Reato commesso con metodo mafioso e "collaborazione impossibile" ai fini dell'esclusione dei benefici penitenziari

Leonardo Degl'Innocenti
16 Aprile 2019

Deve essere annullata con rinvio al giudice di merito l'ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza investito della richiesta di accertamento della collaborazione impossibile in ordine ai delitti di omicidio e detenzione di armi commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art 416-bis c.p. ovvero al fine...
Massima

Deve essere annullata con rinvio al giudice di merito l'ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza investito della richiesta di accertamento della collaborazione impossibile in ordine ai delitti di omicidio e detenzione di armi commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art 416-bis c.p. ovvero al fine agevolare l'attività delle associazioni previste da tale norma, abbia limitato l'ambito dell'accertamento al solo delitto di omicidio senza considerare i profili relativi alla provenienza delle armi e alla loro successiva destinazione, sempre in rapporto al patrimonio di informazioni di cui il condannato che aveva chiesto l'accertamento dalla collaborazione poteva in concreto disporre.

Il caso

Il condannato si trova detenuto dal 2 ottobre 2003 in espiazione della pena complessiva di anni 27 di reclusione derivante da due sentenze emesse per i delitti di omicidio, detenzione illegale di armi e associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p..

In particolare il reo:

a) con la sentenza emessa il 28 giugno 2006 dalla Corte di Assise di Appello di Catania è stato condannato alla pena di anni 25 di reclusione per i delitti di omicidio e detenzione illegale di armi;

b) con la sentenza emessa il 22 ottobre 2008 dal Tribunale di Catania è stato condannato alla pena di anni 8 di reclusione per il delitto di associazione di tipo mafioso, pena ridotta dalla Corte di Appello di Catania che con la sentenza emessa il 19.01.2010 aveva ritenuto sussistente la continuazione tra i reati oggetto della sentenza emessa il 28 giugno 2006 e quelli oggetto della sentenza emessa il 22 ottobre 2008 e aveva determinato l'aumento di pena ex art 81, comma 2, c.p. in anni due di reclusione.

Il condannato aveva chiesto al magistrato di sorveglianza competente per territorio la concessione di un permesso premio ex art 30-ter ord. penit.; tuttavia la natura dei reati commessi (appartenenti alla categoria dei c.d. delitti ostativi di prima fascia di cui all'art 4-bis, comma 1, ord. penit.) comporta che la concessione di tale beneficio (come delle altre misure alternative ordinarie) è subordinata all'accertamento della collaborazione con la giustizia, accertamento riservato alla competenza del Tribunale di Sorveglianza.

Il Tribunale con l'ordinanza emessa in data 22 giugno 2017 aveva ritenuto sussistenti le condizioni sufficienti per ravvisare nella posizione del detenuto gli estremi della collaborazione (nel caso di specie “impossibile”) in ordine al delitto di omicidio, in quanto le prove acquisite nel giudizio di cognizione avevano consentito di accertare compiutamente tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi del reato, cosicché, a giudizio del collegio, non residuavano profili rispetto ai quali il detenuta avrebbe potuto offrire un'utile collaborazione.

La Corte di cassazione con la sentenza in commento ha tuttavia accolto il ricorso presentato dal Procuratore Generale ed ha annullato l'ordinanza in quanto il Tribunale aveva omesso di accertare se il condannato, in ragione delle conoscenze di cui disponeva, avrebbe potuto offrire utili indicazioni in merito alla provenienza ed alla destinazione delle armi utilizzate per consumare il delitto di omicidio.

La questione

La sentenza in commento offre lo spunto per affrontare alcune delle problematiche di maggior rilievo riguardanti l'istituto della collaborazione.

L'art 4-bis e la collaborazione con la giustizia. Il legislatore, dopo la modifica della legge 354/1975 (c.d. ordinamento penitenziario) attuata con la legge 663/1986, è intervenuto più volte al fine di limitare l'applicazione dei benefici penitenziari agli autori di reati considerati di particolare gravità ed allarme sociale.

Punto di partenza di questo trend legislativo è rappresentato dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 che ha introdotto nel testo dell'ordinamento penitenziario l'art 4-bis. La norma prevedeva (e prevede) un elenco di delitti ( comunemente indicati in dottrina e giurisprudenza come delitti ostativi) per i quali venivano stabiliti divieti e restrizioni in ordine alla concessione dei benefici penitenziari. In particolare ai fini dell'operatività del divieto la norma distingueva i reati in due diverse categorie: i delitti così detti di prima fascia (es. associazione di tipo mafioso) per i quali la concessione dei benefici penitenziari era subordinata alla acquisizione di elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; e i delitti c.d. di “seconda fascia” (es. rapina aggravata) rispetto ai quali la concessione dei benefici penitenziari era subordinata alla condizione che non vi fossero elementi “tali da far ritenere la sussistenza” dei predetti collegamenti. Inoltre veniva previsto l'innalzamento della quota di pena che occorreva aver espiato per poter accedere ai tali benefici (es. per la semilibertà 2/3 della pena in luogo della metà).

