Concordato in continuità mediante affitto di azienda: le notevoli implicazioni della pronuncia della Cassazione

Luigi Amerigo Bottai
07 Maggio 2019

Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall'art. 186-bis I.fall. è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nell'ipotesi dell'affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto - recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda - può costituire...
Massima

Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall'art. 186-bis l.fall. è configurabile anche quando l'azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell'ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l'azienda sia esercitata dal debitore o, come nell'ipotesi dell'affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d'affitto - recante, o meno, l'obbligo dell'affittuario di procedere, poi, all'acquisto dell'azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) - può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile.

Il caso

Importante presa di posizione dei Giudici di legittimità su un tema assai dibattuto: se sussista continuità aziendale, ai sensi e per gli effetti delle norme degli artt. 186-bis e 182-quinquies l.fall., ove il debitore abbia affittato l'azienda, anche prima del deposito del ricorso prenotativo, e la domanda di regolazione della crisi proponga la soddisfazione dei creditori mediante cessione separata dei beni strumentali all'attività d'impresa, in costanza di affitto. Il Tribunale di Firenze, con provvedimenti dell'11.5.2016, aveva dichiarato inammissibile la proposta di concordato (e quindi il fallimento della proponente) che prevedeva, appunto, la cessione atomistica degli immobili destinati ad albergo-ristorante e dei beni strettamente funzionali all'esercizio dell'attività alberghiera; trattandosi, però, di “beni potenzialmente idonei ed organizzati per un'attività aziendale” difettava l'attestazione ex art. 186-bis, comma 2, lett. b), sulla convenienza per i creditori della prosecuzione dell'attività [analogamente si era pronunciato Trib. Roma, decr. 27.1.2015 (ined.), che evidenziò come la temporanea cessazione dell'attività d'impresa non significasse necessariamente la perdita della residua potenzialità aziendale, con la conseguenza che l'affitto di parte rilevante dei beni strumentali avrebbe comunque dato vita ad una circolazione e/o trasmissione dell'azienda o di suoi rami e non dei singoli beni atomisticamente considerati - ndr], e mancava altresì il rispetto del termine annuale di moratoria per i crediti privilegiati.

Su reclamo della società debitrice la Corte d'appello di Firenze revocava la sentenza di fallimento e il contestuale decreto di inammissibilità del concordato preventivo, rimettendo gli atti al Tribunale per i provvedimenti di cui all'art. 163 l.fall. La Corte di merito ritenne, in particolare (per quanto di interesse), che un concordato non potesse definirsi in continuità “per il fatto che fosse in corso un contratto di affitto di azienda”, dovendo qualificarsi tale solo quello in cui sia ravvisabile “l'assunzione del rischio” della prosecuzione dell'attività d'impresa in capo al proponente e, in definitiva, sui creditori di quest'ultimo.

A siffatta conclusione conduceva, ad avviso della Corte, sia il dato testuale della disposizione dell'art. 186-bis – che non contempla l'affitto d'azienda fra le possibili opzioni -, sia la ratio dell'insussistenza di un rischio d'impresa per il concedente/locatore, il quale si limita a riscuotere i canoni di affitto (nella fattispecie, poi, il contratto d'affitto non era neppure preordinato alla cessione dell'azienda). E la previsione della separata alienazione degli immobili e dei beni strumentali, pur in assenza di proposte di acquisto, non avrebbe costituito cessione di azienda in esercizio “nel senso implicito nella norma in questione”, che invece concerne soltanto la “previsione di soddisfacimento dei creditori attraverso i profitti generati dall'azienda ceduta, in quanto solo in questo senso essa avrebbe rilievo per i creditori” (con la necessità di indicare costi e ricavi attesi della prosecuzione, le coperture finanziarie e di asseverarne la funzionalizzazione alla migliore soddisfazione dei creditori).

La sentenza d'appello, al pari di un minoritario orientamento dottrinale, s'incentrava, in sostanza, sul ruolo del rischio d'impresa, assente nell'ipotesi di vendita del complesso aziendale in pendenza di affitto.

Il ricorso della curatela fallimentare viene accolto dal Collegio della Prima Sezione della Cassazione, che cassa la decisione di merito e detta il principio riportato in apertura.

Le questioni giuridiche e la soluzione della Cassazione

Con la sentenza in commento la Suprema Corte si pronuncia per la volta ex professo sulla rilevante questione della qualificazione del concordato preventivo in presenza di affitto di azienda (e di ramo d'azienda). Seguendo una metodologia apprezzabile, il Collegio procede all'esame dei motivi di ricorso premettendo “alcune considerazioni di carattere generale” che, in una materia suscettibile di opposte interpretazioni, appaiono indispensabili; il fatto che dette considerazioni traggano spunto da “opinioni dottrinali” denota l'utilità delle discussioni e dei contributi che ciascun operatore - in special modo gli aziendalisti - è chiamato ad apportare nell'evoluzione di una branca del diritto non più confinata nello spazio angusto dei principi concorsualistici, ma che veleggia speditamente verso nuovi lidi (ci si riferisce all'ormai affermato diritto della crisi d'impresa e al limitrofo diritto societario della crisi: v., per tutti, P. Montalenti, ora in Diritto dell'impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi: appunti, Giur. Comm., 2018, I, 62 ss.; U. Tombari, Principi e problemi di “diritto societario della crisi”, Riv. Soc., 2013, 1138 ss.).

La dichiarazione d'esordio della sentenza, trasponendo (senza menzionarli) i contenuti obbligatori degli artt. 2486 e 2487, comma 1, lett. c) c.c., chiarisce che “il patrimonio del debitore, già dal momento della sua incapienza, è virtualmente destinato ai suoi creditori, sicché il diritto della crisi d'impresa considera prioritario salvaguardarne l'integrità. Ciò può richiedere anche il tentativo di mantenere l'impresa in attività, quando essa sia ancora dotata di un valore d'avviamento: valore che verrà, poi, destinato ai creditori nelle forme che concretamente assumerà la soluzione della crisi”. In realtà non è l'avviamento a venire in rilievo, atteso che può essere anche negativo (cd. badwill), bensì, più propriamente il cd. valore dell'organizzazione dell'impresa (arg. ex artt. 2555 c.c. e 105 l.fall.), dato dalla combinazione dei fattori della produzione, dei contratti d'impresa e dei cd. intangible assets, ossia quelle competenze/conoscenze non rappresentate in bilancio ma capaci di creare valore nel tempo e generatesi durante la conduzione dell'impresa; il valore organizzativo può, dunque, compensare l'avviamento negativo (cfr. A. Rossi, Il valore dell'organizzazione nell'esercizio provvisorio dell'impresa, Milano, 2013, 9 e 22 s.).

