Il diritto del lavoro nel Codice della crisi e dell’insolvenza

Alessandro Corrado
06 Maggio 2019

Tra le norme del Codice della crisi e dell'insolvenza in tema di liquidazione giudiziale trovano cittadinanza sia la disciplina degli effetti dell'apertura della procedura sui rapporti di lavoro (mutuata da un annoso dibattito di giurisprudenza e dottrina) sia l'innovativo istituto della risoluzione di diritto.
Premessa

Tra le norme del Codice della crisi e dell'insolvenza in tema di liquidazione giudiziale trovano cittadinanza sia la disciplina degli effetti dell'apertura della procedura sui rapporti di lavoro (mutuata da un annoso dibattito di giurisprudenza e dottrina) sia l'innovativo istituto della risoluzione di diritto. Il concordato preventivo in continuità diretta ed indiretta si propone di salvaguardare i livelli occupazionali. Il coordinamento con la disciplina del diritto del lavoro recepisce in modo più chiaro i principi stabiliti da Direttiva e Corte di Giustizia in materia di trasferimento d'azienda e facilita l'accesso al Fondo di garanzia per TFR ed ultime tre mensilità maturati presso il cedente, anche in caso di trasferimento del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità.

Liquidazione giudiziale: tra continuazione, sospensione e risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro

Il Codice della Crisi e dell'Insolvenza disciplina per la prima volta in modo organico la sorte dei rapporti di lavoro subordinato in caso di insolvenza dell'imprenditore.

L'art. 189, che entrerà in vigore il 15 agosto 2020, con nove corposi commi recepisce gli orientamenti della giurisprudenza che, all'esito di un annoso dibattito, sono oggi ritenuti pacifici (vd. ex multis Cass. n. 7473/2012): viene finalmente dato un fondamento normativo alla soluzione della sospensione dei rapporti, che per lungo tempo è stata frutto di semplice elaborazione giurisprudenziale.- Essa interviene in modo automatico con l'apertura della procedura di liquidazione, in attesa che il curatore comunichi per iscritto se subentrarvi o recedere. La decisione – subordinata all'”autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori” solo nel casi di subentro – dev'essere comunicata per iscritto.

Il mancato esercizio della facoltà di subentrare nei rapporti, protratto per oltre quattro mesi dalla data di apertura della procedura, comporta l'automatica risoluzione di diritto del contratto di lavoro (comma 3). Questa è senza dubbio una delle più rilevanti novità del Codice: essa, infatti, sembra poter operare in modo automatico e quindi senza bisogno che il curatore comunichi alcunché in forma scritta, rischiando di creare un conflitto con quanto dispone l'art. 2, legge n. 604/1966, a norma del quale – a pena di inefficacia – “il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro” (comma 1) e “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato” (comma 2).

In attesa di un'opportuna elaborazione della prassi utile a scongiurare l'insorgere di questioni spinose quale quella appena ventilata, occorrerà in ogni caso verificare come coordinare tale norma con la previsione dell'art. 4-bis del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181 che impone di comunicare la cessazione del rapporto “al Servizio competente nel cui ambito territoriale è ubicata la sede di lavoro” nonché soprattutto con l'esigenza del lavoratore di accedere alla NASpI. Sotto il secondo profilo, poiché secondo l'art. 4-bis tale comunicazione è valida “ai fini dell'assolvimento degli obblighi di comunicazione nei confronti delle direzioni regionali e provinciali del lavoro” e, tra gli altri, anche “dell'Istituto nazionale della previdenza sociale”, essa sembra sufficiente a garantire al lavoratore l'accesso al beneficio senza ulteriori formalità. Ci si augura che tale innovativa soluzione non crei più problemi di quanti non ne intenda risolvere.

