Il miglior soddisfacimento dei creditori: brevi note sui principi generali e sugli interessi tutelati (II)

Danilo Galletti
15 Marzo 2019

L'Autore, in questa seconda parte del suo lavoro, prosegue l'analisi sul il tema del miglior soddisfacimento dei creditori soffermandosi prevalentemente sui principi generali e sugli interessi tutelati.
Premessa

L'Autore, in questa seconda parte del suo lavoro (si veda prima parte), prosegue l'analisi sul il tema del miglior soddisfacimento dei creditori soffermandosi prevalentemente sui principi generali e sugli interessi tutelati.

La responsabilità patrimoniale nel concordato preventivo

Questo è un terreno su cui la tendenza interpretativa che abbiamo già stigmatizzato si è quasi “scatenata”, anche a causa delle rilevanti conseguenze applicative che la soluzione ai singoli concreti problemi applicativi può comportare.

Il “nocciolo” della questione attiene all'applicabilità o meno al concordato, ed a quello con continuità in particolare, del principio ricavabile dall'art. 2740 c.c., che regolamenta il contenuto della c.d. responsabilità patrimoniale, ossia, secondo l'impostazione più autorevole e tradizionale, la soggezione del debitore alle azioni esecutive dei creditori, con tutti i propri beni e diritti, presenti attualmente nel proprio patrimonio come “futuri”.

In questa sede non interessa approfondire il problema se la responsabilità patrimoniale costituisca un attributo sostanziale, o soltanto processuale, dell'obbligazione (v. per tutti Monteleone, Per un chiarimento sul concetto di responsabilità o garanzia patrimoniale del debitore, in Riv. dir. comm., 1993, I, 318 ss.; Rubino, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. Vassalli, Torino, 1952, 8 ss.).

Interessa tuttavia verificare se tale pilastro del sistema delle obbligazioni abbia un significato anche nel campo del diritto dei concordati, ed attraverso quali forme di manifestazione.

Quanto alla portata sistematica del “principio” nel contesto generale del diritto civile, non si può dire che esso non sia stato assoggettato a profonde revisioni critiche nella letteratura più recente.

La dottrina civilistica specializzata, riflettendo sulla imperatività delle norme, è giunta talvolta sino a delibare positivamente la compatibilità con l'art. 2740 c.c. di pattuizioni volte a graduare l'esercizio dell'azione esecutiva, attraverso la fissazione di un ordine di preferenza per i beni da sottoporre ad esecuzione (così Nicolò, Tutela dei diritti, in Comm. del cod. civ. diretto da Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1953, sub art. 2740, 15 s.; Pratis, Tutela dei diritti, in Commentario Utet, Torino, 1976, sub art. 2740, 44; Roppo, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, 19, Torino, 1985, 391 e nota 13, il quale limita la validità del patto alla condizione che esso non renda troppo difficile l'esercizio del diritto di credito, così importando il principio espresso dall'art. 2965 c.c., in effetti recepito dalla Corte Costituzionale per decidere della costituzionalità di leggi che sottopongano a limitazioni procedurali l'esercizio di diritti riconosciuti dalla Carta fondamentale); talvolta si è spinta sino a reputare valido il patto con cui il creditore rinunzi a sottoporre ad esecuzione taluni beni del debitore, restringendo tuttavia l'efficacia del patto a quella obbligatoria, al contempo respingendo ogni portata “reale” dello stesso (v. Rubino, La responsabilità patrimoniale, op. cit., 12; soluzione analoga è stata come noto spesso prospettata quanto al pactum de non petendo, il quale tuttavia, se privo di un termine finale, appare assai difficilmente distinguibile dalla remissione del debito).