Affinché il mantenimento della continuità aziendale avvenga nell'interesse dei creditori e non in loro pregiudizio, sottolinea la Corte con estrema chiarezza, l'impresa deve alternativamente:

i) essere capace di generare immediatamente utili (beneficio immediato);

ii) essere in grado di tornare in prospettiva a produrre utili in un tempo relativamente breve, a seguito di una ristrutturazione (beneficio futuro).

“Ove, invece, essa produca perdite e l'azienda, anche in prospettiva, non abbia alcun valore, oltre a quello che deriva dalla somma dei suoi beni, continuare l'attività imprenditoriale può solo aggravare il quadro, poiché l'impresa assorbe più valore di quello che crea. Da qui la conclusione che la continuità aziendale rappresenta un bene che, dal punto di vista dei creditori, merita tutela solo se il complessivo valore del patrimonio del loro debitore possa ridursi qualora l'attività d'impresa venisse interrotta” (§ 3.1.1. della sentenza n. 29742/18).

E' per questa ragione che il legislatore nel 2012 ha introdotto le cautele e le garanzie previste dall'art. 186-bis e dalle disposizioni collegate alla prosecuzione dell'attività (art. 182-quinquies, in primis), le quali si applicano tutte le volte in cui, durante la procedura concordataria (anche con riserva: Cass. S.U. 15.5.2015, n. 9935), “vi sia esercizio dell'attività d'impresa e tale esercizio divenga parte del piano (…) in una delle tre forme ivi descritte (prosecuzione, cessione, conferimento)”, indipendentemente dalla volontà del debitore (v. § 3.2.1. sent.).

In detti casi l'attestazione del professionista esperto deve avere ad oggetto i risultati attesi dall'attività e il relativo finanziamento “per tutto il periodo in cui la continuazione dell'impresa sia rilevante per i creditori, cosa che dipende dalla struttura assunta dallo specifico piano di concordato”: si è così stabilito, senza possibilità di equivoci, l'arco temporale di “copertura” dell'asseverazione.

In altri termini, la continuità aziendale deve generare valore rispetto alla liquidazione e occorre che “almeno parte di tale valore venga messo a disposizione dei creditori” (§ 3.3.3.). Ciò al fine di impedire quell'azzardo morale tipico di chi continua ad operare sul mercato, dopo aver perduto il capitale e quindi utilizzando beni e risorse ormai destinati per legge ai creditori, con la consapevolezza di potersi appropriare dei benefici e di scaricare sugli altri eventuali perdite.

Su quanta parte del “plusvalore da concordato” (termine coniato da L. Guglielmucci nel suo commento alla legge tedesca sull'insolvenza del 1994) debba andare a beneficio dei creditori e quanta invece possa rimanere in azienda (o nelle tasche dei soci che abbiano “riacquistato le quote”, secondo la tesi della New value doctrine) si scontrano le due opposte visioni della responsabilità patrimoniale (rappresentate da G. D'Attorre, Le utilità conseguite con l'esecuzione del concordato in continuità spettano solo ai creditori o anche al debitore?, Fall., 2017, 321; M. Fabiani, La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de-concorsualizzazione del concordato preventivo, ilcaso.it, 9.12.2016; in giur., v. le paradigmatiche, speculari (ma contrastanti) decisioni di Trib. Milano 3.11.2016 e Trib. Milano 15.12.2016, entrambe in dejure.it), che ovvi limiti di spazio e di tema non consentono di sviluppare.

La sentenza in esame sceglie di indugiare sulle implicazioni della prosecuzione dell'attività, allo scopo precipuo di salvaguardare gli interessi dei creditori; muovendo dalle finalità dell'art. 186-bis l.fall. – responsabilizzare il debitore e l'attestatore -, passa in rassegna le ipotesi nelle quali l'andamento dell'impresa influisce sul soddisfacimento dei crediti (§ 3.5.1.):

a) quando il pagamento dei creditori dipenda, in tutto o in parte, dai flussi futuri dell'impresa, con conseguente rischio di diminuire l'attivo iniziale (in caso sia di esercizio diretto dell'attività, sia di cessione/conferimento ad un assuntore, che provvede ad erogare parte degli utili);

b) quando il pagamento ai creditori avvenga mediante il prezzo di vendita dell'azienda o della partecipazione che la rappresenta;

c) anche a prescindere dalla proposta (perché, ad es., il soddisfacimento dei crediti si realizzi tramite finanza esterna o i beni non strumentali), se la continuità aziendale “bruci cassa” creando prededuzioni, seppur di breve periodo.

Ebbene, se la prosecuzione in via diretta dell'attività da parte del debitore “ha una funzione di risanamento, in quanto il ripristino della redditività dell'impresa entra nelle finalità della procedura come mezzo unico diretto al fine del recupero della solvibilità dell'imprenditore, che, quindi, attraverso il tentativo di ricondurre l'impresa nell'area della redditività, tende al ripristino della propria capacità di far fronte alle proprie obbligazioni ristrutturate, e, cioè, al suo ritorno in bonis” (§ 3.5.3.1.) – analogamente a quanto accade (assai di rado) nelle amministrazioni straordinarie, giusta l'art. 27, comma 2, lett. b), D. Lgs. 270/99 -, la continuità indiretta ad opera del medesimo imprenditore in crisi non è duratura, ma meramente interinale, in attesa della più proficua cessione del complesso aziendale.

Nella seconda evenienza, che non postula un immediato recupero dell'equilibrio economico (spetterà al cessionario riuscirvi), la legge determina “una separazione tra l'attività d'impresa prima della cessione o del conferimento e quella successiva: la continuazione prima della cessione è ampiamente favorita dalle agevolazioni descritte in precedenza proprio nell'ottica di trasferire un'azienda in esercizio (come ribadisce due volte l'art. 186-bis l.fall.) allo scopo di un miglior realizzo nell'interesse dei creditori.