La legge 7 agosto 1992, n. 356, rispetto ai delitti di prima fascia, ha subordinato la concessione dei benefici penitenziari (diversi dalla liberazione anticipata, dal permesso per gravi motivi ex art 30 ord.penit. e dal differimento di esecuzione della pena) alla sussistenza di un ulteriore requisito costituito dalla collaborazione con la giustizia nei termini indicati dall'art 58-ter ord.penit. che prevede la cosi detta collaborazione effettiva vale a dire quella che è stata realmente e concretamente prestata dal condannato e riguarda i detenuti che, anche dopo la condanna, “si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura dei colpevoli”.

La Corte costituzionale prima (cfr. le sentenze n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995) ed il Parlamento poi con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, al fine di mitigare il rigore del divieto di concessione dei benefici penitenziari, hanno attribuito rilievo anche a forme di collaborazione diverse da quella effettiva: si tratta della collaborazione impossibile e di quella irrilevante.

La prima ipotesi si configura in due casi:

a) quando i fatti sono stati integralmente accertati (p.e. grazie all'attività d'indagine oppure mediante la collaborazione offerta da altri concorrenti);

b) quando il ruolo marginale svolto dal condannato nella vicenda criminosa non consentiva allo stesso di offrire alcuna collaborazione utile con gli inquirenti.

Tali circostanze rendono impossibile un'utile collaborazione con gli organi inquirenti: si può quindi affermare che il condannato anche se lo avesse voluto non sarebbe stato in grado di collaborare; in presenza di tale situazione sarebbe irragionevole porre a carico del detenuto gli effetti negativi della mancata collaborazione.

La collaborazione irrilevante, prevista dalla seconda parte dell'art 4-bis comma 1-bis ord. penit. si configura allorquando il contributo offerto non ha presentato alcuna utilità rispetto all'accertamento dei fatti ed alla individuazione degli altri concorrenti, purché al condannato sia stata applicata l'attenuante di cui all'art 62, n. 6) c.p. ovvero una delle attenuanti previste dagli artt 114 e 116 c.p..

In ogni caso l'accertamento della collaborazione (effettiva, impossibile o irrilevante) è riservato alla competenza del Tribunale di Sorveglianza che a tal fine dovrà tener conto di quanto accertato dalla sentenza di condanna e dei pareri formulati dalle Procure che hanno coordinato le indagini.

La rilevanza della collaborazione impossibile si fonda sulla incolpevole incapacità del condannato di fornire nel corso delle indagini o del processo utili informazioni ai fini dell'accertamento dei reati e della identificazione degli altri concorrenti ciò che si può verificare nel caso in cui il ruolo marginale svolto dal condannato nella realizzazione del fatto delittuoso gli ha precluso l'accesso ad informazioni spendibili ai fini collaborativi.

Tuttavia, come puntualizzato dalla Suprema Corte: «la tipizzazione normativa della nozione di collaborazione impossibile o inesigibile, soggetta al principio di stretta interpretazione in quanto disposizione che fa eccezione alla regola generale della ostatività del titolo di reato, comporta che non possa ricomprendersi nella collaborazione inesigibile la situazione del soggetto che versa nella impossibilità di rendere una collaborazione processualmente rilevante a causa di una condotta volontaria consistita nella scelta di rendersi latitante riparando per lunghissimo tempo all'estero, e determinandosi a rendere dichiarazioni astrattamente rilevanti solo quando la possibilità di ricostruire fatti e responsabilità precedentemente non accertati era processualmente preclusa dalla avvenuta estinzione del delitto per decorso del termine di prescrizione» (Cass. Sez. I, 15 aprile 2015, n. 24056, Consoli, in C.E.D. Cass., n. 263976): la collaborazione impossibile «è dunque l'esatto opposto di una condotta volutamente omertosa» (Cass. Sez. I, 27 settembre 2018, n. 11763, Covino).

Ulteriori interventi legislativi (legge 23 dicembre 2002, n. 279; legge 23 aprile 2009, n. 38 e, da ultimo, la legge 9 gennaio 2019 n. 3 riguardante i reati contro la Pubblica Amministrazione) è stato ampliato l'elenco dei delitti di prima e seconda fascia e, per gli autori dei delitti “a sfondo sessuale”, il legislatore ha subordinato l'applicazione dei benefici penitenziari ad un requisito particolare costituito dall'osservazione collegiale della personalità condotta per almeno un anno.