Dal punto di vista che qua ci interessa, ossia quello delle procedure concorsuali, va detto che assai difficilmente persino gli approdi più avanzati di tali ricostruzioni dogmatiche possono spiegare rilevanza ed irradiarsi nel contesto del concordato preventivo: da un lato infatti sembra di dover rigorosamente distinguere i due profili del patto stipulato ex ante, al momento del sorgere dell'obbligazione, ed ex post, ossia quando la responsabilità del debitore viene realizzata; dall'altra nel concordato la “deroga” avverrebbe sì ex post, ma sulla base non già di un atto dispositivo del singolo creditore, bensì di una decisione eteronoma, soltanto intermediata dall'operare del principio “maggioritario” (v. infra). Mi pare tuttavia quantomeno dubitabile che il sistema consenta al creditore, anche se del caso privilegiato su un bene specifico, di rinunziare preventivamente all'azione esecutiva sui beni di cui al residuo patrimonio del debitore: l'ordinamento prevede sempre infatti la “degradazione” del credito privilegiato a chirografo in caso di incapienza del bene vincolato, probabilmente a tutela di un interesse generale, la cui esistenza rende la norma indisponibile, a che siano sempre possibilmente presenti su quel patrimonio plurime attività di “monitoraggio” dei creditori, attività cui solo i creditori chirografari, anche solo potenzialmente tali, sono interessati. Diversa potrebbe essere forse la valutazione, sotto questo specifico punto di vista, quanto ai patti che stabiliscono “ordini” nell'attività esecutiva sui vari beni (v. infra)

Non mancano fra i cultori del diritto civile tuttavia anche posizioni di radicale chiusura a qualunque deroga convenzionale, ove il ruolo fondamentale e di ordine pubblico dell'art. 2740 c.c. viene confermato ed enfatizzato; e tale indirizzo sembra forse prevalere, nelle letture più recenti. Cfr. Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in Codice civile. Commentario a cura di Schlesinger, Milano, 1992, 73 ss.; conf. Roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi di conservazione, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, IX.3, Torino, 2005, 30 e 39. Per una visione molto più elastica, che enfatizza la capacità del patto derogatorio di soddisfare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., v. invece Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. civ. diretto da Sacco, 2, Torino, 2011, 43 ss., il quale critica anche, peraltro correttamente, l'ambiguità della soluzione interpretativa che discrimina fra efficacia obbligatoria o “reale” della pattuizione (se il creditore si è impegnato a non agire in sede esecutiva, infatti, non potrà farlo, e ciò gli potrà sempre essere eccepito in sede oppositiva).

Quello di cui nessuno pare dubitare, tuttavia, è che almeno lo “zoccolo duro” della norma abbia portata imperativa, e che esso contribuisca a dare significato al sistema.

La giurisprudenza, soprattutto di merito, ha per lo più escluso la possibilità che il debitore possa riservarsi uno più assets, sottraendoli al soddisfacimento dei creditori, almeno nel concordato liquidatorio (cfr. Trib. Torino, 5 giugno 2014, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Roma, 25 luglio 2012, App. Roma, 5 marzo 2013, e Trib. Bergamo, 26 settembre 2013, ivi; più di recente Trib. Bolzano, 18 luglio 2017, ivi).

Ed anche la S.C. ha posto particolare enfasi sulla imperatività art. 2740 c.c., ad es. in tema di concordati “di gruppo”, escludendo radicalmente la possibilità di comprometterne il funzionamento, mediante alterazioni e commistioni delle relative masse attive e passive (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20559; conf. Cass., 31 luglio 2017, n. 19041). La separazione delle masse attive e passive è peraltro ora espressamente mantenuta dal Codice della Crisi (artt. 284 ss.), laddove sono possibili nei gruppi soluzioni redistributive (soltanto) di tipo contrattuale (art. 285), peraltro condizionatamente alla possibilità per i creditori di ciascuna singola società di chiedere al Giudice di accertare che tali modalità operative non compromettano in concreto i loro interessi (ciò secondo uno schema in fondo riconducibile ad una matrice comune ai poteri di “opposizione” nel diritto societario, a fronte di operazioni che possono alterare appunto la “responsabilità patrimoniale” del debitore: cfr. art. 2503 c.c.).

Pur non sconoscendosi opinioni dottrinali che negano in radice l'operatività di tale principio nel diritto dei concordati, o reputando del tutto inapplicabile l'art. 2740 c.c., oppure più sagacemente ricostruendo il sistema in modo da armonizzare certe varianti concordatarie col principio, il vero banco di prova della “tenuta” del disposto, e delle rationes legis allo stesso riconducibili, è costituito ancora una volta dal concordato con continuità aziendale.

Corrente è infatti la considerazione per cui nel concordato con continuità il Legislatore avrebbe autorizzato una deroga esplicita all'art. 2740 c.c., ragion per cui (secondo taluno) il “principio”, in tale contesto, sarebbe del tutto disattivato, consentendo ogni soluzione regolatoria della crisi. Sullo sfondo, manco a dirlo, il solito “favor” per la continuità aziendale in sé, che legittimerebbe, nelle stesse intenzioni oggettive dell'ordinamento giuridico, la deroga in questione.