La risoluzione di diritto è poi doverosamente coordinata con le norme in tema di licenziamenti collettivi: com'è noto, infatti, la Cassazione – nella vigenza dell'art. 72, R.D. n. 267/1942 – ha stabilito che anche in caso di cessazione dell'attività conseguente a fallimento il curatore è tenuto a esperire la relativa procedura, in mancanza della quale il lavoratore può far valere l'illegittimità del recesso (per tutte, la recente Cassazione n. 522/2018). Pertanto, nel caso in cui ricorrano i requisiti previsti dalla legge n. 223/1991, in presenza dei quali è obbligatorio esperire la relativa procedura (in proposito, per la liquidazione giudiziale, l'art. 189, comma 6 ne detta una ad hoc, ricalcata su quella prevista dalla legge 223/1991), il curatore non potrà contare sulla risoluzione di diritto, ma dovrà necessariamente attivare il confronto con le organizzazioni sindacali, a pena di illegittimità dei recessi.

La durata della sospensione è prorogabile sino a un massimo di otto mesi, quando sussista una prospettiva di ripresa dell'attività o di trasferimento di azienda (art. 189, comma 4, c.c.i.). Al termine della proroga, il rapporto del lavoratore sospeso al quale poi il curatore non comunichi il recesso o il subentro, si intende risolto di diritto, ma al dipendente spetta un'indennità in prededuzione modulata sullo schema delle tutele crescenti, che può raggiungere – a seconda dell'anzianità del lavoratore – un massimo di otto mensilità.

Tale previsione pare collocarsi a metà strada tra un ammortizzatore sociale a favore del lavoratore, che tuttavia interverrebbe solo alla conclusione del rapporto, ed una sanzione per l'operato di un curatore che – poco solerte nel gestire con la dovuta accortezza i rapporti pendenti – abbia contribuito all'insorgere di crediti in prededuzione.

In effetti, i lavori preparatori avevano previsto l'intervento di un apposito ammortizzatore sociale per il periodo di sospensione (c.d. NASpI L.G., liquidazione giudiziale, prevista dall'art. 195 dello schema di decreto legislativo dell'ottobre 2018), che – dopo l'abrogazione dell'art. 3 legge 223/1991 – avrebbe soddisfatto la necessità di assicurare ai lavoratori una rete di protezione dando al contempo respiro agli organi della procedura nel periodo necessario ad esplorare le possibilità di ricollocare gli attivi dell'impresa in crisi. Difatti, “lo stato di sospensione del rapporto di lavoro nella liquidazione giudiziale” veniva equiparato “allo stato di disoccupazione” con conseguente applicazione, in quanto compatibili, dei servizi e delle misure di politiche attive del lavoro previste dalla disciplina vigente” e conseguente diritto di “un trattamento equivalente a quello di NASpI a partire dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Tuttavia, poiché sulle disposizioni del decreto legislativo è calata la scure della c.d. invarianza finanziaria (l'attuazione dovrà cioè avvenire – secondo l'art. 391, c.c.i. – “nel limite delle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”), dal testo finale è stata eliminata la NASpI L.G. Si è probabilmente trattato di un eccesso di prudenza: infatti, la misura era stata congegnata in modo che “la sommatoria del trattamento spettante per la fase di sospensione del rapporto e del trattamento spettante per il tempo successivo alla cessazione del rapporto” non avrebbe potuto “superare la durata massima prevista dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.

Titolati a chiedere la proroga della sospensione dei rapporti di lavoro, oltre a Curatore e Direttore dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo dov'è stata aperta la liquidazione giudiziale, sono, in modo opportuno, anche i singoli lavoratori, personalmente o a mezzo di difensore: difatti, dal momento che proprio questi sono i primi interessati alla continuità aziendale, anche indiretta, o in qualità di vero e proprio soggetto imprenditoriale che, con l'aiuto di qualche leva finanziaria, rilevi per intero o anche solo in parte il complesso aziendale con un'operazione di Workers Buy Out.