Della continuità successiva alla cessione o al conferimento il legislatore si disinteressa completamente”: la Corte, riprendendoalcune considerazioni svolte in dottrina (G. Bozza, Affitto e vendita dell'azienda quali strumenti di risanamento dell'impresa, Fall., 2017, 1023 ss.), rileva ancora come manchi, nella disciplina concordataria, una regola sulla valutazione dell'azienda che tenga conto del badwill e/o dell'affidabilità del cessionario e del piano di prosecuzione dell'attività imprenditoriale, né vi è alcun accenno al mantenimento dei livelli occupazionali o all'obbligo dell'acquirente dell'azienda di continuare l'attività, neanche per un tempo ridotto (caratteristiche richieste dall'art. 63 del D.Lgs. n. 270/99 per la vendita dell'azienda in esercizio nell'amministrazione straordinaria).

Per l'applicabilità delle agevolazioni e delle cautele disciplinate nell'art. 186-bis il Collegio enuncia, inoltre, come sia sufficiente la verificazione anche solo parziale della fattispecie normativa, ad esempio limitatamente ad un ramo dell'azienda, cosicché avverrebbe unicamente in relazione ad esso la conservazione dei contratti di cui al comma 3 della disposizione in discorso, ovvero l'obbligo di fornire le stringenti informazioni elencate nel comma 2.

A questo proposito la pronuncia affronta il tema centrale dell'applicabilità della disciplina sulla continuità all'affitto d'azienda. Non occorre qui ripercorrere i differenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia, esaustivamente descritti dalla Suprema Corte (v. §§ 3.7.1. e ss., utilizzando le parole di G. Benvenuto, Affitto di azienda nel concordato con continuità aziendale, in Quaderno 75 della Fondazione Commercialisti di Milano, reperibile sul sito Odcec Milano, 2018, 15 ss.); si è passati dall'iniziale atteggiamento restrittivo, a motivo vuoi della formulazione letterale della disposizione dell'art. 186-bis (varata con il D.L. n. 83/2012, conv. con modif. in L. n. 134/12, che non menziona l'affitto), vuoi della assenza di rischio imprenditoriale, connaturata alla conduzione dell'azienda – argomenti che renderebbero ingiustificate le agevolazioni normative della continuità contrattuale, della moratoria annuale per i privilegiati e della possibilità di pagare i crediti pregressi dei fornitori essenziali, non concedibili ove l'azienda fosse gestita da terzi affittuari -, alla successiva interpretazione incline all'estensione delle ridette facilitazioni (in una logica di favore per la continuità), legate tuttavia alle cautele parimenti disposte dalla legge (art. 186-bis, 2°, 3°, 4° e ultimo comma, l.f.). Ciò che rileva, secondo l'esegesi “evolutiva”, è l'aspetto oggettivo della prosecuzione dell'attività, anche separando le sorti dell'imprenditore in crisi da quelle della sua impresa, destinata a rimanere sul mercato a seguito dell'opera di ristrutturazione posta in essere eventualmente da un terzo, estraneo o newco del medesimo debitore (cfr. S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della “miniriforma” del 2015, Dir. fall., 5/2015, 359, secondo il quale assumerebbe rilevanza centrale l'attività imprenditoriale, a prescindere dal soggetto che di volta in volta la esercita; v. anche M. Arato, Il concordato preventivo con riserva, Torino, 2013, 149; in giur. antesignana è la decisione di Trib. Roma, 24.3.2015, in www.ilFallimentarista.it e ilcaso.it); si riscontra in tal guisa una “convergenza verso le medesime esigenze di tutela e di ratio perseguite dal legislatore, rappresentate dal favorire il risanamento (diretto od indiretto) dell'azienda, funzionale al miglior soddisfacimento del ceto creditorio attraverso l'esercizio dell'attività d'impresa, in contrapposizione al risultato ottenibile attraverso lo schema liquidatorio che non pone attenzione alla prosecuzione aziendale” (§ 3.7.2.).

Quanto all'incidenza del rischio d'impresa, il Collegio reputa che il concedente l'affitto “rimane comunque esposto a svariati rischi, apparendo incontestabile che il rischio d'impresa continui a gravare, seppur indirettamente, sul soggetto in concordato e che l'andamento dell'attività incida, in ultima analisi, sulla fattibilità del piano”. E' questa un'affermazione a mio avviso corretta, sostenuta dalla dottrina aziendalistica (come si vedrà infra).

Né assume rilievo, in tale prospettiva, il momento d'inizio del rapporto di affitto, se anteriore, concomitante o posteriore all'apertura della procedura concordataria, atteso che il rischio d'impresa – come appena detto - resta il medesimo in qualunque fase (per una distinzione v., invece, L. Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, Fall., 2013, 1231, che ritiene inapplicabile l'art. 186-bis all'affitto d'azienda ove stipulato prima del deposito della domanda di concordato).

La sentenza apre poi una digressione sulla differenza fra affitto d'azienda cd. “puro o fine a se stesso” e affitto “ponte”, funzionale al successivo trasferimento a titolo di cessione o conferimento, osservando come la prima forma (fine a se stesso) non abbia riscosso i favori della giurisprudenza di merito (v. Trib. Monza 11.6.2013, ilcaso.it) – perché ritenuto in contrasto con la lettera dell'art. 186-bis -, mentre l'affitto-ponte, accompagnato da proposta irrevocabile di acquisto dell'azienda o di un suo ramo (sub condicione dell'omologa), conferisce “solidità” alla proposta concordataria e rassicura il ceto creditorio. Anche se l'acquirente sia una newco costituita dal debitore proponente (§ 3.7.3.).

La distinzione funge da abbrivio per introdurre il perno centrale intorno a cui ruota il decisum: “Per consentire la piena compatibilità dell'affitto nella versione "ponte" all'art. 186-bis I.fall. sono stati individuati tre requisiti prioritari: i) la sopravvivenza dell'azienda in esercizio in capo all'imprenditore al momento della domanda: circostanza che consente la piena applicazione della norma ex art. 186-bis l.fall. anche con riferimento alla produzione del business plan almeno sino al momento del trasferimento dell'azienda all'affittuario;

ii) la previsione dell'affitto e della successiva cessione nel piano concordatario e non in un contratto stipulato anteriormente ad esso: ciò permette di rispettare il dettato normativo di cui all'art. 186-bis l.fall. ;

iii) la conservazione in capo al debitore della qualità di imprenditore, requisito da alcuni ritenuto incompatibile con l'affitto ma la cui sopravvivenza è stata ritenuta da altri pienamente compatibile con l'attività, ad esempio, di liquidazione dei cespiti aziendali; senza dire che, in ogni caso, l'imprenditore in crisi è chiamato alla gestione del contratto, avrà dei ricavi e dovrà sopportare dei costi dovuti ad esempio a riparazioni straordinarie poste a suo carico”.