Quanto invece al concordato liquidatorio, la portata comunque “coattiva” delle attività liquidative di cui all'art. 182 l.fall., affidate ad un organo di liquidazione nominato dal Tribunale, e ricondotte con decisione a partire dal 2008 dalle Sezioni Unite alla giurisdizione esecutiva, ha indotto la dottrina a percorrere strade diverse (v. infra).

La pretesa “disattivazione” del principio della responsabilità patrimoniale per il concordato con continuità si baserebbe comunque su due premesse, fra di loro strettamente interconnesse:

  • Il concordato con continuità non è ascrivibile al genus dell'espropriazione forzata, posto che in prevalenza esso mira alla ristrutturazione del compendio, senza trasferimento “coattivo” di beni, sicché il tema dell'art. 2740 c.c. non ha motivo di porsi;
  • Nel concordato con continuità è comunque implicitamente ma espressamente autorizzata una deroga implicita all'art. 2740 c.c., con riferimento a quegli assets, strumentali alla prosecuzione dell'attività, che non verranno alienati.

In realtà, entrambe le premesse concettuali, fondate sul medesimo presupposto tacito, appaiono viziate.

Certo la responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. corrisponde come si diceva, nella sua migliore teorizzazione (per tutti v. Nicolò, op. loc. citt.), alla soggezione dei beni del debitore alle azioni esecutive dei creditori.

Che questo sia un nesso definitivamente reciso, nell'ambito del concordato con continuità, anche e proprio con riferimento ai beni “vocati” alla continuazione dell'attività d'impresa, è in realtà seriamente discutibile.

Sicuramente l'espropriazione non è possibile fintantoché la procedura è pendente, in forza dell'art. 168 l.fall., ma si tratta di un effetto temporaneo, che tutela le attività della procedura sino alla definitività dell'omologa, e che non può certo qualificare l'intera funzione dell'istituto.

Nemmeno aderendo all'idea del patrimonio “separato” (v. infra), a ben vedere, si deve giungere a tale risultato, posto che la separazione tutela i creditori concorsuali rispetto alla eventualità che creditori successivi, non sottoposti alla “autorità” del decreto di omologazione ex art. 184 l.f., provino ad aggredire i beni presenti nel patrimonio del debitore; ma non impone affatto che gli stessi creditori concorsuali non possano mai aggredire lo stesso compendio.

La giurisprudenza di merito (v. App. Milano, 8 luglio 2014; Trib. Reggio Emilia, 24 giugno 2015; Id., 6 febbraio 2013; Trib. Sulmona, 27 febbraio 2008; contra però Cass., 17 aprile 2003, n. 6166; conf. di recente Trib. Milano, 17 dicembre 2012, in Il caso) sembra manifestare effettivamente una “strisciante” tendenza a ritenere che dopo l'omologazione, in forza di un'interpretazione “estensiva” dell'art. 168 l.f., oppure dell'art. 184 l.f., non sia più possibile per i creditori agire esecutivamente nei confronti del debitore concordatario.

Tuttavia l'impossibilità di agire esecutivamente sui beni del debitore dopo l'omologa consegue semmai, a mio parere, alla ridefinizione dei termini di esigibilità dell'obbligazione, dal lato sostanziale dell'obbligazione, e viene pertanto meno quando il credito, scaduto il termine per l'adempimento concordatario, ridiventa esigibile.

D'altro canto questa sembra anche l'opinione della letteratura dominante, secondo la quale dopo la scadenza del termine fissato per l'adempimento concordatario il creditore riacquista l'esercizio delle sue azioni dirette ad ottenere l'adempimento, anche esecutive (conf. Nardecchia, L'art. 169 l. fall. dopo la riforma del concordato preventivo, in Fall. 2009, 637 ss.; Id., Gli effetti del concordato preventivo sui creditori, Milano, 2011, 166 ss.; Ambrosini, Il concordato preventivo, Torino, 2014, 307).

L'ampiezza dell'azione esecutiva sarebbe comunque limitata all'importo della falcidia concordataria, in carenza della risoluzione del concordato (il punto non può tuttavia essere qua approfondito: v. anche supra).

