La confessione stragiudiziale resa dal soggetto incapace di disporre del diritto in contestazione

Vito Amendolagine
29 Aprile 2019

La relazione predisposta dalla commissione interna dell'Inps al fine di verificare la possibilità di una risoluzione stragiudiziale e di accertare eventuali responsabilità di propri dipendenti, ed inclusa tra gli atti dell'Istituto previdenziale, può essere considerata una confessione stragiudiziale?
Massima

L'assenza di un potere rappresentativo in capo al mandatario comporta la sua incapacità a rendere dichiarazioni confessorie in luogo del mandante.

Il caso

La quaestio juris sollevata dinanzi ai giudici di legittimità verte sul valore di confessione stragiudiziale della relazione predisposta dalla commissione interna presso l'Inps, ritenuta dal ricorrente attribuibile in quanto espressione del mandato conferito dal medesimo Ente previdenziale al fine di verificare la possibilità di addivenire ad una risoluzione stragiudiziale dell'insorta controversia, anche sulla scorta del rilievo che detta relazione è un documento proveniente da una delle parti, destinato ad essere utilizzato come prova diretta ai sensi dell'art. 116 c.p.c., atteso il suo mancato disconoscimento, e le cui risultanze, andavano quindi considerate alla luce degli esiti della espletata prova testimoniale.

La questione

La relazione predisposta dalla commissione interna dell'Inps al fine di verificare la possibilità di una risoluzione stragiudiziale e di accertare eventuali responsabilità di propri dipendenti, ed inclusa tra gli atti dell'Istituto previdenziale, può essere considerata una confessione stragiudiziale?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione rigetta il ricorso, motivando la sua decisione con il contenuto della relazione che riguarda valutazioni e non fatti come invece prevede l'art. 2730 c.c., osservando come in ogni caso nessuna efficacia confessoria potrebbe riconoscersi alla suddetta relazione, dal momento che la commissione che l'ha predisposta in qualità di mandataria dell'Ente previdenziale non risulta essere stata investita di alcun potere rappresentativo da parte del consiglio di amministrazione dell'Inps, con la conseguente esclusione di qualunque capacità della medesima commissione di disporre del diritto in contestazione, in assenza della quale, non può riconoscersi valore confessorio alle risultanze delle relative indagini compiute dalla mandataria.

Osservazioni

L'art. 2731 c.c. enuncia che la confessione non è efficace se non proviene da persona capace di disporre del diritto, a cui i fatti confessati si riferiscono. Qualora sia resa da un rappresentante, è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui questi vincola il rappresentato.

La sentenza in epigrafe resa dalla Suprema corte è dunque conforme ai precedenti di legittimità laddove affermano il principio – ribadito con la sentenza in commento – che l'efficacia probatoria della confessione postula che essa sia resa da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono, ossia da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente riguardo alla controversia in questione, a causa degli effetti di prova legale che vi si ricollegano a norma degli artt. 2733 e 2735 c.c., i quali stabiliscono che la confessione, tanto se giudiziale quanto se stragiudiziale, fa piena prova contro colui che l'ha fatta, purchè non verta su fatti relativi a diritti non disponibili (Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2013, n.15538), precisazione, questa, di per sè sufficiente a dimostrare che l'art. 2731 c.c. non si riferisce affatto, del tutto superfluamente, a tali diritti, bensì alla capacità correlata allo stato del soggetto confitente, e, cioè alla capacità di disporre – da non confondersi con la disponibilità del diritto – atteso che la stessa norma innanzi richiamata prosegue coerentemente affermando che la confessione, «qualora sia resa dal rappresentante, è efficace solo se fatto entro i limiti e nei modi in cui questi vincola il rappresentato» (Cass. civ., sez. II, 6 aprile 1995, n.4015).

Infatti, secondo una ormai risalente giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 6 aprile 1995, n.4015, cit.), nella previsione del legislatore il confessare, come pure il giurare ed il deferire o riferire il giuramento – lo si inquadri in astratto tra gli atti negoziali o tra le mere dichiarazioni di scienza – equivale a disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono, e richiede, quindi, la stessa capacità, che è di carattere sostanziale, tanto che attiene ad entrambi i tipi di confessione, giudiziale e stragiudiziale, sicché non va confusa con la capacità processuale richiesta dall'art. 75 c.p.c..

In buona sostanza, poichè la confessione deve provenire dal soggetto legittimato in senso sostanziale a disporre del diritto controverso, non hanno valore confessorio le dichiarazioni rese da chi, come mandatario, pur legittimato ad agire, non sia titolare del diritto su cui verte la lite (Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2008, n. 28711; Cass. civ., sez. III, 6 luglio 1990, n.7125, in cui si è precisato che poichéla confessione riveste valore di prova solo quando il confitente abbia la disponibilità del diritto, deve provenire da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente rispetto alla controversia in questione, occorrendo altresì che il rapporto di rappresentanza sia in vita nel momento in cui il rappresentante rende la confessione, e che nel caso di confessione resa da un rappresentante, essa è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui questi vincola il rappresentato ex art. 2731,c.c., tenendo presente che i suddetti limiti, nel caso della rappresentanza volontaria, trovano la relativa fonte nella procura generale o speciale che abiliti espressamente il rappresentante a disporre del diritto controverso, mentre in quello della rappresentanza legale, sono invece segnati dalla legge: Cass. civ., sez.II, 30 novembre 1989, n.5264; Cass. civ., sez. III, 12 novembre 1981, n. 5978).

L'orientamento sopra evidenziato emerso nella giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni, è coerente con l'idea di fondo espressa dall'opinione dominante secondo cui la confessione – giudiziale o stragiudiziale – è considerata essenzialmente sotto l'aspetto sostanziale, costituendo un atto giuridico in senso stretto.

Ciò lo si desume chiaramente dal tenore dell'art. 2731 c.c., laddove prevedendo che la confessione non è efficace se non proviene da persona che è capace di disporre del diritto, equipara la confessione ad un atto di disposizione (Su tale punto specificamente considerato cfr. Cass. civ., sez. VI, 9 novembre 2017, n.26623; Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2006, n.3188,in cui si afferma chela ratio della norma è individuabile nel fatto che la confessione, quale prova legale, produce effetti sostanzialmente equivalenti agli atti di disposizione del diritto).

Guida all'approfondimento

V. Andrioli, Confessione, in Nss. Dig. It., Torino, 1959, 20

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