Ripartizione interna degli affari e questione di competenza
02 Maggio 2019
Massima
Qualora una questione di distribuzione degli affari civili all'interno dello stesso ufficio giudiziario sia stata erroneamente qualificata dal giudice come questione di competenza, il mezzo di impugnazione esperibile avverso la decisione che abbia riguardato solo questo punto è il regolamento necessario di competenza, in applicazione del principio dell'apparenza. Il caso
Il lavoratore Tizio si rivolgeva al giudice del lavoro presso il tribunale di Bergamo, proponendo domanda di condanna al pagamento di somme di denaro nei confronti della società Alfa e del Fallimento della società Beta, la prima quale committente dell'appalto nell'ambito del quale egli aveva prestato la propria opera alle dipendenze della società Beta “in bonis”. Il Giudice del lavoro dichiarava, con ordinanza, la competenza del locale tribunale fallimentare in ordine alla predetta domanda. Tizio proponeva ricorso per regolamento di competenza, chiedendo che venisse dichiarata la competenza del giudice del lavoro limitatamente alla domanda proposta nei confronti della società Alfa. La questione
La questione in esame attiene all'impugnabilità, ed eventualmente con quale mezzo, della pronuncia con cui la ripartizione di affari tra sezioni operanti all'interno dello stesso ufficio giudiziario sia stata erroneamente qualificata e decisa come questione di competenza. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte richiama, in primo luogo, il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la ripartizione, all'interno del medesimo ufficio, degli affari tra sezioni ordinarie, da un lato, e sezioni specializzate in materia di impresa, lavoro e fallimento, dall'altro, non attiene a questioni di competenza per materia, trattandosi di mera distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio, con la conseguenza che non è configurabile rispetto ai provvedimenti inerenti a tale questione il ricorso per regolamento di competenza (Cass. civ., 1° giugno 2018, n. 14137; Cass. civ., 27 ottobre 2016, n. 21774; Cass. civ., 20 settembre 2013, n. 21668; Cass. civ., 22 novembre 2011, n. 24656). In ordine, però, all'impugnabilità del provvedimento che abbia deciso una questione di distribuzione degli affari civili all'interno dello stesso ufficio giudiziario, qualificandola erroneamente come questione di competenza e non, invece, di ripartizione degli affari interna allo stesso ufficio, si contrappongono due orientamenti. Secondo il primo, al quale aderisce la pronuncia in commento, il mezzo di impugnazione esperibile contro la decisione che abbia riguardato solo tale questione è, in applicazione del principio dell'apparenza, il regolamento necessario di competenza (Cass. civ., 29 marzo 2018, n. 7882; Cass. civ., 6 marzo 2014, n. 5313). Altra tesi propugna, invece, l'inammissibilità del predetto regolamento, non potendosi, in contrario, invocare il principio dell'apparenza, idoneo a regolare la scelta del mezzo di impugnazione, ma non anche a decidere dell'impugnabilità o meno del provvedimento giudiziale, atteso che il regime da applicarsi ad un atto processuale, anche ai fini della relativa impugnabilità, è definito dalla sua sostanza, non dalla sua forma (Cass. civ., 5 maggio 2015, n. 8905). Ritenuto ammissibile il proposto regolamento, la Corte accoglie il ricorso nel merito, ritenendo di dover dare continuità al principio secondo cui l'autonomia delle azioni di condanna proponibili da un creditore nei confronti di più condebitori in solido opera anche nel caso di fallimento di uno di essi, con la conseguenza che, mentre l'azione verso il fallito rende necessario il ricorso alla procedura speciale di insinuazione al passivo del credito (determinando, nel contempo, l'improcedibilità della medesima domanda proposta in sede ordinaria), l'azione nei confronti del condebitore “in bonis” può senz'altro proseguire in sede ordinaria (Cass. civ., 15 febbraio 2016, n. 2902; Cass. civ., 2 febbraio 2010, n. 2411). Osservazioni
La pronuncia in esame pone una serie di questioni per nulla pacifiche nell'attuale panorama giurisprudenziale. In ordine all'impugnabilità o meno del provvedimento giudiziale, deve rilevarsi che l'individuazione dello specifico mezzo di impugnazione esperibile va fatta in base al principio dell'apparenza, e cioè con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione proposta effettuata dal giudice “a quo”, sia essa corretta o meno, e a prescindere dalla qualificazione che ne abbiano dato le parti (Cass. civ., 8 gennaio 2019, n. 210; Cass. civ., 6 febbraio 2018, n. 2811); tuttavia, occorre altresì verificare se il giudice “a quo” abbia inteso effettivamente qualificare l'azione proposta, o se abbia compiuto, con riferimento ad essa, un'affermazione meramente generica. In tal caso, ove si ritenga che il potere di qualificazione non sia stato esercitato dal giudice “a quo”, esso può essere legittimamente esercitato dal giudice “ad quem”, e ciò non solo ai fini del merito, ma anche dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione (Cass. civ., 2 marzo 2012, n. 3338). Il diverso principio della prevalenza della sostanza sulla forma, invece, si applica nel caso in cui il giudice, per errore, emetta un provvedimento in una forma diversada quella prescritta dalla legge. Pertanto, se il provvedimento ha contenuto decisorio, esso è sostanzialmente una sentenza e, come tale, è impugnabile ed idoneo a passare in giudicato, anche se erroneamente emesso in forma di ordinanza; se, invece, la sentenza ha contenuto istruttorio o ordinatorio, allora il provvedimento ha natura di ordinanza e, come tale, non può essere impugnata, ma è revocabile e modificabile (Cass. civ., 7 aprile 2006, n. 8174; Cass. civ.,Sez.Un.,24 ottobre 2005, n. 20470). Ciò che rileva, quindi, al