Il regime dell'onere probatorio nel licenziamento intimato in forma orale
15 Aprile 2019
Massima
Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l'osservanza della forma prescritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell'esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.
Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421, c.p.c. - e solo nel caso perduri l'incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall'art. 2697, comma 1, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa. Il caso
La Corte d'appello di Catanzaro rigettava il reclamo proposto ai sensi della l. n. 92 del 2012 dall'azienda datrice di lavoro, confermando la statuizione di primo grado che aveva accolto l'impugnativa proposta dal lavoratore avverso il licenziamento asseritamente intimato in forma orale.
La Corte ha ritenuto che la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti era pacifica e non contestata, pertanto il dipendente aveva adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto. Invece, secondo la Corte territoriale non erano state provate le dimissioni del lavoratore eccepite dalla società, per cui il reclamo della stessa andava respinto.
Per la cassazione della sentenza proponeva ricorso la società con due motivi; il lavoratore rimaneva intimato. In particolare con il primo motivo la parte ricorrente lamentava “violazione e falsa applicazione” dell'art. 2697, commi 1 e 2, c.c., per avere la Corte territoriale posto a suo carico l'onere di provare le dimissioni del lavoratore, nonostante non vi fosse prova certa dell'avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento, ma soltanto del fatto oggettivo della cessazione del rapporto lavorativo. A parere della società, le dimissioni del dipendente sarebbero comunque per facta concludentia e non vi sarebbe la prova dell'avvenuta estromissione, piuttosto che quella dell'allontanamento volontario. La questione
Il caso in esame consente di riflettere sulla delicata questione della ripartizione degli oneri probatori in tema di licenziamento orale, da tempo oggetto di fervente dibattito all'interno della giurisprudenza di legittimità, tanto da dare vita, a volte, a letture divergenti di vicende processuali contigue.
Premessa la pacifica ricostruzione secondo cui anche nel rapporto di lavoro subordinato, come in tutti i rapporti di durata, la parte che ne deduce l'estinzione è tenuta a dimostrare – conformemente al principio relativo alla ripartizione dell'onere probatorio ex art. 2697, c.c. - la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione, la Suprema Corte si occupa di definire ulteriormente i principi regolatori della materia al fine di scongiurare incertezze applicative. Intendendo dare continuità ad un indirizzo già recentemente ribadito, la Cassazione afferma che in punto di ripartizione dell'onere probatorio in caso di dedotto licenziamento orale, la prova gravante sul lavoratore circa la “estromissione” dal rapporto non coincide tout court con il fatto della “cessazione del rapporto di lavoro, ma con un atto datoriale consapevolmente volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo (Cass. n. 31501 del 2018). Va rilevato che all'orientamento recentemente ribadito dalla Suprema Corte, si è in passato contrapposto il diverso assunto secondo il quale nel sistema di regolazione dei licenziamenti individuali “il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e poi alla reintegrazione, secondo le variazioni della l. n. 300 del 1970, è un fatto – il licenziamento appunto – attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, alla quale non corrisponde una identica iniziativa del lavoratore”; di guisa che “la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro è quella della estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento e collega la estromissione dal rapporto ad asserite dimissioni del lavoratore assume la valenza di una eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art. 2697, comma 2, c.c.” (Cass. n. 2853 del 1995). In proposito la Cassazione spiegava come dovesse essere intesa l'asimmetria circa l'iniziativa del recesso che conduce al pur comune effetto della “estromissione” dal rapporto lavorativo e che si sviluppa sul piano della prova, osservando che: “quando comunque il materiale probatorio sia stato raccolto, la valutazione dei possibili significati della prova deve essere compiuta quantomeno con specifica attenzione alla peculiarità delle facoltà attribuite ai contraenti e ai poteri attribuiti al datore di lavoro [...] in special modo l'indagine del giudice del merito deve essere rigorosa, data la gravità delle relative conseguenze in relazione a beni giuridici che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell'ordinamento, quando si tratti di stabilire il significato di una dichiarazione o di un comportamento cui si assegni valore negoziale di recesso del lavoratore (cosiddette dimissioni), in tal caso dovendosi stabilire, attraverso l'interpretazione dell'atto di recesso e la valutazione dei comportamenti in concreto osservati dal lavoratore, che da parte sua sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che tale volontà sia stata idoneamente comunicata alla controparte”.