La durata della proroga, si è detto, non è fissa: il giudice delegato può infatti assegnare al curatore “un termine non superiore a otto mesi”, ritenuto quindi sufficiente per esperire gli adempimenti necessari al trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo.

Trascorsi quattro mesi dall'apertura della liquidazione (e quindi nel solo caso in cui la sospensione del rapporto sia stata prorogata), il lavoratore che si dimetta non dovrà provare la giusta causa del recesso: questa viene riconosciuta automaticamente con effetto dalla data di apertura della procedura (comma 5, art. 189 c.c.i.), con conseguente diritto ad insinuare al passivo la relativa indennità sostitutiva del preavviso in via privilegiata ai sensi dell'art. 2751-bis n. 1 c.c.

Il medesimo grado di privilegio viene riconosciuto all'indennità sostitutiva del preavviso in caso di recesso del curatore, licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto, così come al c.d. ticket di licenziamento dovuto ai sensi dell'art. 2, comma 31, legge n. 92/2012 (comma 8, art. 189 c.c.i.).

L'ultimo comma dell'articolo 189 del c.c.i. regolamenta l'ipotesi di prosecuzione dei rapporti di lavoro nel caso di esercizio dell'impresa, previsto dall'art. 211 c.c.i. Tale norma va coordinata con quanto disposto dal comma 2, secondo il quale “il subentro del curatore nei rapporti di lavoro subordinato sospesi decorre dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori”. In tal caso, l'indennità sostitutiva del preavviso dovuta in caso di licenziamento dovrà essere riconosciuta in prededuzione (cfr. Cass. n. 1832/2003) al pari dei ratei di fine rapporto e delle quote di trattamento di fine rapporto maturate dopo la data di apertura della procedura.

Il coordinamento con la disciplina del diritto del lavoro: le deroghe in caso di trasferimento d'azienda, le novità riguardanti il Fondo di garanzia Inps

Oltre ad interventi puntuali sulla sorte dei rapporti di lavoro in caso di avvio della liquidazione giudiziale, il decreto legislativo ha previsto una serie di norme di coordinamento con la disciplina giuslavoristica in materia di licenziamenti collettivi, trasferimenti di azienda e fondo di garanzia INPS, riunite nell'art. 368.

Quanto ai primi, viene chiarito che la violazione della procedura nel caso di liquidazione giudiziale comporterà le medesime conseguenze previste dalla legge 223/1991 o dal Jobs Act, a seconda che il rapporto di lavoro sia sorto prima o dopo il 7 marzo 2015: reintegrazione nel posto di lavoro nel primo caso, indennità a tutele crescenti (come è noto recentemente modificata dal Decreto Dignità e dalla Corte Costituzionale) nel secondo.

Nel caso di trasferimento di azienda, la procedura di consultazione con le organizzazioni sindacali prevista dall'art. 47, legge n. 428/1990 è coordinata con la disciplina delle offerte e proposte concorrenti: pertanto, la comunicazione di avvio della procedura potrà essere inviata anche da chi intende proporre offerta di acquisto dell'azienda o proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell'imprenditore in crisi.

Inoltre, come previsto dalla legge delega, la disciplina italiana è stata armonizzata con la Direttiva europea n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001 in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori nei trasferimenti di azienda, in modo più conforme di quanto non avvenuto dopo la condanna della Corte di Giustizia UE (sentenza 11 giugno 2009, causa C-561/07). Difatti, il nuovo comma 4 bis dell'art. 47, legge n. 428/1990 (riformulato dall'art. 368, comma 4b) stabilisce che quando il trasferimento riguardi aziende per le quali (a) sia stata aperta la procedura di concordato preventivo in continuità indiretta ai sensi dell'art. 84, comma 2, c.c.i.; (b) vi sia stata l'omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, di carattere non liquidatorio; (c) è stata disposta l'amministrazione straordinaria ai sensi del d.lgs. n. 270/1999 in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività, l'accordo sindacale raggiunto all'esito delle consultazioni sindacali “con finalità di salvaguardia dell'occupazione” può limitare la portata dell'art. 2112 c.c. “per quanto attiene alle condizioni di lavoro”, fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro.