Da questo articolato, e caotico, susseguirsi di interventi normativi (e, in parte, anche giurisprudenziali), ne è derivata una complessa disciplina che subordina l'accesso ai benefici penitenziari (diversi, come detto, dalla liberazione anticipata, dai permessi di necessità e dal differimento di esecuzione della pena) a condizioni diverse, in relazione al titolo del reato commesso dal detenuto.

In particolare:

a) per gli autori dei delitti indicati nell'art 4-bis, comma 1 ord.penit. l'accesso ai benefici penitenziari è subordinato (salvo quanto si dirà in seguito) all'accertamento della collaborazione (effettiva, impossibile o irrilevante). Come accennato la recente legge 9.01.2019 n.3 ha inserito in tale categoria anche alcuni delitti contro la pubblica amministrazione.

Mette conto segnalare che rispetto ai predetti reati la nuova legge ha introdotto una particolare ipotesi di collaborazione richiamando a tal fine l'ipotesi prevista dall'art 323-bis, comma 2, c.p.. Tale norma prevede, per i delitti di cui agli artt 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale, la riduzione di pena da un terzo a due terzi a favore di chi «si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o di altre utilità trasferite».

b) per gli autori dei delitti indicati nell'art 4-bis, comma 1-ter l'applicazione dei benefici penitenziari è subordinata all'assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata;

c) per gli autori dei delitti a sfondo sessuale elencati nell'art 4-bis, comma 1-quater, la concessione dei benefici penitenziari richiede l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e la positiva osservazione della personalità condotta collegialmente per almeno un anno;

d)per gli autori di tutti i delitti dolosi l'accesso ai benefici penitenziari è precluso in caso di comunicazione da parte del Procuratore Nazionale Antimafia dell'esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata (art 4-bis,comma 3-bis).

Per gli autori dei delitti indicati nel comma 1 della norma l'accertamento della collaborazione (salvo alcune ipotesi particolari sulle quali infra); costituisce pertanto una condizione di ammissibilità al beneficio richiesto dal detenuto.

Come evidenziato dalla Corte Costituzionale tale disciplina (divieto di concessione dei benefici penitenziari superabile soltanto con l'accertamento della collaborazione) trova il suo fondamento giustificativo nella «presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostrasse il collegamento dell'autore con la criminalità organizzata e costituisse un indice di pericolosità sociale incompatibile con l'ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia veniva assunta, in questa prospettiva, come la sola idonea ad esprimere con certezza la volontà di emenda del condannato e, dunque, a rimuovere l'ostacolo alla concessione» delle misure alternative in ragione della idoneità della condotta di collaborazione a dimostrare la rescissione di legami con la criminalità organizzata o eversiva (Corte Costituzionale 22 ottobre 2014, n. 239).

Inoltre la istituzione di questo meccanismo rispondeva anche ad una esigenza di politica criminale volta ad incentivare la collaborazione quale strumento di contrasto alla criminalità.

Per i reati indicati dal comma 1 sembra configurabile «una sorta di presunzione di non praticabilità di valide alternative rieducative in assenza di collaborazione: in quanto si tratterebbe di condotte che costituiscono, di norma, espressione di una organizzata, e quindi con caratteristiche di stabilità e particolare resistenza, struttura criminale» (Cass. Sez. I, 21 settembre 2018, n. 51877, Hu Bingqiu). In quest'ottica la mancata collaborazione fonda la presunzione della volontà del detenuto di rimanere legato all'organizzazione criminale dal quale proviene e, della perdurante pericolosità sociale dello stesso, presunzione superabile soltanto mediante l'accertamento della collaborazione che viene ad integrare una sorta di prova legale del ravvedimento e dell'assenza di pericolosità del condannato. Nella stessa prospettiva Cass. Sez. I, 18 febbraio 2019, n. 9126, Marchi, inedita, secondo cui il sistema vigente «poggia sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri il collegamento dell'autore con la criminalità organizzata e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l'ammissione del condannato ai benefici penitenziari extra-murari. La scelta di collaborare con la giustizia viene assunta, in questa prospettiva, come una sorta di prova legale, la sola idonea ad esprimere con certezza la volontà di emenda del condannato e, dunque, a rimuovere l'ostacolo alla concessione delle misure, in ragione della sua valenza rescissoria di tale legame [...]».

Tale assetto normativo è stato criticato sotto vari profili: da un lato si è evidenziato che la disciplina vigente non consente di attribuire alcun rilievo ai progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento rieducativo che ben potrebbe aver favorito l'evoluzione positiva della sua personalità; dall'altro si è fatto notare che la mancata collaborazione non è sempre è sintomatica della volontà del detenuto di rimanere legato all'organizzazione criminale nella quale era inserito: la mancata collaborazione può essere determinata anche da valutazioni non necessariamente negative: si pensi al timore per l'incolumità propria o dei propri familiari ovvero al rifiuto di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di un congiunto.

