La tassazione dei proventi illeciti

16 Aprile 2019

Sarebbe opportuno procedere alla tassazione di tutto ciò che è servito a commettere reati, intercettando tutte le ricchezze che dal reato sono derivate. Il giro d'affari criminale nel nostro Paese, si aggira attorno ai 30 miliardi di euro all'anno. Una stima che prende in considerazione le principali attività illegali gestite dalla malavita: traffico e spaccio di droga, traffico illecito di tabacco, contraffazione, frodi IVA, ma anche estorsioni, usura, sfruttamento della prostituzione, traffico d'armi e gioco d'azzardo. La norma per procedere alla tassazione di tali proventi esiste già, ma, anche per un'assenza di coordinamento con la disciplina in tema di confisca, non è sempre efficace.
Premessa

Secondo quanto stabilito dall'art. 14, comma 4, della L. n. 537/1993, tutte le attività illecite devono essere perseguite, non solo penalmente, ma anche fiscalmente, con tassazione dei relativi proventi.

Confiscare i proventi delle attività illecite (nei casi in cui lo si fa, non essendo la confisca sempre obbligatoria), può infatti non bastare.

Il problema è inoltre “aggravato” dal fatto che se, nelle more dello svolgimento del processo penale (poi magari conclusosi con un'assoluzione di rito o di merito), l'accertamento fiscale non è stato avviato, essendo questo soggetto a perentori termini di decadenza, rischia di non nascere mai più, con perdita definitiva della possibilità di incassare quei proventi, sia in sede penale, tramite la confisca, che in sede tributaria, tramite l'accertamento (che risponde a regole, anche processuali, ben diverse da quelle vigenti in sede penale).

Confisca e tassazione dei proventi illeciti

L'illiceità penale non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

Per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento, dunque, non vige alcuna immunità fiscale. In base all'art. 53 della Cost., del resto, ciascuno deve contribuire alle spese pubbliche. E vi deve dunque contribuire (a maggior ragione) anche chi delinque, o comunque ottiene proventi da attività illecite.

Tutte le attività illecite, comprese quelle che fruttano miliardi di euro alle varie forme di racket e criminalità organizzata, devono dunque essere perseguite, non solo penalmente, ma anche fiscalmente (con tassazione dei relativi proventi).

I canali di alimentazione e destinazione dei proventi illeciti possono essere peraltro i più vari. Tra questi, a titolo di mero (e non esaustivo) esempio, tangenti, traffico di droga, estorsioni, usura, racket della prostituzione e abusivismo commerciale.

Confiscare i proventi delle attività illecite, come detto, può peraltro non bastare. Intanto perché il provento confiscato e quello fiscalmente accertabile non sempre coincidono e poi perché tali proventi possono avere generato nel frattempo altri proventi.

Il giro d'affari criminale nel nostro Paese, se si considerano le principali attività illegali gestite dalla malavita, quali traffico e spaccio di droga, traffico illecito di tabacco, contraffazione, frodi IVA, estorsioni, usura, sfruttamento della prostituzione, traffico d'armi e gioco d'azzardo etc., è, del resto, di almeno 30 miliardi di euro all'anno.

E dunque, una tassazione di tali proventi, tra imposte (per facilità di calcolo, ad una media del 25%) e sanzioni (al 100% dell'imposta), potrebbe valere almeno 15 miliardi di euro (e senza calcolare l'Iva eventualmente dovuta, laddove se il provento illecito è suscettibile di avere effetti sul principio di libera concorrenza, si dovrebbe procedere anche a tale tassazione).

La norma, peraltro, nel caso di specie c'è già.

Il comma 4 dell'art. 14 della L. 537/1993 dispone infatti che anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo sono soggetti a tassazione, “se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

Proprio tale ultima previsione, però, ad avviso di chi scrive, può rappresentare una criticità. Nel dubbio infatti se, in sede penale, si procederà o meno alla confisca (non sempre obbligatoria), gli accertamenti fiscali non vengono spesso avviati, confidando nella efficacia dello strumento penale (confiscare al 100% è sicuramente meglio che tassare al 25%), che, però, è avviato solo in un numero limitato di casi e portato a buon fine in una percentuale ancora più ridotta.

E anche laddove il sequestro o confisca vengano disposti, rischiano comunque poi di decadere in caso di assoluzione penale dell'imputato, laddove, però, le regole del processo tributario e del processo penale sono molto diverse.

