impianto tracciato dalla Suprema Corte risulta conforme non solo ai principi sopra evidenziati, ma anche ad altri conformi principi sui rapporti tra azioni costitutive e fallimento.

Di uno di essi vi è traccia in motivazione, ed è quello sancito dall'art. 72, quinto comma, l. fall., che, per quanto attiene alla domanda di risoluzione contrattuale ex art. 1453 c.c. (corrispondente all'esercizio di un'azione costitutiva, v. Cass. 18 aprile 2013, n. 9488), dispone che “l'azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l'efficacia della trascrizione della domanda; se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V”.

L'altro è stato enunciato, sempre dalle Sezioni Unite, in tema di opponibilità alla curatela dell'azione ex art. 2932 c.c. (pacificamente costitutiva, v. ad es. Cass. 26 settembre 2018, n. 22997), proposta dal promissario acquirente nei confronti del promittente venditore poi fallito, con conseguente preclusione dell'esercizio, da parte dell'organo concorsuale, del potere di sciogliersi dal contratto ai sensi dell'art. 72 l. fall. Anche a questo riguardo è necessario che la domanda giudiziale sia stata proposta e trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento (Cass. SS.UU. 16 settembre 2015, n. 18131; Cass. 22 dicembre 2015, n. 25799; Cass. 15 febbraio 2016, n. 2906; Cass. 5 settembre 2016, n. 17627).

A questa piena condivisione non sembrano dovere ostare gli inconvenienti segnalati nella nota di commento a Cass. 12 maggio 2011, n. 10486, sopra citata. Gli Autori di quel contributo hanno criticato l'indirizzo interpretativo oggi accolto dalle Sezioni Unite per non avere distinto tra l'azione revocatoria nei confronti del fallimento dichiarato successivamente, e quella contro il fallimento dichiarato anteriormente, segnalando che, in questo secondo caso, il diritto potestativo del curatore fallimento che sopravviene non può essere esercitato per definizione, atteso che il convenuto è già fallito. I problema indubbiamente esiste, ma secondo lo scrivente non può incidere sul principio di cristallizzazione della massa passiva, ed oltretutto pare di carattere fenomenologico, non diversamente da quanto accade – per tentare un parallelo, nella consapevolezza delle diversità delle fattispecie - quando il fallimento viene dichiarato dopo il decorso del termine quinquennale di cui all'art. 69-bis l. fall., con il curatore privato, per il semplice effetto del tempo, del potere di impugnare atti, pagamenti e garanzie pregiudizievoli alla massa dei creditori.

Restano da svolgere tre brevi riflessioni.

La prima è che, come suggerisce un passo della motivazione, la regola dettata per le azioni revocatorie ordinarie e fallimentari non può valere per le azioni di inefficacia previste dagli artt. 64 e 65 l. fall., che a differenza delle prime, e sempre per giurisprudenza consolidata, hanno natura di mero accertamento (in tal senso, ex plurimis, v. Cass. 17 maggio 2012, n. 7774; Cass. 30 settembre 2011, n. 20067; Cass. 27 ottobre 2006, n. 23269). Per queste, il momento che segna il discrimine tra proponibilità ed improponibilità dell'azione non è la data della domanda, ma quella della dichiarazione di fallimento dell'autore dell'atto che si impugna, che ne produce automaticamente l'inefficacia; per cui, fermo sempre restando il principio della cristallizzazione della massa passiva del fallimento convenuto, la proponibilità dell'azione va affermata se la procedura che agisce sia stata aperta prima di quella che resiste, e negata nell'ipotesi opposta.

La seconda è che il principio enunciato dalle Sezioni Unite è applicabile agli atti compiuti dal fallito, ma non anche a quelli compiuti dal curatore. Può accadere che quest'ultimo, dopo la nomina, ponga in essere atti con terzi che, successivamente, falliscono (ad es. l'incasso di somme dovute al fallito, con il solvens che in seguito fallisce anche lui). In questo caso l'azione revocatoria può essere esercitata nei confronti del fallimento (v. Cass. 19 marzo 2009, n. 6709, e sia pure incidentalmente Cass. 10 gennaio 2003, n. 142, in motivazione), con la precisazione che, ai fini del trattamento del fallimento vittorioso nel fallimento soccombente, è necessario distinguere tra atti riferibili al fallito ed atti riferibili alla curatela: nel primo caso (ad es. l'incasso di un credito sorto anteriormente alla dichiarazione di fallimento), il titolo è anteriore all'apertura della procedura e l'eventuale credito conseguente all'accoglimento della revocatoria ha natura concorsuale (Cass. 19 marzo 2009, n. 6709); nel secondo (ad es. l'incasso di un credito sorto in virtù di un atto del curatore che subisce la revocatoria), la procedura vittoriosa ha verosimilmente un titolo da fare valere in prededuzione.

La terza ed ultima attiene alla competenza ed al rito, nei casi in cui la revocatoria tra fallimenti può essere promossa o continuata. Si è detto in giurisprudenza, ed in particolare nella più recente pronuncia conforme a quella odierna (v. Cass. 8 marzo 2012, n. 3672), che l'azione dovrebbe essere avviata o proseguita avanti il tribunale che ha dichiarato il fallimento dell'attore, in forza della competenza funzionale e inderogabile di cui all'art. 24 l. fall., e che la sede della verifica dei crediti del fallimento convenuto dovrebbe ospitare la sola insinuazione al passivo del credito eventualmente riconosciuto nella pronuncia di revoca; con la conseguenza che l'azione revocatoria non potrebbe essere fatta valere introducendola nella domanda di ammissione al passivo, senza previo esperimento dell'azione nella sede competente.

La correttezza di queste conclusioni andrebbe forse nuovamente vagliata, a fronte del dogma dell'esclusività dell'accertamento del passivo, che dovrebbe attribuire al giudice della verifica anche la cognizione degli antecedenti logico-giuridici che costituiscono il presupposto dell'ammissione del credito o del riconoscimento del diritto reale sul bene del fallito, quantomeno nei casi nei quali l'ammissione o il riconoscimento siano gli unici “beni della vita” ai quali tende il curatore che fa valere l'azione revocatoria (sul tema, più generale, del rapporto tra domande pregiudiziali e verifica dei crediti, nel quale l'argomento qui accennato si inserisce, sia consentito rinviare, anche per i dovuti riferimenti dottrinari e giurisprudenziali, al contributo dello scrivente in La crisi d'impresa e i contratti, Accordi di ristrutturazione, piani attestati e contratti pendenti, in Pratica Professionale – Crisi d'Impresa diretto da Di Marzio, Milano, 2018, 9 ss.).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.