D'altra parte non tutti i reati compresi nell'elenco di cui all'art 4-bis, comma 1 ord.penit. sono necessariamente riconducibili a fenomeni di criminalità organizzata: es. lo stesso sequestro di persona «non richiede una stabile organizzazione criminale ma può essere consumato anche con condotte estemporanee, di limitato impatto sia nei confronti del bene-libertà personale, sia in relazione al patrimonio della vittima» (Cass. Sez. I, Hu Bingqiu, cit.).

È appena il caso di osservare che la non riconducibilità a fenomeni di criminalità organizzata è in genere configurabile (salvo il caso in cui sia stata applicata l'aggravante di cui all'art 7 del d.l. convertito nella l. n. 203 del 1991) rispetto ai reati contro la Pubblica Amministrazione, di recente confluiti nella categoria dei delitti ostativi di prima fascia. Sembra infatti evidente che l'inserimento di tali delitti nella categoria dei reati di cui al comma 1 dell'art 4-bis prima fascia risponde essenzialmente ad una finalità di politica criminale volta a privilegiare la funzione retributiva e generalpreventiva della pena ciò che appare poco coerente con un sistema nel quale il limite di pena per l'applicazione dell'affidamento in prova ex art 47 ord.penit. è stato elevato a 4 anni, e addirittura a sei, quello per la concessione dell'affidamento in prova in casi particolari ex art 94 d.P.R. 309/1990 e s.m.i. (limiti di pena che appaiono tanto più elevati se si tiene conto dell'incidenza esplicata sul trattamento sanzionatorio delle diminuenti processuali connesse all'applicazione dei riti alternativi).

Occorre infine evidenziare che se da un lato l'accertamento della collaborazione costituisce una condizione indispensabile per accedere ai benefici penitenziari (sotto questo profilo tutte le forme ci collaborazione sono equipollenti), dall'altro, soltanto l'accertamento della collaborazione effettiva (quella prevista dall'art 58-ter ord.penit.) consente al condannato di accedere ai benefici secondo il regime vigente in via generale per gli autori dei reati comuni (così il detenuto condannato per il delitto di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti una volta ottenuto l'accertamento della collaborazione effettiva potrà beneficiare della semilibertà dopo aver espiato metà della pena anziché 2/3). Diversamente l'accertamento della collaborazione impossibile o irrilevante consente al condannato di superare la preclusione connessa alla natura del reato, ma non anche di accedere ai benefici penitenziari secondo i più favorevoli limiti di pena previsti in via generale dalle norme della legge penitenziaria (cfr. Cass. Sez. I, 7 giugno 2007, n.24896, Zannini, inedita, nella cui motivazione si precisa che la riduzione dei limiti di pena prevista dall'art 58-ter ord.penit. soltanto con riferimento alla collaborazione effettiva).

D'altra parte, a prescindere dal tenore letterale della norma (l'art 58-ter appunto) di per sé dirimente, va rilevato che sarebbe irragionevole attribuire alla collaborazione impossibile (che per definizione non è stata materialmente prestata) gli stessi effetti in bonam partem della collaborazione effettiva mediante la quale, invece, il detenuto ha posto in essere un contributo reale e concreto alla ricostruzione dei fatti ed alla individuazione degli autori.

I reati ostativi. Come detto l'art 4-bis, comma 1, ord.penit. elenca in modo puntuale i reati per i quali opera il divieto di concessione dei benefici penitenziari.

Occorre precisare che l'elenco dei reati contenuto nella norma è riferibile soltanto ai delitti consumati e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate. Come puntualizzato dalla giurisprudenza il carattere autonomo del delitto tentato rispetto a quello consumato e la natura eccezionale dell'art 4-bis ord. penit. che deroga al principio della generale ammissibilità ai benefici penitenziari, comportano che la norma sia soggetta alla regola di stretta interpretazione con divieto di applicazione analogica, conseguentemente deve escludersi che gli effetti preclusivi stabiliti dalla legge operino anche con riguardo ai delitti tentati, non espressamente menzionati dall'art 4-bis ord. penit. (Cass. Sez. I, 22 dicembre 2014, n. 15755, Marino).

L'elencazione nominativa dei delitti ostativi contenuta nell'art 4-bis, comma 1, ord. penit. subisce due deroghe: la prima riguarda i delitti commessi, mediante il compimento di atti di violenza, per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico, la seconda riguarda i delitti commessi per agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso previste di cui all'art 416-bis c.p. ovvero avvalendosi delle condizioni previste dalla predetta norma, vale a dire avvalendosi “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”. La norma della legge penitenziaria riproduce l'aggravante di cui all' art 7 del decreto legge n. 152 del 1991 convertito nella legge n.203 del 1991 che prevede per i delitti connotati da tali elementi oggettivi o soggettivi l'aumento di pena da un terzo alla metà.