I giudici tributari, proprio per tale motivo, non sono neppure vincolati dal giudicato penale, che, al più, costituisce un semplice elemento di prova. Che un'accusa penale debba essere attentamente vagliata è del resto senz'altro giusto ed opportuno. E però, nei processi, il parametro di valutazione del giudice non è, a ben vedere, (solo) l'innocenza o meno dell'imputato (o del contribuente), ma (anche) la sussistenza di elementi probatori in grado di sostenere l'accusa (penale o tributaria), laddove tuttavia le prove ammesse nel processo penale e in quello tributario sono molto diverse, così come è molto diverso ciò che deve essere provato nei rispettivi procedimenti.

In sede tributaria, infatti, non si guarda alla certezza dell'evento contestato, ma piuttosto alla sua probabilità o verosimiglianza, con una del tutto diversa ripartizione dell'onere della prova rispetto al processo penale.

In parole povere, se, sulla base delle prove acquisite, un evento è verosimile ma non certo, in sede tributaria il contribuente sarà condannato e in sede penale sarà assolto.

I due profili (pena per il reato e pagamento delle imposte su quel reato) dovrebbero dunque restare separati e seguire ognuno la propria strada.

Un'utile modifica normativa potrebbe allora consistere nello stabilire che il procedimento di accertamento, in caso di reati collegati a proventi illeciti (cioè praticamente tutti, tranne i delitti d'onore!) proceda comunque il suo corso, stabilendosi però che, laddove venga avviata la confisca in sede penale, la riscossione possa essere disposta solo una volta terminato il procedimento ablativo e comunque al netto di quanto confiscato.

Per sottoporre effettivamente a tassazione i proventi derivanti da tali attività criminali basterebbe dunque prevedere che l'accertamento venga avviato contemporaneamente al rinvio a giudizio e inserire una norma per cui “la riscossione delle imposte da proventi illeciti è sospesa per la parte corrispondente all'importo soggetto a sequestro” e una norma per cui “gli accertamenti, anche definitivi, delle imposte da proventi illeciti sono annullati per la parte corrispondente all'importo oggetto di confisca definitiva”.

Così si otterrebbe un sistema che, matematicamente:

  • non lascerebbe scappare nessun provento illecito, perché l'accertamento sarebbe avviato subito e la riscossione sarebbe solo sospesa fintanto che dura il sequestro;
  • l'Agenzia delle Entrate non perderebbe, nel frattempo, le garanzie del credito, perché se non riscuote è solo perché la somma è già stata sequestrata;
  • nel caso in cui quelle ricchezze fossero confiscate e la somma accertata fosse inferiore a quanto già confiscato, ciò comporterebbe l'annullamento dell'accertamento;
  • nel caso in cui quelle ricchezze fossero confiscate e la somma accertata fosse superiore a quanto già confiscato (in quanto magari nell'accertamento si è tenuto conto di tipologie di proventi non confiscabili, o non intercettate con quel tipo di misura, come appunto anche nel caso dell'Iva), ciò comporterebbe la riscossione della differenza.

Che il fenomeno sia davvero rilevante lo ha confermato, del resto, anche la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che in una sua relazione ha messo in fila un pò di cifre.

Considerando il fatturato di circa 30 miliardi di euro annui, detratti progressivamente un 10% di costi, un 10% di investimenti in altre attività criminali e un 10% dovuto all'attività repressiva dello Stato, le mafie reinvestono circa 20 miliardi di euro in attività finanziarie ed economiche diverse dal loro specifico settore. Negli ultimi 20 anni, dunque, questa filiera ha consolidato un patrimonio, oramai “ripulito”, del valore complessivo di circa 400 miliardi di euro.

E tutto questo a scapito dell'economia sana.

Imporre allora il pagamento della dovuta tassazione anche nei confronti di chi, non solo pone in essere gravi illeciti, ma lucra anche su tali illeciti, sarebbe un bel segnale di efficienza, efficacia e perché no, anche coraggio.

In conclusione, se il processo tributario e quello penale sono indipendenti e la confisca e l'accertamento procedono in modo autonomo (tranne che nella fase della riscossione), non c'è il rischio che il contribuente/reo non paghi niente, a meno che non vinca sia nel processo penale che in quello tributario, ma allora significa che non ha commesso quelle attività illecite e non ha conseguito quei proventi. E dunque è giusto che non paghi niente.