Proprio con riferimento a questo orientamento, secondo cui è sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo (Cass. n. 18087 del 2007, Cass. n. 155 del 2009), la giurisprudenza di legittimità precisava che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell'estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all'altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia “subito” il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l'onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro” (Cass. n. 10651 del 2005, Cass. n. 7614 del 2005, Cass. n. 5918 del 2005, Cass. n. 22852 del 2004, Cass. n. 2414 del 2004). In tal modo il principio fondato sulla contrapposizione tra “prova della estromissione” gravante sul lavoratore e “prova delle dimissioni” quale eccezione in senso stretto di pertinenza datoriale rifluì in numerose massime (Cass. n. 4717 del 2000, Cass. n. 14977 del 2000, 14082/2010, Cass. n. 21684 del 2011), senza che fosse sempre agevole decifrare a quale degli oneri probatori doveva darsi priorità nella contesa processuale ovvero prevalenza in caso di incertezza. Le soluzioni giuridiche
Preliminarmente, sembra opportuno osservare che, dal punto di vista strutturale, il licenziamento si configura quale atto unilaterale con cui il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso. Chi impugna il licenziamento deducendo che si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti. Tale identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del convenuto datore di lavoro, anche perché questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del fondamentale canone dettato dall'art. 2697, comma 1, c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Sul punto la Cassazione precisa come non trovi riscontro normativo la tesi secondo la quale il lavoratore possa limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell'intervenuto licenziamento, obbligando il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che l'estinzione del rapporto di durata sia dovuta ad altra causa, perché in tal caso si realizzerebbe un'inversione dell'onere probatorio non prevista dall'ordinamento e neppure dalla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, che pone a carico del datore di lavoro l'onere di provare che il licenziamento sia giustificato (art. 5, l. n. 604 del 1966), ma non anche che la risoluzione del rapporto sia ascrivibile ad una volontà datoriale. In proposito, la Suprema Corte osserva che una siffatta inversione dell'onere probatorio non sarebbe evincibile neanche in via sistematica perché sia la ricostruzione della volontà di licenziare, sia eventuali difficoltà nel fornire la prova gravante sul lavoratore, trovano adeguato contrappeso in un utilizzo appropriato anche delle presunzioni affidato al prudente apprezzamento del giudice.
Ciò posto, la mera cessazione definitiva nell'esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l'effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. La Suprema Corte, dopo aver affermato che tale cessazione non equivale ad “estromissione”, si sofferma proprio sulla valenza del termine de quo, rilevando che si tratta di una parola cui va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di “licenziamento”, e quindi nel senso di allontanamento dall'attività lavorativa quale effetto della volontà del datore di lavoro di esercitare il potere di recesso risolvendo il rapporto. A riguardo precisa, altresì, che l'accertata cessazione nell'esecuzione delle prestazioni può solo costituire circostanza fattuale in relazione alla quale, unitamente ad altri elementi, il giudice di merito può radicare il proprio convincimento, motivato adeguatamente, che il lavoratore abbia assolto l'onere probatorio sullo stesso gravante circa l'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa del datore.
Sul punto, va osservato che, ove il datore di lavoro deduca che un rapporto di lavoro si è estinto per le dimissioni del lavoratore, sia in via d'azione che di eccezione, è al datore che spetta provare il fatto costitutivo della domanda o dell'eccezione; posto che in entrambi i casi, la prova avente ad oggetto la volontà dismissiva del lavoratore dovrà essere rigorosamente vagliata, data la gravità delle conseguenze derivanti dall'incidenza su beni che formano oggetto di tutela privilegiata dall'ordinamento. Invero, fermi gli eventuali vincoli di forma stabiliti dalla legge pro tempore vigente per l'atto dismissivo, l'accertamento del significato di una dichiarazione o di un comportamento del lavoratore cui si attribuisca la valenza di recesso dovrà essere condotto tenuto conto delle circostanze in cui la risoluzione si è verificata, delle condizioni di interesse di ciascuna delle parti alla prosecuzione del rapporto ovvero alla sua estinzione, delle diversità di poteri e di facoltà attribuiti ai contraenti nel rapporto di lavoro.