Delle tre ipotesi alternative (riprese sempre letteralmente da G. Benvenuto, cit., 19) l'ultima è quella più dibattuta, ma considerata pressoché pacifica tra gli studiosi del diritto dell'impresa. Lo schema negoziale adottato di frequente – nel 72% delle domande con “continuità indiretta” (che rappresentano, a loro volta, il 26% del totale dei concordati presentati, il 9% essendo in continuità diretta) rispetto all'immediata cessione dell'azienda (28% dei casi), secondo lo studio dei dati giudiziari milanesi nel periodo 2005/2014, pubblicato da A. Danovi, P. Riva, M. Azzola, Alcune osservazioni empiriche sui concordati preventivi del Tribunale di Milano, Giur. comm., 2016, 6, 837 – è quello le cui condizioni economiche vengono pattuite prima dell'ingresso in procedura (cd. “concordato chiuso” o prepackaged reorganization) e si stipula un contratto di affitto con successiva cessione di un ramo o dell'intera azienda. Si tratta di un fenomeno empirico che conferma come l'affitto d'azienda rappresenti uno strumento utile per conservarne il valore, specie alle sue componenti immateriali, in quanto permette velocità, flessibilità e più semplice realizzazione.

In proposito la sentenza in commento offre una riflessione sul perché il legislatore avrebbe inserito l'art. 163-bis l.fall. sulle offerte concorrenti nelle ipotesi di concordati preconfezionati: la ragione economica sarebbe da individuare nel fatto che, in simili casi, “il valore target attribuito all'asset aziendale, sarà dettato non già dal valore obiettivo dell'azienda ma dal grado di soddisfacimento che si vuole dare ai creditori, con possibilità di porre in essere condotte abusive in frode ai creditori stessi” (§ 3.7.3.3.; su tale deduzione ci si soffermerà nelle Osservazioni).

Il punto focale della pronuncia è nell'interpretazione della voluntas legis del 2012, che avrebbe non solo inteso favorire la prosecuzione dell'attività d'impresa “in senso tanto soggettivo quanto oggettivo (basti soltanto pensare alla compiuta disciplina sui contratti in corso di esecuzione o alla puntuale regolamentazione dei finanziamenti)” – e già per tale via la sentenza fiorentina d'appello viene cassata, posto che riferiva la continuità aziendale alla sola attività gestita direttamente dal debitore –, ma il legislatore si sarebbe pure preoccupato di limitare l'”espansione incontrollabile della prededuzione a danno della concorsualità”, imponendo il “controllo del tribunale sui finanziamenti interinali, la disciplina degli atti di straordinaria amministrazione, il contenuto delle attestazioni cui sono oggi riconducibili significative sanzioni penali”. Condividendo verbatim una dottrina (F. Casa, Il voto dei creditori privilegiati nel concordato con continuità aziendale, Fall., 2013, 1378, par. 2) la Cassazione enuncia che “quella della "continuità aziendale" è stipulazione definitoria «contemporaneamente opaca e duttile», che va intimamente collegata al rapporto materiale e giuridico che il debitore intende mantenere con la propria azienda durante, in vista ed ai fini del risanamento. Si potrà, allora, fare riferimento ad una continuità in senso più marcato ("forte"), ove il piano concordatario preveda il pagamento dei creditori attraverso la prosecuzione dell'attività d'impresa da parte del debitore, oppure in senso meno evidente ("debole"), ove il risanamento venga attuato attraverso una serie di attività strumentali alla cessione dell'azienda in esercizio, come l'affitto d'azienda (eventualmente, ma non necessariamente, accompagnato da una proposta irrevocabile d'acquisto ad un prezzo garantito); tanto più "debole" sarà la continuità quanto più probabile e prossima sarà la perdita di contatto dell'imprenditore con la propria azienda” (§ 3.9.).

Per l'effetto, il piano concordatario e le attestazioni di cui all'art. 186-bis “dovranno essere tanto più puntuali e penetranti quanto più la continuità possa dirsi "forte"”, onde dar modo al tribunale di controllare sia i requisiti dell'art. 186-bis (e la formazione delle prededuzioni), sia il vantaggio per i creditori della continuità rispetto alla liquidazione, soprattutto con riferimento al periodo successivo al decreto di omologa, quando finisce il controllo giudiziale.

Proprio la valorizzazione in termini oggettivi della continuità aziendale rende del tutto indifferente chi sia ad esercitarla, se debitore o terzo affittuario, allorché venga depositata la domanda (prenotativa o piena), poiché – viene ribadito dalla sentenza – “il contratto d'affitto costituisce un semplice strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda senza il rischio della perdita dei valori intrinseci, primo tra tutti l'avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, produrrebbe in modo irreversibile” (§ 3.9.1.). In buona sostanza, ferma la necessità di valutare i piani caso per caso, ciò che determina la qualificazione del concordato come in continuità, e quindi l'applicazione delle disposizioni più volte richiamate, sarà la rilevanza della prosecuzione dell'attività ai fini del piano medesimo e, ancor più esplicitamente, la fonte di soddisfacimento dei creditori.

Se, dunque, l'attenzione del legislatore si appunta sull'azienda in esercizio, indipendentemente da chi sia a condurla, nell'intento di favorire con ogni mezzo il risanamento diretto o indiretto di essa in funzione della maggior soddisfazione dei creditori, conseguenza logica è la soggezione di qualunque negozio giuridico ad esso prodromico (es. l'affitto) alla disciplina legislativa della continuità.

Affermato il principio di diritto, i giudici di legittimità ne esaminano la compatibilità con la disciplina espressa dagli artt. 182-quinquies e 186-bis l.fall. (evocando le testuali parole di A. Patti, L'evoluzione normativa dell'affitto dell'azienda a rischio di depotenziamento “competitivo”, Fall., 2017, 513 ss., par. 2): mentre non si ravvisano problemi di innesto sul contratto di affitto delle disposizioni sulla non risolubilità/prosecuzione dei contratti per l'esercizio dell'azienda in generale – del resto prescritta dall'art. 2558 c.c. - e di quelli pubblici in specie, oltre alla moratoria annuale per i crediti prelatizi (e questa sembra una statuizione piuttosto chiarificatrice), criticità di non lieve momento sono evidenziate dalla possibilità, previa attestazione specifica e debita autorizzazione, di procedere al pagamento di fornitori strategici a termini del 5° comma dell'art. 182-quinquies.