Ma ciò non toglie nemmeno che i creditori concorsuali, e gli altri legittimati, siano comunque ancora facoltizzati ad instare per il fallimento della società debitrice che sia inadempiente, stante la palese insolvenza della stessa, che non è in grado di adempiere integralmente alle proprie obbligazioni.

Lo stato di insolvenza infatti non è stato forse effettivamente rimosso, ed anzi parrebbe predicabile comunque spesso l'insorgere di una nuova insolvenza, rapportata alle passività della società così come “conformate” dall'omologazione del concordato, una volta scaduto il termine per l'adempimento fissato dalla proposta.

In contrario non può addursi nemmeno la portata dell'art. 168 l.fall., posto che da un lato come si è visto la norma non può più trovare applicazione dopo la chiusura della procedura che consegue all'omologa (definitiva), e dall'altro essa non è reputata di ostacolo alla declaratoria di fallimento nemmeno nella stessa pendenza della procedura concordataria (v. di recente Cass., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 9935).

Dunque se i creditori concordatari non vengono pagati, nei tempi e nei modi della proposta omologata, essi riacquistano le proprie azioni e pretese esecutive, come se il concordato non vi fosse mai stato, azioni che possono esercitare anche a tutela di un'obbligazione “ristrutturata”.

Medio tempore essi non sono affatto privati di tali pretese, ma semplicemente non possono esercitarle in forza della carenza dei presupposti sostanziali tipici: i loro crediti infatti sono inesigibili.

Quando essi riacquistano con pienezza le proprie facoltà, le faranno valere ovviamente nei confronti dei beni del debitore, vocati o meno all'attività d'impresa, vecchi e nuovi, beninteso nello stato in cui li troveranno.

Si vede bene allora come non vi sia in realtà in queste fattispecie alcuna “deroga” all'art. 2740 c.c.: il debitore resta responsabile con tutti i suoi beni, anche durante il concordato; semplicemente i creditori incontrano per un certo periodo di tempo dei limiti (peraltro temporanei) nell'esercizio di quelle facoltà, limiti determinati prima dalle norme concordatarie (art. 168), e poi dagli effetti sostanziali dell'omologazione.

Vi è tuttavia una ragione ancor più profonda, che impatta direttamente sull'altra premessa concettuale errata: l'art. 2740 c.c. visualizza, nella sua matrice tipica, la relazione bilaterale fra debitore e singolo creditore, relazione intermediata dallo Stato che realizza la pretesa esecutiva mediante l'espropriazione dei beni che sono soggetti alla responsabilità.

Nel fallimento tale pretesa esecutiva individuale si “converte” come è ben noto in qualcosa di diverso: essa diviene “collettiva”, venendo assorbita nel concorso fallimentare; poiché però tale concorso ha come obiettivo la liquidazione del patrimonio del debitore, è agevole non perdere di vista quel nesso fra pretesa e beni ad essa soggetti. Tant'è vero che la Massa può avvalersi degli effetti del pignoramento effettuato dal creditore ante procedura, anche se il curatore non subentri nella procedura espropriativa singolare (arg. ex art. 107 l.fall.).

Quella pretesa deve essere poi accertata insieme col credito concorsuale, e viene tradotta dal meccanismo dell'accertamento del passivo in legittimazione ad accedere al riparto, quando viene distribuito il ricavato della liquidazione di beni, appunto, a quella pretesa concretamente soggetti.

E' anche questo un processo di decodificazione e di trasformazione di una pretesa individuale in concorsuale.

Nel concordato preventivo non vi è il meccanismo formale che concede quella legittimazione, l'accertamento del passivo, ma il concorso c'è comunque; anche in tal caso quella pretesa si converte in qualcos'altro di collettivo, ma non è detto che la situazione di destinazione, prodotto della conversione, debba anche qua manifestarsi come teleologicamente omogenea a quella di provenienza; anche se il concorso mira comunque a soddisfare il creditore, può darsi che le forme di attuazione collettiva di quella pretesa divengano più complesse.

Così, nel concordato liquidatorio obiettivo della procedura è comunque la liquidazione del patrimonio del debitore: è molto più semplice vedere in quest'operazione l'equivalente della vendita forzata, e quindi respingere con naturalezza l'idea di sottrarre alla liquidazione qualche assets.