Ma, in caso contrario, è giusto che paghi, almeno, come tutti gli altri.

Il recupero a tassazione dei proventi illeciti

In sostanza, sarebbe dunque opportuno riprendere e valorizzare un iter normativo incominciato con l'art. 14 della L. n. 537/1993 sull'onda dell'evento “Tangentopoli”.

Nell'ambito della vicenda riconducibile a Tangentopoli era risultato del resto evidente che l'apprestamento di provviste illecite costituiva una realtà ordinaria per molte imprese, che avevano finito per istituzionalizzare il ricorso a fondi neri di provenienza illecita.

E, il più delle volte, tale provenienza illecita era costituita da fenomeni di evasione fiscale. Per questo motivo fenomeni di corruzione ed evasione fiscale sono due aspetti intimamente correlati, due facce della stessa medaglia.

Ad ogni modo è indubbio che le tangenti hanno, ontologicamente, fonte illecita e, non di rado, originano proprio da illeciti fiscali.

E, d'altra parte, l'evasione fiscale riguarda anche la non tassazione dei redditi (illecitamente) percepiti dai destinatari delle tangenti, i quali certo non li dichiarano. Quindi evasione a monte (per costituirsi fondi neri) ed evasione a valle (nello sfuggire definitivo di tali somme all'Erario), laddove quei fondi vengono corrisposti per fini di corruzione.

L'illiceità penale, però, come detto, non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

La dottrina, per parte sua, affrontò fin da subito l'argomento, basandosi su due distinte posizioni:

  • l'una, per così dire, a carattere "giuridico", contraria all'imponibilità dei proventi illeciti;
  • l'altra, per così dire, a carattere "economico", tendente, invece, ad ammetterla.

Secondo la prima tesi i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non sono suscettibili di imposizione tributaria, dato che l'attività illecita non può essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto, pretium sceleris e non reddito tecnicamente e giuridicamente inteso; diversamente, secondo tale tesi, si perverrebbe alla conseguenza di chiedere all'autore dell'illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo in sostanza con l'autodenunciarsi (in aperta violazione del noto principio nemo tenetur se detegere). A sostegno, invece, della tesi della tassabilità starebbe la considerazione che presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta "economica"), indipendentemente dalla sua provenienza.

In altre parole, chi trae proventi dall'attività illecita realizza, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo.

La giurisprudenza di legittimità e l'estensione ai fini IVA

E la fattispecie, come confermato anche dalla Corte di Cassazione, rileva non solo ai fini imposte dirette, ma anche ai fini IVA.

La Sentenza n. 24471 del 17 novembre 2006 della Suprema Corte ha infatti stabilito che, in forza dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, le attività illecite sono soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all'IVA.

Secondo la Corte Suprema infatti, in ogni caso, l'attività illecita deve essere soggetta all'IVA in base ai principi dell'ordinamento comunitario, a cui l'Italia non può sottrarsi, secondo i quali (vedi CGUE, causa C-283/95 dell'11 giugno 1998), se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente ed illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite ed illecite.

Analoghe considerazioni sono desumibili inoltre dalla sentenza n. 3550 del 12 marzo 2002 della Corte di Cassazione, secondo cui “sono assoggettabili anche ad IVA, in forza del principio stabilito dall'art. 14, comma 4 della L. 24 dicembre 1993, n. 537, i proventi derivanti da attività illecita”.

Continua la Corte inoltre stabilendo che “l'affermazione di principio secondo la quale i proventi provenienti da attività illecita non sarebbero assoggettabili ad imposta è manifestamente errata. Essa contrasta con il preciso disposto dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, secondo il quale "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo", devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito di cui all'art. 6 del TUIR. Anche se la norma è riferita alla disciplina delle imposte sul reddito, è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite”, anche ai fini IVA.

Quindi, alla luce dell'insegnamento della Corte Suprema (vedi anche Cass. Civ., n. 16504 del 19 luglio 2006; Cass. n. 21746/2005 e n. 13335/2003), l'articolo 14 citato rappresenta una norma di principio generale del nostro Ordinamento, un criterio ermeneutico sistematico, valido sia ai fini delle imposte dirette che ai fini IVA.