Al riguardo l'Autore citato aveva colto - e la Cassazione lo riporta nel penultimo paragrafo della decisione – che detta norma “realizza, nella sostanza, una conversione di crediti concorsuali in crediti prededuttivi, con una rottura indubbia del principio di concorsualità e, quindi, del divieto posto dall'art. 168 l.fall., sia pure per le finalità e con le cautele indicate. Ora, se questo effetto rende problematica la giustificazione del pagamento dal debitore concordatario, affittante l'azienda, di debiti anteriori nei confronti di propri fornitori strategici, sostanzialmente in favore dell'affittuario temporaneamente garante della continuità di impresa ed evidentemente strategici anche per esso, non pare che, per ciò solo, se ne debba escludere la possibilità. Proprio il segnalato impiego dell'affitto d'azienda quale tappa di un percorso in funzione di una ricollocazione dell'impresa competitiva sul mercato, nella prospettiva di affidabilità soggettiva dell'affittuario in relazione al piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, può ben giustificare il pagamento di crediti anteriori per prestazioni di beni o di servizi anche nell'ipotesi di continuità con affitto d'azienda. Evidentemente, non ad opera diretta del terzo affittuario in bonis, siccome soggetto estraneo al concordato, ma del debitore richiedente una specifica autorizzazione” (§ 3.9.2.2.; ma così già A. Patti, Il pagamento dei debiti anteriori ex art. 182 quinquies, comma 4 l.fall. in favore dell'affittuario in continuità aziendale, Fall., 2014, 200; analogamente G. Macagno, Il concordato con continuità aziendale: il confine ultimo di un istituto sotto accusa, Fall., 2016, 93).

Nella medesima direzione va, ad colorandum, la Legge n. 155/2017, di riforma delle discipline della crisi d'impresa e dell'insolvenza, il cui criterio di delega ex art. 2, comma 1, lett. g), esplicita che la continuità aziendale possa aversi anche per mezzo di un diverso imprenditore, il quale, in virtù dell'ulteriore principio direttivo di cui all'art. 6, comma 1, lett. i), n. 3, può essere anche l'affittuario, sebbene il contratto sia stipulato prima del deposito della domanda di concordato (cfr. § 3.9.3.).

L'ultimo profilo di notevole impatto è concentrato nell'enunciazione finale (§ 3.9.4.), secondo cui quanto fin qui illustrato per l'affitto-ponte varrebbe, mutatis mutandis, anche per il cd. affitto puro, quello, cioè, non prodromico alla cessione dell'azienda, ma destinato alla retrocessione al concedente/debitore durante la fase esecutiva del piano o al termine di essa. “Non ha infatti senso annettere natura liquidatoria a tale fattispecie, nella quale il piano consente il ritorno in bonis dell'imprenditore addossando temporaneamente a terzi gli oneri ed i rischi connessi alla conduzione diretta dell'attività, senza che vi sia, tendenzialmente, alcuna dismissione di cespiti aziendali (salva l'ipotesi di alienazione di beni non funzionali alla "riperimetrata" continuità, espressamente contemplata dall'art. 186-bis l.fall.)”.

Ora l'asserzione è condivisibile qualora il soddisfacimento dei creditori provenga (almeno in prevalenza) dal pagamento dei canoni di affitto o dalla vendita del magazzino, purché compreso anch'esso nell'affitto; ma ove così non fosse, perché le risorse da distribuire consistessero principalmente in beni da liquidare e solo marginalmente nei canoni di affitto, la conclusione diverrebbe opinabile, proprio in quanto la continuità aziendale non influirebbe sul piano di ristrutturazione dei debiti. Tuttavia il principio di diritto sancito al § 3.10. menziona comunque l'affitto (benché puro) come “strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell'azienda”, cessione o conferimento che però, nell'evenienza in discorso, non si configurerebbero.

Osservazioni

A) DE IURE CONDITO– Attualmente la permanenza della distinzione, operata nella prassi, fra concordati in continuità e concordati cd. “misti” (nei quali, cioè, vi sia una componente liquidatoria di beni non strumentali) mantiene vivo il dibattito circa il metodo di qualificazione di siffatte procedure ai fini dell'individuazione della relativa disciplina nei casi di affitto d'azienda, ovverosia se debba applicarsi la teoria della “prevalenza” qualitativa o quantitativa (cfr. Trib. Monza 26.7.2016, ilfallimentarista.it, per cui la disciplina applicabile al concordato c.d. misto, ovvero al concordato preventivo che presenta elementi di continuità e liquidatori, può essere determinata mediante il criterio della prevalenza, sia essa valutata in termini qualitativi o quantitativi) delle risorse rivenienti dall'una o dall'altra modalità adempitiva, oppure se sia preferibile la teoria della “combinazione” fra gli elementi normativi previsti nelle due forme (v. Trib. Roma 22.4.2015, ilfallimentarista.it, secondo il quale dovrebbe trovare applicazione la disciplina del piano concordatario prevalente, salva la possibilità di applicazione congiunta delle due discipline, ove non siano incompatibili secondo il criterio della integrazione). Lo stesso Tribunale capitolino, nelle Linee guida su talune questioni controverse nel concordato, consultabili sul sito della Sezione fallimentare, ha affermato di potersi comunque ravvisare gli estremi del concordato in continuità, con disapplicazione della soglia minima di soddisfazione del 20% ex art. 160 l.f., anche in presenza di piani che traggano dalla prosecuzione dell'attività “risorse da distribuire ai creditori quantitativamente inferiori rispetto all'attivo estraneo al perimetro aziendale soggetto a liquidazione” (oggi, però, in prossimità dell'approvazione del nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza, l'orientamento sembrerebbe mutare).

Orbene, se sulle varie considerazioni esposte nella sentenza qui commentata si dovrebbe registrare un generale consenso, avendo essa congruamente scandito le ragioni poste alla base delle opzioni avversate da una parte della dottrina e giurisprudenza (cfr. F. Lamanna, La legge fallimentare dopo il “Decreto Sviluppo”, Milano, 2012, 58; G. Bozza, op. cit.; F. Di Marzio, Affitto d'azienda e concordato in continuità, ilfallimentarista.it, 15/11/2013; D. Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell'affitto d'azienda, ibidem, 3/10/2012; in giur., ex pluribus,App. Trieste 20.4.2017, Trib. Pordenone 19.1.2017 e Trib. Terni 28.1.2013, in ilcaso.it; Trib. Milano 28.11.2013, ilfallimentarista.it), è nelle scelte operative della pratica giudiziaria che si annidano i concreti problemi da risolvere. Analizziamo le principali implicazioni.