È opportuno sottolineare che, laddove il licenziamento sia impugnato come orale ed il datore opponga invece che il rapporto si è estinto per le dimissioni del dipendente, tanto più se presentate nello stesso contesto spazio temporale, il giudice sarà chiamato ad un'accurata indagine probatoria nella ricostruzione dei fatti al fine di poter formare il proprio convincimento sulla qualificazione giuridica della fattispecie, allo scopo di inquadrarla, quindi, nell'alveo del licenziamento oppure in quello delle dimissioni. Nell'ambito di siffatto accertamento, inoltre, il giudice di merito dovrà osservare il criterio in base al quale costituisce carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove acquisite, non può limitarsi ad applicare meccanicamente la regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti oggetto di contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (Cass., sez. un., n. 11353 del 2004).
Da ultimo, la Suprema Corte chiarisce che nel caso in cui perduri una situazione di incertezza probatoria non superabile, opererà la regola dell'art. 2697, c.c., in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta, anche se non risultino provate neanche le dimissioni eccepite dal datore, in ossequio al risalente principio processuale secondo cui l'onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l'attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l'insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall'onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa (Cass. n. 1522 del 1983, Cass. n. 3148 del 1985, Cass. n. 3099 del 1987, Cass. n. 2680 del 1993, Cass. n. 5192 del 1998, Cass. n. 8164 del 2000, Cass. n. 3642 del 2004, Cass. n. 13390 del 2007). Osservazioni
In conclusione è interessante evidenziare la pregnanza che riveste il requisito dell'intimazione del recesso in forma scritta, funzionalmente orientato a garantire il lavoratore dal rischio di scelte poco ponderate del datore di lavoro, nonché ad essere posto nella situazione di sapere, in modo certo ed univoco, che vi è stato un atto interruttivo del rapporto lavorativo, a conoscerne le relative ragioni nonché le tempistiche in cui lo stesso si è concretizzato. Ai sensi dell'art. 2, l. n. 604 del 1966, così come riformato dalla l. n. 92 del 2012 “Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. Il licenziamento intimato senza l'osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 è inefficace”. Proprio a seguito di tale novella legislativa, il datore di lavoro deve specificare, già al momento della comunicazione del licenziamento, i motivi che lo hanno determinato; laddove, precedentemente, invece, il prestatore di lavoro poteva chiedere, entro 15 giorni dalla comunicazione, i motivi che avevano determinato il recesso: dovendo, in tal caso, il datore di lavoro comunicarli per iscritto entro sette giorni dalla richiesta.
Autorevole dottrina (G. Pera) ha rilevato che storicamente il vincolo formale si è configurato come “una prima e non trascurabile remora di contenimento della possibilità di licenziamento arbitrario”, e sul punto la Corte costituzionale ha osservato che la volontà datoriale “deve risultare da un documento soprattutto per tutelare l'essenziale interesse della parte più debole del rapporto a conoscere e a impugnare l'atto nel termine decorrente dalla data di notifica dello stesso” (C. cost. n. 398 del 1994). Invero, la riconosciuta garanzia costituzionale del diritto a non subire un licenziamento arbitrario (C. cost. n. 541 del 2000), giustificando una limitazione all'autonomia privata, rinviene il suo fondamento nell'esigenza di presidiare i principi generali di tutela della persona e del lavoro (C. cost. ord., n. 254 del 1997), avvertita non solo dall'ordinamento nazionale, ma anche a livello europeo, come dimostrato, oltre che dall'art. 24 della Carta sociale europea, dall'art. 30 della Carta di Nizza che pone l'accento sulla necessità che ogni lavoratore sia tutelato contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario, alle legislazioni ed alle prassi nazionali.
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