Conseguentemente, se, da un lato, è stato effettivamente escluso che, per esempio, gli stupefacenti ed il denaro falso non possono essere inseriti nel circuito economico per il loro carattere, intrinseco, di merci illecite, dall'altro, l'alcool etilico non presenterebbe tale carattere (benché l'importazione e la vendita siano soggette in alcuni Paesi ad autorizzazione). L'alcool importato di contrabbando sarebbe quindi del tutto in concorrenza con i prodotti alcolici legalmente venduti, di modo che farebbe sorgere comunque un debito doganale e d'imposta IVA.

L'eventuale deroga, invero, entra in considerazione "solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito" (Cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 29 giugno 2000, causa C-455/98; sentenza 29 giugno 1999, causa C-158/98).

In ogni caso, secondo la Corte Suprema, l'attività illecita “… deve essere soggetta all'Iva in base ai principi dell'ordinamento comunitario, a cui l'Italia non può sottrarsi, secondo i quali (Corte di giustizia della Comunità europea, causa C-283/95 dell'11 giugno 1998, in relazione al gioco di azzardo non autorizzato, e perciò illecito), …, se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente ed illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite ed illecite, potendosi al più escludere il tributo per le operazioni vietate in assoluto …”.

Un esempio concreto: la tassazione dei proventi da meretricio

La tassazione dei proventi derivanti da meretricio è tema di costante attualità, tenuto anche conto che, soltanto in Italia, il volume d'affari della prostituzione sembra attestarsi, secondo alcune stime, tra i 5 ed i 10 miliardi di euro annui.

Con una pronuncia molto datata, addirittura risalente al 1986, che probabilmente rifletteva il sentire sociale di quegli anni, la Corte di Cassazione aveva ritenuto intassabili i proventi da meretricio, assumendo che le somme derivanti dall'esercizio della prostituzione costituissero una forma sui generis di risarcimento del danno subito dalla prostituta “a causa della lesione dell'integrità della dignità di chi abbia subito l'affronto della vendita di sé”.

A distanza di molti anni, nel 2005, si è espresso un giudice di merito, la Commissione tributaria provinciale di Milano (CTP Milano, Sez. XLVII, 22 dicembre 2005, n. 272), che ha confermato l'orientamento a suo tempo fornito dalla Suprema Corte. I giudici di merito, chiamati a pronunciarsi circa gli esiti di un accertamento sintetico dell'Agenzia delle Entrate in ordine alla posizione di una contribuente che palesava rilevanti incrementi patrimoniali (connessi all'acquisto di immobili e autovetture) in assenza di redditi dichiarati, hanno condiviso la tesi della parte ricorrente, ritenendo, da un lato, che l'esercizio dell'attività di prostituzione non potesse configurare attività illecita (e, quindi, non trovasse applicazione la normativa in tema di tassazione dei relativi proventi) e riproponendo, dall'altro, la tesi della natura risarcitoria delle somme.

In senso analogo si esprimeva, l'anno successivo, la Commissione tributaria regionale Lombardia (Sentenza del 31 marzo 2006, n. 35/31/05).

Una prima, nitida presa di posizione in senso favorevole alla tassazione è stata però poi fornita dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, nel 2007 (CTP Firenze, 8 maggio 2007, n. 146), la quale sostanzialmente confermando la pretesa erariale contenuta nell'atto di accertamento impugnato, ha sottolineato che i proventi da meretricio andassero certamente attratti a tassazione e ricondotti alla categoria dei “redditi diversi”, ritenendo che la norma di cui all'art. 67, comma 1, lett. l), del d.P.R. n. 917/1986 rispondesse proprio all'esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche, connesse all'assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alle spese pubbliche, in attuazione del disposto di cui all'art. 53 della Costituzione.

In senso analogo si esprimeva, nel 2009, la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia (CTP Reggio Emilia, 11 giugno 2009, n. 131).

Per ricevere l'avallo di tale percorso interpretativo da parte dei giudici di legittimità occorreva attendere l'anno successivo, allorquando la Suprema Corte (Cass. Civ., 1° ottobre 2010, n. 20528) statuiva che “non vi è dubbio alcuno che anche i proventi della prostituzione debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che, pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.

Ulteriore conferma a siffatta tesi è stata fornita dagli Ermellini più di recente, con un'ordinanza in cui i giudici hanno ribadito che “il reddito derivante dall'esercizio della prostituzione, in base al generale principio della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, è soggetto ad imposizione diretta” (Cass. Civ., 24 luglio 2013, n. 18030).