È notorio constatare che le imprese italiane sono mediamente sottocapitalizzate e ciò reca, come effetto ineludibile, di dover ricorrere ai finanziamenti di terzi e/o, quando possibile, all'autofinanziamento.

I dati statistici più recenti, illustrati nell'ultimo Rapporto sul credito di Unimpresa (associazione che raduna ca. 108mila PMI), basato su dati della Banca d'Italia, attestano che il totale dei prestiti al settore privato è calato nell'arco dell'ultimo anno, da ottobre 2017 a ottobre 2018, di 38,7 miliardi (-2,85%) passando dai 1.360,9 miliardi di ottobre 2017 ai 1.322,2 miliardi di ottobre 2018. Nel dettaglio, è calato di 40,3 miliardi (-5,51%) lo stock di finanziamenti alle imprese passati da 732,2 miliardi a 691,9 miliardi: in particolare, sono calati di 22,5 miliardi (-9,28%) da 242,6 miliardi a 220,08 miliardi i prestiti a breve termine (fino a 1 anno); giù di 20,8 miliardi (-6,35%) i prestiti di lunga durata (oltre 5 anni) scesi da 328,1 miliardi a 307,2 miliardi.

Questa tendenza dimostra la necessità, sempre più accentuata per le imprese in procinto di entrare in area di crisi, di ideare operazioni economiche a basso costo che, alla stregua dell'affitto d'azienda, permettano la prosecuzione dell'attività e al contempo il mantenimento del valore dell'organizzazione d'impresa (riconosciuto dal legislatore fallimentare nella disciplina della liquidazione, artt. 104 ss., ma esistente a fortiori nella fase antecedente, allo scopo di conservare le aggregazioni delle varie componenti).

In estrema sintesi, un'impresa caratterizzata da bassa specificità delle proprie risorse organizzative e, pertanto, da un basso costo di replica, esprimerà un valore organizzativo irrilevante ai fini della continuità; allo stesso modo, un'impresa la cui coesione e specificità dipenda, piuttosto che dalle caratteristiche intrinseche degli aggregati, dall'impronta della persona fisica cui è riconducibile l'organizzazione, avrà maggiori difficoltà a mostrare un valore che si conservi mediante la vendita/affitto del complesso aziendale, la cui entità dipenderà anche dalla disponibilità dell'«organizzatore» a “collaborare” con l'acquirente/affittuario (e la necessità di ingaggiare l'imprenditore in crisi fa sorgere costi di transazione che andranno a decremento del valore espresso dall'azienda stessa (A. Rossi, L'esercizio provvisorio nella mission della procedura fallimentare, Giur. comm., 2010, 1177).

1. Con ciò si perviene al primo nodo da sciogliere, che attiene alla determinazione del congruo canone di affitto: qual è la giusta misura, che sia sostenibile dall'affittuario, da un lato, e che possa "reggere", dall'altro lato, dinanzi alle possibili contestazioni degli organi delle procedure? Dovendo premettere che l'accordo sull'entità del canone è rimesso alla libera contrattazione tra le parti (suscettibile di condurre, laddove eccessivamente svilito, alla fattispecie penale della bancarotta per distrazione: Cass. pen. n. 9768/2018), l'affitto d'azienda è regolato dall'art. 2561 c.c., il quale stabilisce fra l'altro che la differenza tra le consistenze d'inventario tra l'inizio e la fine del contratto debba essere regolata in denaro sulla base dei valori correnti. Ciò implica che debba essere attribuito un valore ai beni aziendali nel momento iniziale del contratto e verificato nel momento finale in modo da consentire il conguaglio delle differenze.

Con questa prescrizione si tutela il concedente dal rischio che nel corso dell'affitto possa dissolversi, quantomeno in parte, il valore originario del compendio. Nella pratica di queste operazioni, però, è frequente che il contratto di affitto preveda una deroga a tale prescrizione onde evitare le complessità che ne derivano, spesso in contrasto con la necessità di procedere rapidamente al trasferimento della gestione dell'azienda ad altro soggetto economico.

La tutela del concedente viene allora traslata nel canone di affitto, che incorpora una remunerazione del rischio di perdita di valore del compendio. Si può pensare a tale componente come a una sorta di premio assicurativo implicito nel canone.

La seconda e prevalente componente del canone rappresenta la contropartita che il concedente riceve, a fronte del trasferimento a terzi della gestione aziendale e del godimento dei frutti che ne derivano. Il canone viene quindi a compensare la perdita di redditività in capo al proprietario dell'azienda (redditività che però, in caso di azienda in crisi, sarà già azzerata).

Infine, si dovrà tenere conto del rischio di insolvenza dell'affittuario; in questo caso il canone è assimilabile al credit spread richiesto dagli intermediari finanziari nelle decisioni di affidamento (così M. Buongiorno, La valutazione della congruità del canone di affitto di azienda nelle procedure concorsuali: alcune riflessioni alla luce del recente documento del Cndcec, in Bilancio, contabilità e controlli, fasc. 7/2016, 14 ss.).

La triplice natura del canone (premio assicurativo, corrispettivo e credit spread), pur ponendo difficoltà valutative – da risolvere con l'impiego delle tipiche formule di economia aziendale -, contribuisce in maniera convincente a spiegare perché il rischio di impresa continui a gravare sul concedente l'affitto.

In pratica, poiché esiste un rischio di default dell'azienda affittata, misurato dal costo di capitale praticato dalle banche, allora il concedente dovrebbe richiedere all'affittuario una remunerazione di tale rischio, al pari di quanto avverrebbe nel mercato bancario. Questa logica vige se l'affittuario è una newco o una società dotata di un capitale minimo e che finanzierà il pagamento del canone con i flussi futuri derivanti dalla gestione dell'azienda. Qualora invece la società affittuaria fosse già esistente, con una robusta solidità patrimoniale o disponibile a fornire garanzie adeguate, il minor rischio dovrebbe tradursi in un minor tasso di rendimento (M. Buongiorno, cit.).