Mette conto evidenziare che il divieto di concessione di benefici penitenziari, in caso di condanna per uno dei reati indicati dall'art. 4-bis ord. pen., opera, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, anche quando l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/1991, convertito nella legge 203/1991, non sia stata formalmente contestata, ma sia verificata come sussistente attraverso l'esame del contenuto della sentenza di condanna o, anche, della ordinanza del giudice della esecuzione ricognitiva dell'identità del disegno criminoso tra i fatti separatamente giudicati (Cass. Sez. I, 20.11.2018, n.32, Buompane; Cass. Sez. I, 20 settembre 2018, n. 56147, Rigano; Cass. Sez. I, 10 luglio 2018, n. 473, Iacovelli; Cass. Sez. I, 8 maggio 2018, n.28390, Lizzio; Cass. Sez. I, 13 giugno 2016, n. 44168, De Lucia, in C.E.D. Cass. n. 268297).

Tale situazione sembra essersi verificata anche nel caso di specie. Come si desume dall'ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze (poi annullata dalla decisione in commento) e dalla sentenza emessa il 1.03.2007 dalla Corte di Cassazione, con la quale è stato definito il procedimento avente ad oggetto l'omicidio di Costanzo Salvatore; tale delitto si inseriva nella contrapposizione tra il clan mafioso dei “Carcagnusi”, capeggiato da Mazzei Santo, ed il clan mafioso dei “Cappello” (dalla sentenza di legittimità si evince che la vittima risultava appartenente alla prima cosca e risultava implicato nell'omicidio di Ranno Giuseppe, appartenente al clan antagonista dei “Cappello”, vicenda nella quale è rimasto ferito anche il condannato Patorno).

Non vi è dubbio, quindi, che a prescindere dalla formale contestazione dell'aggravante di cui al citato art. 7, l'omicidio posto in essere dal Patorno in danno di Costanzo Salvatore, è stato consumato con modalità tali da giustificarne l'inserimento alla categoria dei delitti ostativi di cui all'art 4-bis, comma 1, ord. penit., con la conseguente necessità per il condannato di ottenere il preventivo accertamento della collaborazione per poter accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge.

D'altra parte lo stesso art. 7 esclude l'applicabilità dell'aggravante con riguardo ai reati punibili con la pena dell'ergastolo, cosicché nel caso in cui dall'esame della sentenza di condanna risulti che un reato punibile con la pena perpetua sia stato commesso al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso previste di cui all'art 416-bis c.p. ovvero avvalendosi delle condizioni previste dalla predetta norma, sarà configurabile un'ipotesi di ergastolo ostativo (dove l'ostatività consiste appunto nel divieto di concessione dei benefici penitenziari se non previo accertamento della collaborazione). Con riguardo a tale fattispecie occorre segnalare che la Corte di Cassazione con ordinanza emessa in data 20.11.2018 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art 4-bis ord. penit. comma 1 della legge n. 354 del 1975 e s.m.i. nella parte in cui esclude dalla possibilità di fruire di permessi premio «il condannato all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbiano collaborato con la giustizia». Secondo la Corte tale preclusione contrasta con gli artt 3 e 27, comma 2 della costituzione. Nella motivazione dell'ordinanza di rimessione si evidenzia che tale preclusione «non distinguendo tra gli affiliati ad una organizzazione mafiosa e gli autori dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dalla stessa norma, appare confliggente con i principi affermati dalla Corte Costituzionale, che nelle pronunzie sopra richiamate (sent. n. 57 del 2013; sent. n. 48 del 2015), ha affermato l'incompatibilità costituzionale delle presunzioni assolute di pericolosità sociale quando applicate a condotte illecite che non presuppongono l'affiliazione ad una associazione mafiosa»; e non tiene conto della peculiarità del permesso premio. Tale beneficio penitenziario, continua la Corte, possiede «una connotazione di contingenza che non ne consente l'assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione, perché essi non modificano le condizioni restrittive del condannato. Soltanto rispetto a queste ultime, le ragioni di politica criminale sottese alla preclusione assoluta di cui all'art 4-bis, comma 1, ord. penit. possono apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata».

In sintesi secondo la Corte se è ragionevole affermare che la collaborazione costituisce per il detenuto appartenente ad una consorteria mafiosa una manifestazione inequivocabile del suo definitivo distacco dal sodalizio nel quale era inserito, non altrettanto può dirsi con riguardo ai detenuti che non sono stati stabilmente inseriti nell'organizzazione criminale, come appunto coloro che hanno commesso il reato avvalendosi delle condizioni di cui all'art 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dalla stessa norma. D'altra parte secondo la Corte non è ragionevole equiparare ai fini della operatività della preclusione i permessi premio ed le misure alternative: infatti mentre quest'ultime comportano una modificazione tendenzialmente stabile del rapporto esecutivo penale (es. il condannato continua ad espiare la pena in regime di liberazione condizionale) i primi pur concorrendo alla realizzazione del finalismo rieducativo della pena «trovano il loro fondamento [...] nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, che li caratterizza come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate seppure non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessità».