Ma nel concordato con continuità aziendale taluni assets non vengono programmaticamente destinati alla vendita; ciò non toglie che anch'essi siano “destinati”, sia pur con forme differenti, più complesse, dinamiche anziché statiche, al servizio dei creditori; essi cioè sono vocati al soddisfacimento della Massa in un modo diverso da quello tradizionale.

Ciò comporta delle limitazioni alle facoltà individuali, poiché si tratta sempre di una modalità di soddisfacimento “concorsuale”; ma quando il concorso cessa, ed i suoi effetti vengono vanificati, perché il debitore comunque non è in grado di adempiere, quella pretesa originaria, che non è mai venuta meno, si riespande per effetto della cessazione del concorso e del verificarsi della condizione che bloccava l'esercizio del diritto di credito.

Certo le peculiarità del concordato, e di quello con continuità in particolare, hanno suggerito e continuano a suggerire ansie, nell'importare istituti e strumenti tipici dell'esecuzione forzata, anche là dove nel fallimento le stesse criticità non vengono invece riscontrate: si pensi ad es. alla vicenda della destinazione dei canoni locatizi al soddisfacimento del creditore ipotecario (cfr. Munari, Concordato preventivo e destinazione dei canoni di locazione di immobili ipotecati: un possibile percorso interpretativo, in Giur. comm., 2017, I, 873 ss.; nel fallimento tali ricavi debbono senz'altro essere ascritti al creditore ipotecario: Cass., 9 maggio 2013, n. 11025).

Lo “spossessamento” così risulta per tradizione “attenuato” nel concordato, e nel concordato con continuità in modo particolare, ma ciò non esclude che il concordato sia “procedura concorsuale” (anche ai fini della regolamentazione comunitaria del fenomeno); e comunque tutto il patrimonio è comunque “destinato” ai fini della procedura, id est il soddisfacimento dei creditori, anche quello vocato alla prosecuzione dell'impresa; il debitore può disporre dei beni aziendali strumentali solo se autorizzato, e persino il trasferimento dei beni- merce, prodotto dell'impresa, può essere assoggettato in taluni casi a limitazioni e controlli: la vendita del magazzino in blocco richiede la procedura di cui all'art. 163-bis l.fall., non è liberamente arbitrabile dal debitore, e così pure (si ritiene) la vendita di prodotti di rilevante valore unitario, benché rientrante nello “oggetto tipico dell'impresa; si pensi agli immobili, oppure ad un'impresa che produce pochi prodotti complessi all'anno, di rilevante importo unitario.

Basta del resto mettere a fuoco l'obiettivo per inquadrare meglio la situazione, e per realizzare che comunque il concordato è uno strumento di realizzazione della responsabilità patrimoniale (in tal senso, per tutti, autorevolmente Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, in Tratt. Bessone, XXV, Torino, 2012, 147 s.); ciò vale per qualsiasi concordato, perché non esiste un concordato con continuità che costituisca un istituto diverso da quello di cui all'art. 160 l.fall. (così come hanno sottolineato anche di recente le cit. Cass., n. 9061/2017, e n. 29742/2018).

Si è scelto di procedere con questo andamento, invertendo l'ordine espositivo dal generale al particolare, per mettere subito in evidenza le aporie insite nelle ricostruzioni che si sforzano di “slegare” il concordato con continuità dal principio della responsabilità patrimoniale.

Non mancano tuttavia in dottrina le elaborazioni, anche abbastanza complesse, che mirano direttamente a negare l'applicabilità dell'art. 2740 in materia concordataria, almeno come limite legale alla competenza della maggioranza, oppure che in modo ancor più raffinato si sforzano di dimostrare che esso verrebbe fatto oggetto di applicazioni non solo conformi, ma addirittura più efficienti ed armoniche con la sua funzione. Cfr. ad es. G. Ferri jr., Il trattamento dei creditori nel concordato tra competenze collettive e interessi individuali, in Odcc, 2015, 371 ss.; Ant. Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato preventivo, in Giur. comm., 2015, I, 331 ss.; e cfr. anche gli scritti, di chiarezza crescente sul tema specifico, di G. D'Attorre, Concordato preventivo e responsabilità patrimoniale del debitore, in Riv. dir. comm., 2014; Id., La finanza esterna tra vincoli all'utilizzo e diritti di voto dei creditori, in Il caso, 20 maggio 2014; e Id., Concordato con continuità e ordine delle cause di prelazione, in Giur. comm., 2017, I, 39 ss.; cfr. poi Fabiani, La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de- concorsualizzazione del concordato preventivo, in Il caso. V. anche di recente, per un'efficace sintesi delle posizioni, Finardi, Le diverse interpretazioni del principio di responsabilità patrimoniale nel concordato con continuità, in www.ilfallimentarista.it, 20 dicembre 2017. In senso rigoroso, invece, e decisamente nella direzione di riaffermare l'operatività del principio in subiecta materia, cfr. Vattermoli, op. loc. citt.