Il comma 4 lett. c) dell'art. 368, c.c.i., riscrive il comma 5 dell'art. 47, dedicato alle procedure c.d. liquidatorie che abbiano cessato l'attività, senza tuttavia modificarne l'impianto originario: alle parti stipulanti dell'accordo viene infatti concessa la possibilità di derogare ai commi 1, 2 e 3 dell'art. 2112 c.c., rispettivamente diretti a tutelare passaggio del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità da cedente a cessionario, responsabilità solidale tra cedente e cessionario e mantenimento dei medesimi trattamenti economici e normativi goduti dal lavoratore presso il cedente. Viene inoltre esplicitata la possibilità di stipulare accordi individuali, “anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro”, da sottoscriversi nelle sedi di cui all'art. 2113, ult. comma, c.c., come del resto la prassi già prevede da lungo tempo, in considerazione dell'incertezza dell'efficacia soggettiva degli accordi derogatori collettivi.

Viene infine stabilito che anche in caso di trasferimento in continuità di rapporto, i crediti per TFR, così come i crediti di lavoro “diversi dal TFR” (vale a dire le ultime tre mensilità da corrispondere ai sensi dell'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 80/1992) verso l'impresa in crisi divengono esigibili verso di questa (e quindi verso il Fondo di garanzia INPS, nel caso di sua insolvenza) al momento del trasferimento del rapporto di lavoro al cessionario, e non più al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Conclusioni

All'esito di questa sintetica panoramica sulle principali novità della riforma riguardanti le tutele dei lavoratori, si può affermare che il difficile compito di trovare il giusto equilibrio nel permanente conflitto tra tutela dei diritti dei lavoratori ed interessi dei creditori, motivato principalmente dal fatto che per i secondi è prioritario mantenere per quanto possibile inalterata l'integrità del patrimonio del debitore sul quale dovranno soddisfarsi, minacciato invece dall'obiettivo dei primi che mira in modo preminente alla prosecuzione del rapporto ed al pagamento delle relative retribuzioni, sia in gran parte riuscito.

Permangono in modo inevitabile delle aree di incertezza, come, ad esempio quella riguardante la retrocessione dell'azienda alla liquidazione giudiziale che – trovando ora la propria disciplina nell'art. 212 c.c.i. in modo sostanzialmente analogo all'art. 104-bis R.D. n. 267/1942 – lascia invariata la soluzione elaborata dalla più recente giurisprudenza di merito che impone un sacrificio ai diritti dei lavoratori c.d. retrocessi finalizzato al mantenimento dei valori attivi a favore dei creditori (Trib. Monza 19 novembre 2013 e Trib. Milano, 05 maggio 2015, www.ilcaso.it).

Bisognerà verificare se il requisito previsto dal comma 2 dell'art. 84, c.c.i. ai fini dell'individuazione del concordato preventivo in continuità aziendale diretta o indiretta (ovvero “il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione”, e quindi solo di una parte del totale) non sia tale da inficiare la conformità alla Direttiva n. 2001/23/CE faticosamente raggiunta con la nuova formulazione del comma 4-bis dell'art. 47, legge n. 428/1990 nei termini sopra considerati.

Per la soluzione di tali questioni e di quelle che inevitabilmente si affacceranno al momento delle prime applicazioni pratiche delle nuove norme, non resta che attendere l'elaborazione della prassi.

Guida all'approfondimento

Un'aggiornata rivisitazione della tematica qui trattata alla luce delle modifiche apportate dal Codice può leggersi – nel quadro di un più generale commento della Riforma - in Lamanna, Il Codice della crisi e dell'insolvenza (III), Titoli IV-V, Milano, 2019.

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