Mette conto segnalare che Cass. Sez. I, ordinanza 57913/2018, Iacovello , ha ribadito il principio in forza del quale i divieti di concessione dei benefici penitenziari previsti dall'art 4-bis, comma 1, ord.penit. operano anche con riguardo ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore delle norme che hanno introdotto detti divieti (nel caso di specie il d.l. 306/1992, convertito nella l. n. 356 del 1992)a nulla rilevando il divieto di irretroattività della legge penale che riguarda soltanto le norme incriminatrici categoria alla quale non appartengono le norme che disciplinano la materia dell'esecuzione penale e le condizioni alle quali è subordinata l'applicazione delle misure alternative e dei benefici penitenziari. Invero, secondo il costante e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le norme che disciplinano l'esecuzione delle pene detentive e delle misure alternative, non riguardando l'accertamento del fatto e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non sono qualificabili come norme penali sostanziali e pertanto, in assenza di una specifica disciplina transitoria, sono soggette al principio tempus regit actum enon alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo ex art. 2 c.p. e 25 Cost. (ex multis Cass. Sez. Un., 30 maggio 2006, n.24561, Allaloui, in C.E.D. Cass., n. 233976).

Mette conto segnalare che tale consolidato orientamento potrebbe essere rivisitato alla luce di quanto evidenziato da una recentissima sentenza della Suprema Corte. Infatti Cass. Sez. I, 14 marzo 2019, n.12541, Ferraresi, (in Dir. pen. cont.) ha ritenuto che la regola secondo la quale le norme che disciplinano le condizioni ed i requisiti per l'applicazione delle misure alternative sono soggette al principio tempus regit actum e non a quello del divieto di irretroattività in malam partem risulta incompatibile con la nozione sostanzialistica di pena accolta, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, dall'art. 7 della Corte Edu con conseguente emersione di un profilo di legittimità costituzionale per violazione dell'art 117 cost. (nella citata sentenza, per altro, la Corte non ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ritenuta comunque non manifestamente infondata, per difetto di rilevanza ai fini della decisione del ricorso). Tale impostazione è stata recepita da Tribunale di Sorveglianza di Venezia che con ordinanza emessa in data 2 aprile 2019 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art 4-bis ord. penit. come modificato dal'art 1, comma 6, lett. b) della legge 9.01.2019, n.3, nella parte in cui tale norma si applica anche ai reati contro la P.A. commessi anteriormente all'entrata in vigore della predetta legge. Il Tribunale ha ritenuto tale soluzione applicativa (corollario del principio secondo cui le norme che disciplinano le condizioni per l'accesso alle misure alternative non appartengono alla categoria delle norme sostanziali) in contrasto con gli artt 3, 25, comma 2, 27 comma 3, 117 cost. quest'ultimo in relazione all''art 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Le deroghe alla necessità dell'accertamento della collaborazione. Occorre tener presente che vi sono casi nei quali il superamento del divieto di concessione dei benefici penitenziari legato alla commissione di uno dei reati elencati nell'art 4-bis ord. penit. comma 1 prescinde dall'accertamento della collaborazione (effettiva, irrilevante o impossibile). Le deroghe alla regola in forza della quale l'accertamento della collaborazione costituisce una condizione di ammissibilità all'applicazione dei benefici penitenziari (diversi, come ricordato più volte, dalla liberazione anticipata, dai permessi di necessità e dal differimento di esecuzione della pena) presentano sia carattere generale, operanti erga omnes, che particolare ovvero che riguardano soltanto alcune categorie di condannati o alcuni reati particolari.

Appartiene alla prima categoria l'ipotesi dell'avvenuta l'integrale espiazione della quota di pena imputabile al reato ostativo: si pensi, per esemplificare, al caso del detenuto, condannato a 13 anni di reclusione di cui 10 inflitti per il delitto di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti ex art. 74 del d.P.R. 309/1990 e s.m.i. ed anni 3 inflitti in continuazione per il delitto di sostanze stupefacenti: il condannato potrà eventualmente essere ammesso ad espiare la pena in regime di affidamento in prova dopo aver scontato i 10 anni di pena inflitti per il reato associativo, anche senza aver preventivamente ottenuto l'accertamento della collaborazione.