L'idea dell'omesso espresso richiamo del disposto dell'art. 2740 c.c. (così come dell'art. 42, comma 2, l.fall.: v. infra) mi pare l'argomento più debole: trattandosi di un principio generale del diritto delle obbligazioni, e vertendosi in un caso di attuazione della responsabilità del debitore verso i creditori, come si è creduto poc'anzi di dimostrare, ritengo che semmai dovrebbe essere rinvenuto un addentellato normativo espresso, magari anche solo implicito, che possa costituire la fonte della “deroga”, legittimata peraltro in via generale dal comma 2° della norma codicistica.

Tale deroga come si è visto non può essere racchiusa nella funzione stessa dell'istituto, nemmeno nella finalità di ristrutturare l'impresa, poiché come si è già visto tale funzione non è affatto incompatibile con la responsabilità patrimoniale, se correttamente intesa, al massimo della sua latitudine funzionale.

Anzi, l'enfasi espressa posta sul rispetto dell'”ordine legale delle cause di prelazione” (art. 160, comma 2, l.fall.) suggerisce semmai la conclusione contraria, pur senza forse risultare risolutiva; è vero fino ad un certo punto, infatti, che tale disposto attenga ai rapporti fra creditori, e non già a quelli fra creditori e debitore, posto che esso se si preoccupa di “normalizzare” un criterio distributivo rigido che ha per oggetto un patrimonio insufficiente, risulta abbastanza singolare immaginare che il Legislatore avesse in mente anche la facoltà del debitore di riservarsi alcuni beni facenti parte di quello stesso patrimonio (per definizione insufficiente). Si assume qua l'obbligo in un'accezione “forte”, per cui non è possibile attribuire nulla al creditore di rango postergato prima che sia integralmente pagato quello di rango antergato (in senso conf. di recente cfr. Trib. Rimini, 10 maggio 2018, in www.ilcaso.it); d'altro canto questa è la nozione dell'ordine di distribuzione accolta dall'art. 2741 c.c., e risulta difficile comprendere su quali basi l'estensore dell'art. 160 l.f. avrebbe potuto presupporre un criterio distributivo differente, assente nel nostro ordinamento, senza declinarlo contestualmente ed espressamente.

Si è allora detto che la deroga dovrebbe giacere nell'adozione del meccanismo decisionale a maggioranza, ma anche questo mi pare costituire un paralogismo: prima semmai si dovrebbe dimostrare che la materia rientri nella competenza della maggioranza (la “relatività” del principio di maggioranza, in materia concordataria, mi sembra affermata anche da Cass., Sez. Un., 28 giugno 2018, n. 17186). Ad es. non vi è dubbio che la Legge assegni alla maggioranza il potere di derogare (in parte) all'art. 2741 c.c., atteso che con la formazione delle classi è appunto possibile attribuire trattamenti diversificati a creditori di identico rango; ma nessuna previsione è invece apparentemente dedicata ai precetti contenuti nell'art. 2740 c.c.

Nel diritto societario esistono è vero procedimenti di decisione organizzati e “collettivi” (per la verità costituiti sempre su basi volontarie, ossia previamente accettati dai partecipanti), che consentono di adottare decisioni a maggioranza; ma ciascun meccanismo opera nel contesto di una sfera di legittimazione precostituita, da cui non può debordare, a pena di inefficacia del dispositivo: così è vero che la maggioranza può disporre della quota del socio attraverso operazioni di riduzione/aumento del capitale sociale, ma certo essa non può disporre del diritto di opzione, né essa è legittimata a trasferire a terzi le partecipazioni del socio; così anche per l'art. 2376 c.c.; e così pure, con riferimento ad es. all'organizzazione “collettiva” degli obbligazionisti, sono ben note le diatribe fra sostenitori delle tesi “estensive” e “restrittive” in ordine proprio alla competenza della maggioranza (arg, ex art. 2415, n. 5, c.c.), che comunque certo non può ad es. rinunziare al credito; e questo nonostante la presenza di una norma che sembrerebbe subordinare le azioni individuali a quella collettiva (art. 2419 c.c.).