Ergo, siccome è probabile che il valore dell'azienda al termine del rapporto (o in caso di risoluzione per colpa) sia inferiore a quello al momento dell'affitto – in assenza di sostanziali discontinuità nella strategia competitiva - ci si potrebbe ritrovare al cospetto del grave problema posto da Cass. n. 23581/2017 (annotata criticamente da F. Fimmanò, Retrocessione dell'azienda affittata e responsabilità del concedente per i debiti dell'affittuario, Fall., 2018, 27, e da G. Niccolini, Termine dell'affitto d'azienda e responsabilità dell'affittante per le obbligazioni dall'affittuario: un revirement della Cassazione, Foro it., 2017, I, 3631. Cfr. ora Cass. n. 26021/2018), vale a dire che, al termine dell'affitto d'azienda, l'affittante risponde in solido con l'affittuario delle obbligazioni assunte da quest'ultimo durante l'affitto risultanti dai libri contabili. E' questo rischio che dev'essere prevenuto mediante plurimi possibili meccanismi, dalle varie forme di garanzia fino all'impegno irrevocabile all'acquisto da parte dell'affittuario. Resta in ogni caso un potenziale nocumento a carico del concedente.

2. Per altro verso, sembra corretto acconsentire pattiziamente all'affittuario che si renda acquirente di imputare i canoni di affitto versati a pagamento del prezzo, in virtù degli investimenti apportati nel complesso aziendale del concedente. Trib. Milano 12.6.2014, ilcaso.it, ritenne tale previsione della proposta concordataria incompatibile con la regola della necessaria competitività delle vendite attuate ai sensi dell'art. 182 l.fall. Ma oggi, con l'introduzione del sistema delle offerte concorrenti di cui all'art. 163-bis, il dubbio è definitivamente superato.

Collegato a tale aspetto è il diritto di prelazione convenzionalmente pattuito per l'ipotesi di alienazione: esso non soltanto non limita la contendibilità del bene nel procedimento competitivo, ma – giusta la notazione della Relazione ministeriale al d.lgs. 5/2006 (sub art. 104-bis l.fall.) – viene esteso oltre i casi originari contemplati dalla L. n. 223/1991, previa autorizzazione del giudice nell'affitto endofallimentare, “proprio come mezzo per incentivare l'affittuario ad effettuare investimenti sull'azienda, onde rafforzarne il suo successivo interesse acquisitivo” (v. A. Patti, Il contratto di affitto d'azienda nel concordato preventivo con continuità, Fall., 2014, 191, § 5). Alla luce della ratio indicata, la concessione della prelazione in un contratto di affitto anteriore alla procedura appare legittima, seppure in difetto di autorizzazione giudiziale.

3. In terzo luogo, alla data di stipula del contratto di affitto si pone la questione di identificare esattamente e ponderare i rapporti pendenti, per i riflessi onerosi che il trasferimento comporta. Insieme ai contratti per l'esercizio dell'azienda, a termini dell'art. 2558 c.c. (norma derogabile con notevoli difficoltà pratiche), l'affittuario subentra nei debiti che si ricolleghino a posizioni negoziali non ancora definite, anche se in fase contenziosa (Cass. n. 8539/2018); in tal caso la responsabilità si inserisce nell'ambito della più generale sorte del contratto (Cass. n. 11318/2004; n. 8121/1991; n. 3027/1981; conf. da ultimo Cass. n. 2961/2013). Il carattere non definito della posizione contrattuale può derivare, ad es., dalla natura di contratto ad esecuzione continuata o periodica del contratto di somministrazione, che si caratterizza come negozio unitario pur nel ripetersi degli atti di esecuzione e nel quale la periodicità o la continuità delle prestazioni si pongono come elementi essenziali del contratto stesso, in funzione di un fabbisogno del somministrato (Cass. n. 8055/2018).

4. Al fine di evitare pagamenti di debiti anteriori, che potrebbero causare la chiusura anticipata della procedura (ma v., in tema, Cass. n. 3324/2016 e Cass. n. 11982/2018), si deve circoscrivere precisamente l'ambito dei crediti preesistenti che si possono pagare senza ricorrere all'attestazione specifica dell'art. 182-quinquies: come ha chiarito Trib. Reggio Emilia 6.3.2013, unijuris.it, il divieto di pagamento dei crediti pregressi e la facoltà, per l'imprenditore, di compiere gli atti di ordinaria amministrazione (tra i quali rientra anche l'adempimento dei contratti pendenti) vanno conciliati come segue: (a) il divieto di pagamento dei crediti pregressi sussiste in tutte quelle situazioni giuridiche che si sono definitivamente cristallizzate in un rapporto di credito/debito; (b) per i rapporti giuridici pendenti nei quali le prestazioni delle parti non sono ancora eseguite o compiutamente eseguite, laddove il rapporto prosegua non vi è – di regola – divieto di pagamento dei crediti anteriori, a meno che il rapporto sinallagmatico non sia caratterizzato da un contratto di durata dal quale sorgono coppie di prestazioni isolabili sotto il profilo funzionale ed economico (fattispecie che ricorre, ad es., nei contratti di somministrazione). L'affittuario può giovarsi di tali disposizioni solo ed esclusivamente nell'ottica “oggettiva” del concordato con continuità indiretta, sancita dalla Cassazione (conf. anche Trib. Cuneo 31.10.2013, Fall. 2014, 191, in un caso di premi assicurativi per veicoli commercializzati prima della fase di riserva) oltre che dalla L. n. 155/17, sempreché il pagamento di cui si discorre riguardi fornitori essenziali per l'azienda in sé, sia coerente con il piano concordatario (se già varato) o, almeno, sia assistito dalle attestazioni specifiche improntate al criterio del miglior soddisfacimento dei creditori; diversamente, non sarebbero superabili i numerosi rilievi della dottrina (v. ad es. G. Bozza, Affitto e vendita dell'azienda quali strumenti di risanamento dell'impresa, cit., § 4).

Anche per tale ragione la tesi della traslazione del rischio (unicamente) sull'affittuario non regge alla prova.