La ratio di questa deroga, elaborata dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo Cass. Sez. I, 20 novembre 2018, n. 32, Buonpane che, in motivazione, richiama i principi enunciati dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 luglio 1994, n. 361) deve essere ravvisata nel principio del favor rei che impone di procedere allo scioglimento del cumulo formale o giuridico in tutti casi nei quali da tale operazione possono derivare conseguenze favorevoli per il condannato (nel caso di specie si tratta della possibilità di accedere ai benefici penitenziari). D'altra parte, come ricordato dalla sentenza Buonpane, il principio della inscindibilità del cumulo “si porrebbe in contrasto…, oltre che col principio di eguaglianza, anche con i principi costituzionali di ragionevolezza e della funzione risocializzante della pena, senza trovare alcuna giustificazione plausibile e razionale nel principio della pena unica, sancito dall'art 76, comma 1 cod. pen.”.

Talvolta lo scioglimento del cumulo può risultare problematico come nel caso del detenuto condannato all'ergastolo (per un delitto non appartenente alla categoria dei delitti ostativi di prima fascia) e ad una pena temporanea inflitta per un delitto ostativo di prima fascia. Rammentato che in questo caso trova applicazione l'inasprimento dell'ergastolo con l'isolamento diurno ex art 72 c.p., la Corte di Cassazione ha chiarito che “allorché si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della già intervenuta espiazione di quest'ultima, tradottasi, per la concorrenza con la pena perpetua, in applicazione dell'isolamento diurno che sia stato interamente eseguito, si deve avere riferimento alla pena temporanea originariamente inflitta, ridotta della metà” (Cass. Sez. I, 2.03.2010, n.18119, Cuccuru, in C.E.D. Cass. n. 247068; Cass. Sez. I, 8.01.2019, Schiavo).

Gli altri casi nei quali i benefici penitenziari sono concedibili a prescindere dal preventivo accertamento della collaborazione sono stati introdotti nel sistema della legge penitenziaria dalla Corte Costituzionale.

Al riguardo devono essere segnalate due importanti decisioni.

La sentenza 22 ottobre 2014 n. 239 relativa alla detenzione domiciliare prevista a favore delle detenute-madri nelle ipotesi di cui all'art 47-quinquies e di cui all'art 47-ter, comma 1, lett. a) e b) ord. penit. Con questa sentenza la Corte muovendo dalla premessa secondo la quale la detenzione domiciliare concedibile alle detenute madri è finalizzata alla tutela dell'interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più normale possibile con la madre in una fase nevralgica del suo sviluppo.

In questa prospettiva subordinare in via assoluta la concessione delle predette misure al preventivo accertamento della collaborazione con la giustizia si traduce in una scelta legislativa che comporta un irragionevole sacrificio dell'interesse del minore (tutelato dall'art. 31 cost.) destinato a risultare sempre soccombente rispetto alle esigenze di difesa sociale con la conseguenza che il costo della strategia di contrasto alla criminalità organizzata viene ad essere trasferito “su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare”. Pertanto se è ragionevole subordinare alla collaborazione con la giustizia l'applicazione di un beneficio penitenziario finalizzato al reinserimento sociale del condannato, non altrettanto può essere detto quando il beneficio penitenziario è prioritariamente diretto alla tutela di un interesse “esterno” (come nel caso di specie ove la detenzione domiciliare prevista a favore delle detenute madri è finalizzato a salvaguardare l'interesse del minore a mantenere un rapporto quanto più possibile normale con la madre). La mancata collaborazione non può dunque ostare alla concessione di un beneficio primariamente finalizzato a tutelare il rapporto tra la madre ed il figlio minore di anni 10.

Nella stessa prospettiva si colloca la sentenza 12.04.2017, n. 76 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art 47-quinquies, comma 1-bis ord. penit. nella parte in cui la norma escludeva le detenute condannate per uno dei delitti previsti dall'art 4-bis comma 1 ord. penit. dalla possibilità di espiare la quota di pena necessaria ai fini della integrazione dei requisiti di ammissibilità alla detenzione domiciliare speciale, in un Istituto di Pena a custodia attenuata, nella propria abitazione o in una struttura di cura o di accoglienza

(Per una applicazione dei principi enunciati dalla Corte costituzionale cfr. Cass. Sez. I, 1 ottobre 2018, n.1029, P.).

Mette conto rammentare, infine, che altri due casi di eccezione alla regola generale che impone l'accertamento della collaborazione come una condizione di ammissibilità ai benefici penitenziari potrebbero essere introdotti dalla Corte Costituzionale in caso di accoglimento di due questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte di Cassazione.

La prima oggetto dell'ordinanza di rimessione 51877/2018, sopra richiamata, riguarda i detenuti condannati all'ergastolo per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni di cui all'art 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dalla norma (quindi una particolare categoria di condannati) limitatamente al beneficio del permesso premio.