Peraltro, il tema dell'imponibilità, anche ai fini IVA, dei corrispettivi rinvenienti da attività di meretricio è stato oggetto di autorevole pronuncia della Corte di Giustizia europea, la quale, nella causa C-268/99 del 20 novembre 2001, ha statuito che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita, la quale rientra nella nozione di attività economiche” e, in quanto tale, è da annoverare tra le attività svolte in qualità di “lavoro autonomo, qualora sia dimostrato che (tali attività) sono svolte dal prestatore di servizio:

(i) senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive;

(ii) sotto la propria responsabilità;

(iii) a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente”.

Ciò a condizione che l'esercizio dell'attività in argomento non sia prevista come illegale nel Paese membro di riferimento.

In conclusione

Si dovrebbe quindi concretamente riflettere sull'opportunità di tassare, effettivamente, i proventi e i costi illeciti.

L'importanza di una tale azione di contrasto rileva infatti sotto vari profili, sia latu sensu etico, come giusta reazione a comportamenti riprovevoli, sia (più “cinicamente”) economico, come giusta imposizione su redditi comunque non dichiarati.

Perché infatti tassare quanto incassato in nero dall'idraulico e non tassare invece quanto incassato (naturalmente in nero) dallo spacciatore, dallo sfruttatore di prostitute, dall'estorsore, dall'usuraio, dal corrotto (e la lista potrebbe essere quasi infinita)?

Con la Legge n. 136/2010, del resto, è stato stabilito che indagini fiscali, economiche e patrimoniali, al fine di procedere ad accertamenti fiscali, ai fini IVA e delle imposte sui redditi, possono essere avviate nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, ma anche per i sospettati di crimini messi in atto, in forma organizzata (con la partecipazione di tre o più componenti), come i sequestri di persona, lo sfruttamento della prostituzione, l'introduzione e il commercio nello Stato di prodotti falsi e altri ancora.

Naturalmente, le stesse indagini ed accertamenti possono, a maggior ragione, essere indirizzate anche nei confronti di chi, per gli stessi crimini, è stato addirittura condannato, sebbene con sentenza non definitiva.

Ma, come visto, in via ordinaria e a prescindere dalla sussistenza di tali specifici reati, l'Amministrazione Finanziaria può sempre accertare e tassare i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo.

E, anche nel caso in cui il contribuente/imputato abbia patteggiato, del resto, la prova della legittimità della pretesa (fiscale) dell'Amministrazione sarà fornita ex se.

Una sentenza della Corte di Cassazione del 2005 (poi confermata da un consolidato orientamento) ha infatti già a suo tempo stabilito che il patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione dei proventi illeciti.

L'art 14, comma 4, della L. n. 537/1993 attualmente vigente, lascia trasparire quindi una certa frettolosità ed una capacità di approccio tutto sommato limitata riguardo al complessivo problema delle risposte che l'ordinamento giuridico può e deve dare al fenomeno degli arricchimenti illeciti.

Sicché, sarebbe opportuno che il legislatore perseguisse la strada maestra di una generale – e non settoriale, come finora avvenuto – estensione dell'istituto della confisca obbligatoria e della tassazione rispettivamente a tutto ciò che è servito a commettere il reato ed a tutte le ricchezze che dal reato sono, direttamente, derivate, e quella della rimozione dei numerosi ostacoli che attualmente impediscono o rendono estremamente difficile il contrasto e la tassazione di tali tipi di attività, anche sotto il profilo del vantaggio indiretto.

Sui costi illeciti, infine, invece che, come oggi, prevedere che se l'imputato viene assolto, in automatico si restituisce quanto nel frattempo incamerato, considerato che i due processi (tributario e penale) sono separati e che, come anche detto dalla Cassazione il giudicato penale non fa stato nel processo tributario (vista la differenza di regole soprattutto sotto il profilo probatorio), si dovrebbe prevedere un sistema di presunzioni legali relative.

Andrebbe inoltre disposto espressamente in sede normativa che l'indeducibilità è estesa, oltre ai costi e alle spese relativi ai beni o alle prestazioni di servizi utilizzati “direttamente” per il compimento del delitto, anche alla quota dei componenti negativi afferenti all'ordinaria attività d'impresa che abbiano avuto comunque un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, seppur sostenuti non esclusivamente per il compimento dello stesso, tra cui anche, per esempio, gli interessi passivi, gli accantonamenti, le sopravvenienze passive, gli ammortamenti e le minusvalenze, se correlati al compimento del delitto.

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