fine di stabilire se un provvedimento del giudice abbia carattere di sentenza o di ordinanza, non è la forma esteriore o la denominazione o qualificazione attribuitagli dal giudice che lo ha pronunciato, bensì il contenuto sostanziale del provvedimento stesso e l'effetto giuridico che esso è destinato a produrre (Cass. civ.,Sez.Un.,9 giugno 2004, n. 10946). In ordine alla seconda questione emergente dalla pronuncia in commento, deve rilevarsi che effettivamente, secondo la tesi tradizionalmente sostenuta, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio. Ne consegue, ad esempio, che, ove il tribunale ordinario abbia impropriamente dichiarato la propria incompetenza per essere competente il giudice del lavoro presso lo stesso ufficio, è inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l'indicata pronuncia, poiché il tribunale avrebbe dovuto disporre soltanto il cambiamento del rito e la conseguente rimessione al capo dell'ufficio per la relativa assegnazione al giudice del lavoro (Cass. civ., 13 febbraio 2013, n. 3617). Il predetto principio non opera, però, in relazione ai rapporti tra il tribunale in composizione ordinaria e la sezione specializzata agraria, riconducibili ad una questione di competenza per materia, con conseguente applicabilità del regime di cui all'art. 38 c.p.c., secondo cui l'incompetenza non può essere eccepita dalle parti o rilevata d'ufficio dopo la prima udienza di trattazione, per cui la competenza rimane definitivamente radicata presso il giudice adito anche se in relazione alla natura della controversia si debba disporre il mutamento del rito (da lavoristico ad ordinario o viceversa), in quanto il relativo provvedimento non incide sulla preclusione già verificatasi spostando il termine per l'eccezione o il rilievo d'ufficio (Cass. civ., 12 febbraio 2013, n. 3292; Cass. civ., 13 marzo 2007, n. 5829). Di recente, inoltre, si è generata una vera e propria discrasia nella giurisprudenza di legittimità in ordine all'applicazione del medesimo principio in relazione alla sezione specializzata in materia d'impresa (istituita ai sensi dell'art. 3 d.lgs. n. 168/2003, come modificato dall'art. 2 d.l. n. 1/2012, conv. con modif. nella l. n. 27/2012). Secondo un primo orientamento, infatti, l'ordinanza con la quale il giudice istruttore trasmette al presidente del tribunale gli atti relativi ad un causa per la sua assegnazione alla sezione specializzata dello stesso tribunale in materia d'impresa non è qualificabile come una vera e propria decisione sulla competenza, configurandosi piuttosto come un provvedimento a valenza meramente amministrativa, con la conseguenza che:
Altra tesi, invece, assume che la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale ed il giudice del lavoro implica l'insorgere di una questione di competenza e non di mera ripartizione degli affari, attesa la mancata istituzione della sezione specializzata presso ogni distretto, realizzandosi, diversamente, una asimmetria del sistema tra l'ipotesi in cui la declaratoria di competenza sia emessa nell'ambito di un tribunale presso il cui distretto non risulti dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero, per contro, sia invece istituita, sicché solo nel primo caso, in violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost., sarebbe proponibile dalla parte il rimedio del regolamento di competenza (Cass. civ., 24 luglio 2015, n. 15619). Inoltre, si è rilevato che le sezioni specializzate in materia di impresa sono investite di una peculiare competenza per materia e per territorio che si estende ad un bacino ben più ampio di quello del tribunale o della corte d'appello presso cui sono istituite; esse, pertanto, dispongono di una propria autonoma competenza, quale misura della giurisdizione, diversa e più ampia da quella dell'ufficio giudiziario presso cui sono istituite, essendo competenti, in parte, riguardo a controversie per le quali il tribunale e la corte d'appello di appartenenza non lo sarebbero. Ne consegue che l'ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza è impugnabile mediante l'istanza di regolamento ex art. 42 c.p.c. (Cass. civ., 28 febbraio 2018, n. 4706). Da ultimo, nel tentativo di conciliare i due contrapposti orientamenti, si è precisato che qualora una controversia rientrante fra quelle attribuite alla sezione specializzata in materia di impresa venga promossa non presso una sezione ordinaria del medesimo ufficio giudiziario nel quale è istituita, situazione che genererebbe un problema di ripartizione interna degli affari, ma dinanzi ad un differente tribunale, sorge allora una vera e propria questione di competenza, con conseguente ammissibilità dell'istanza ex art. 45 c.p.c., poiché la legge riconosce alla summenzionata sezione specializzata una competenza per materia e territorio distinta e più ampia rispetto a quella del proprio ufficio di appartenenza, che rende il tribunale in concreto adito anche “territorialmente” errato (Cass. civ., 3 dicembre 2018, n. 31134). Infine, anche la ripartizione degli affari giurisdizionali tra sede centrale e sezioni distaccate (queste ultime quasi tutte soppresse con d.lgs. n. 155/2012 e ss. modif., a decorrere dal 13 settembre 2013) del medesimo Tribunale non involge problemi di competenza in senso stretto, bensì inerisce a questioni di distribuzione di controversie nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario (Cass. civ., 2 novembre 2010, n. 22278, secondo cui non può porsi alcuna questione neppure di litispendenza o continenza), sulle quali, eccepite dalle parti o rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di prima comparizione, provvede, sempreché non manifestamente infondate, il Presidente del Tribunale con decreto non impugnabile ex art. 83-ter disp. att. c.p.c. (Cass. civ., 18 settembre 2003, n. 13751). |