La seconda, oggetto dell'ordinanza di rimessione del 21 settembre 2018, riguarda il sequestro di persona a scopo di estorsione e mira ad ottenere dalla Corte costituzionale una sentenza che escluda dal novero dei delitti ostativi di prima fascia ex art 4-bis, comma 1 ord.penit. il reato di cui all'art 630 cod. pen. nel caso in cui per lo stesso sia stata riconosciuta l'attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 2012. Con questa sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art 630 cod. pen. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del fatto o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Secondo la Corte di Cassazione la presunzione di pericolosità che giustifica il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai condannati per il delitto di cui all'art 630 cod. pen. risulta irragionevole ed in contrasto con la finalità rieducativa della pena se tale presunzione viene ritenuta sussistente anche nel caso in cui al condannato sia stata riconosciuta l'attenuante della lieve entità del fatto (nel caso di specie il condannato aveva chiesto la concessione di un permesso premio).

Le argomentazioni svolte dalla Corte di Cassazione sono state riprese dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che con ordinanza 1048/2019 del 14 marzo 2019 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art 4-bis, comma 1 ord. penit. nella parte include nel catalogo dei reati ostativi all'accesso alle misure alternative il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione nel caso in cui al condannato (che nel caso di specie aveva chiesto la concessione dell'affidamento in prova).

L'accoglimento delle predette questioni di legittimità costituzionale consentirebbe dunque al detenuto, condannato per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione con applicazione dell'attenuante della lieve entità del fatto, di beneficiare del permesso premio e dell'affidamento in prova anche senza aver preventivamente ottenuto l'accertamento della collaborazione.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore Generale, ha ritenuto che rispetto alla complessiva vicenda criminosa oggetto del giudizio non vi fosse stata, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di sorveglianza, quell'integrale accertamento dei fatti che costituisce il presupposto indispensabile per la configurabilità della c.d. collaborazione impossibile. Secondo la Corte, invece, il Tribunale anziché limitarsi a prendere in considerazione il solo delitto di omicidio, avrebbe dovuto estendere l'accertamento della impossibilità della collaborazione anche al reato di detenzione di armi, anch'esso appartenente alla categoria dei delitti ostativi di prima fascia ex art. 4-bis, comma 1 ord. penit. perché qualificato dalla finalità di agevolazione mafiosa. La Corte evidenzia come il giudice di merito avesse omesso di verificare se il condannato, in relazione del patrimonio di informazioni di cui disponeva, fosse stato o meno in condizione di fornire indicazioni utili in ordine alla provenienza delle armi ed alla successiva destinazione di esse.

Osservazioni

In tal modo la Corte sembra affermare il principio in forza del quale l'accertamento della collaborazione impossibile deve essere pieno e integrale, dovendo comprendere tutti i reati ostativi quindi non solo il delitto più grave (nel caso di specie l'omicidio) ma anche quelli ad esso connessi (nel caso di specie il porto e la detenzione delle armi utilizzate per commetterlo).

In materia di collaborazione impossibile occorre rammentare che «gli elementi che qualificano tale collaborazione devono essere accertati dal giudice anche d'ufficio, ma la parte ha l'onere di allegare e di prospettare, almeno nelle linee generali, le circostanze idonee a dimostrare l'impossibilità di un utile collaborazione, così da consentire l'esame delle relative richieste nel merito» (Cass. Sez. I, 18 settembre 2018, n. 57898, Floris, inedita; Cass. Sez. I, 24 gennaio 01.2017, n.47044, Sorice, in C.E.D. Cass. n. 271474). In precedenza la Corte aveva avuto occasione di affermare che l'accertamento della collaborazione non deve essere circoscritto ai soli reati compresi nel catalogo dell'art 4-bis ord.penit. , ma deve essere esteso «a tutti i delitti che sono con questi finalisticamente collegati in quanto riconducibili a una medesima risoluzione criminosa, atteso che l'unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e sul suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva» (Cass. Sez. I, 28 settembre 2018, n.7998, Benenati, inedita; Cass. Sez. I, 3 ottobre 2014, n. 43391, Cuffaro, in C.E.D. Cass. n. 261145). In questa prospettiva si è affermato che «la prognosi correlata per l'accesso ai benefici penitenziari, altrimenti preclusi, deve essere, infatti, necessariamente unitaria. Sicché l'eventuale impossibilità della collaborazione con riguardo ai soli reati osativi non esclude la negativa rilevanza della omessa collaborazione per i concorrenti delitti non ostativi e comporta il diniego del riconoscimento della collaborazione impossibile» (Cass. Sez. I, Cuffaro, cit., in motivazione).

Occorre tuttavia precisare che la collaborazione «deve essere specificamente riferita a fatti e a reati oggetto della condanna in relazione alla quale si chiede il beneficio» sicché non può «essere pretesa la collaborazione, con conseguente rigetto dell'istanza di accertamento della sua impossibilità, per i delitti non compresi nelle condanne riportate dall'interessato, sia che si tratti di delitti per i quali il soggetto non è stato nemmeno indagato, sia per quelli per cui è stato assolto o prosciolto» (Cass. Sez. I, Benenati, cit.).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.