5. In ordine alla compatibilità della ricostruita interpretazione con la nuova disciplina delle offerte concorrenti, si condivide il pensiero di un Autore, per il quale l'introduzione indiscriminata di una procedura competitiva, con l'obbligo per l'offerente originario di adeguarsi alle altre offerte al fine di poter partecipare alla gara, “mi pare davvero un forte depotenziamento dell'affitto d'azienda, tanto più con proposta irrevocabile di acquisto. E ciò per l'evidente disincentivo di investimenti nell'azienda da parte di soggetti interessati ad acquisirla, dopo un primo riscontro del suo stato e delle sue potenzialità attraverso un periodo di affitto” (A. Patti, L'evoluzione normativa dell'affitto dell'azienda a rischio di depotenziamento “competitivo”, cit., § 4; analogamente G. Bozza, Le proposte e le offerte concorrenti, FallimentieSocietà.it, 2015, 84). Viene rimarcata, inoltre, una palese dissonanza con la Raccomandazione della Commissione Europea 14 marzo 2014 (n. 2014/135/UE, in particolare sub III, lett. A, p.to 7), laddove si raccomanda che “la procedura di ristrutturazione dovrebbe essere flessibile in modo che se ne possano eseguire fasi senza l'intervento del giudice”, il quale “dovrebbe limitarsi ai casi in cui è necessario e proporzionato per tutelare i diritti dei creditori e terzi eventuali”.

6. Un fugace cenno merita la vexata quaestio della legittimazione dell'affittuario d'azienda (o di un ramo) a gestire la prosecuzione di contratti pubblici: l'art. 95 del CCI, al comma 2, non cita espressamente l'affittuario d'azienda (se il professionista indipendente ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento in luogo del debitore), a differenza del cessionario o conferitario d'azienda o di rami d'azienda cui i contratti siano trasferiti. Del pari il nuovo “Codice appalti” (D.lgs. n. 50/2016 s.m.i.) ha previsto alcune ipotesi di variante soggettiva, in particolare nel caso in cui all'aggiudicatario iniziale subentri, anche a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, scissioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato a eludere l'applicazione del codice (art. 106, comma 1, lett. d) punto 2); ma l'affitto non è incluso nell'elenco, mentre nel regime previgente l'art. 76, comma 9, DPR 207/2010 disponeva appositamente che “Nel caso di affitto di azienda l'affittuario può avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni”.

Alla luce dei principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza sotto il precedente codice appare tuttavia ammissibile, anche oggi, a mio parare, il subentro di altro soggetto nella posizione di esecutore del contratto di appalto in caso di cessione o affitto di ramo d'azienda, sempre che detti contratti siano comunicati alla stazione appaltante e non siano finalizzati ad eludere l'applicazione del codice.

7. Si giunge così al dubbio più radicale e generatore di esternalità negative: per quale ragione la riforma (avviata dalla L. n. 155/2017, art. 6, comma 1, lett. i), per configurare il tipo di concordato in continuità, esige esplicitamente la prevalenza del ricavato dalla prosecuzione – e, quindi, dal canone, considerando l'affitto una modalità della continuità - invece che lasciare la qualificazione, com'è oggi, al processo interpretativo? Vediamone brevemente le conseguenze.

B) SULLA RIFORMA PROSSIMA VENTURA – Il nuovo art. 6, comma 1, lett. i), n. 2) e 3), L. 155 stabilisce che la disciplina del concordato in continuità «si applichi anche alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale; 3) che tale disciplina si applichi anche nei casi in cui l'azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato».

L'art. 84, commi 2 e 3, del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, recita: «2. La continuità può essere diretta, in capo all'imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, in caso sia prevista la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente alla presentazione del ricorso, conferimento dell'azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo, ed è previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per i successivi due anni. In caso di continuità diretta il piano prevede che l'attività d'impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci. In caso di continuità indiretta la disposizione di cui al periodo che precede, in quanto compatibile, si applica anche con riferimento all'attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore. 3. Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino. La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà dei lavoratori in forza al momento del deposito del ricorso».

Anzitutto giova osservare che con tale norma si elimina sostanzialmente la categoria dei cd. concordati misti (già stigmatizzata da F. Lamanna, Che cos'è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?, in www.ilFallimentarista.it , 16.9.2015), poiché con la scelta del criterio della prevalenza si dovrebbe elidere la disciplina dell'altro tipo.

Ma l'effetto pronosticabile è che, per tal via, si induce il debitore in crisi a liquidare beni non funzionali prima dell'accesso al concordato (e, dunque, al di fuori della vigilanza del commissario giudiziale), così da rendere prevalente la continuità e sottrarsi all'obbligo di pagamento del 20% (lo nota anche G. Lener, Intorno ad alcune prospettive di riforma del concordato preventivo tra legge delega e (ipotesi di) decreti delegati, relazione tenuta ad un convegno all'Università Roma Tre il 14.2.2018, i cui atti sono in corso di pubblicazione, il quale prospetta l'alternativa che “più semplicemente, non essendovi l'obbligo di liquidare beni non funzionali, è, forse, sufficiente prevederne la non alienazione nella misura occorrente ad assicurare la prevalenza della componente satisfattiva riveniente dalla continuità, il che, in concreto, rischia di compromettere il «miglior soddisfacimento», senza possibilità di sindacato”).

Per altro verso, la clausola del miglior soddisfacimento dei creditori non è contemplata nella disposizione di apertura del concordato preventivo (art. 84, ove è menzionato soltanto l'interesse prioritario dei creditori, rispetto a quello del debitore, a che la prosecuzione dell'attività d'impresa assicuri il ripristino dell'equilibrio economico finanziario), bensì nel successivo art. 87 (rubricato Piano di concordato).

In proposito lo stesso art. 84, comma 3, del d.lgs. riproduce la “formula” dell'attuale art. 161, comma 2, lett. e), l.fall., secondo cui «a ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile»; aggiungendo, assai opportunamente, che tale utilità può anche essere rappresentata «dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa».

È agevole constatare come in un buon numero di concordati in continuità le percentuali di pagamento siano talmente esigue da far ritenere che proprio detta tesi del mantenimento delle relazioni commerciali con il proponente o l'affittuario/cessionario dell'azienda costituisca l'unico motivo giustificativo del voto favorevole (del resto, quelle relazioni nel tempo hanno permesso ai fornitori di conseguire profitti non trascurabili).

In conclusione, si avrà una concezione “oggettiva” della continuità aziendale, come tale da valutare con criteri oggettivi, a fronte di un sindacato sul miglior soddisfacimento dei creditori da interpretare, invece, in chiave precipuamente soggettiva: riusciranno i giudici a mantenersi sul doppio binario?

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per chiarezza espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i principali contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate direttamente nell'esposizione delle questioni e nelle osservazioni.

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