La presenza di un procedimento decisionale maggioritario non può d'altro canto mai costituire argomento sufficiente per stabilire se la tutela costituita da una norma imperativa sia stata ivi derogata, in carenza della dimostrazione che tale materia rientra appunto nella sfera di competenza della maggioranza; maggioranza i cui deliberati costituiscono d'altro canto la tipica esplicazione di un “potere privato”, come tale assoggettato naturalmente e necessariamente ad interpretazioni “caute”.

Su un piano più raffinato, si è osservato allora che il concordato comunque comporta l'apposizione su un patrimonio di un vincolo segregativo, dandosi così vita ad un “patrimonio separato”, i cui componenti son vincolati al soddisfacimento dei creditori concorsuali; già questo costituirebbe una deroga all'art. 2740 c.c., dopodiché la eventuale esclusione di qualche bene dal vincolo corrisponderebbe solo alla perimetrazione di quel patrimonio, senza costituire deroga alcuna al “principio”, già peraltro derogato in subiecta materia.

Senonché, a prescindere dal fatto che dell'esistenza di tale vincolo segregativo non sembrano esservi prove … se non “circostanziali” (v. infra), non mi pare che l'argomento colga comunque nel segno: quand'anche tale patrimonio separato esistesse, infatti, non si vede come ciò dovrebbe essere di ostacolo ad un'interpretazione per cui tutti i beni del debitore debbano farne parte, senza che alcuno possa esservi sottratto, costituendo appunto lo stesso una forma di attuazione dell'art. 2740 c.c.

D'altro canto tale vincolo servirebbe solo a tutelare i creditori concorsuali (soprattutto dopo l'omologazione) rispetto all'eventualità che altri creditori, non soggetti all'efficacia obbligatoria del concordato, possano aggredire gli elementi dell'attivo nei quali hanno confidato, e sulla base dei quali essi hanno espresso il voto; non si vede, pertanto, cosa tale figura avrebbe a che fare col problema che stiamo indagando: la funzione di tale patrimonio separato infatti dovrebbe essere semmai la tutela della responsabilità patrimoniale, senza in alcun modo limitarla, ma anzi costituendone una (ulteriore) forma attuativa.

Ancora, su un piano differente, si è scritto che il concordato agirebbe sul piano del debito, non della responsabilità, sicché l'applicazione dell'art. 2740 c.c. sarebbe estranea alla fattispecie; l'obiezione mi ricorda un po' quelle elaborazioni che, negli anni '80-90, sostenevano che le clausole contenute nei contratti bancari relativi all'uso delle cassette di sicurezza, le quali limitavano gli obblighi risarcitori della banca ad un massimale prefissato, non fossero qualificabili come limitazioni di responsabilità, ma piuttosto come delimitazioni dell'oggetto del contratto.

La responsabilità infatti assiste il debito, seguendone tutte le mosse: se il creditore transige col suo debitore, riducendo il credito, la soggezione dei beni di quest'ultimo alla pretesa esecutiva del primo si riduce come valore, ma continua ad avere ad oggetto lo stesso patrimonio, che è infatti sempre “tenuto” con l'intero dei suoi elementi, anche se per un valore ridotto.

La circostanza che l'art. 184 l.fall. modifichi l'obbligazione dunque non può spiegare alcuna rilevanza ai nostri fini: il debito verrà certo modificato, ma questo non autorizza a pensare che si possa modificare anche la struttura stessa della responsabilità.

Più suggestiva è l'idea che quell'effetto legale del decreto di omologazione estingua in realtà il debito, sostituendolo con una nuova obbligazione; a fronte di tale qualificazione, che non si esita a definire “novativa”, verrebbero meno le garanzie (arg. ex art. 1232 c.c.), e dunque anche quella responsabilità, cui si sostituirebbe parallelamente una nuova responsabilità, ricalibrata tuttavia dal concordato.

Tuttavia, che il decreto di omologazione consegua effetti realmente “novativi” è quantomeno dubitabile: detta qualificazione era per lo più esclusa prima della Riforma, ma non mi pare possa essere accolta nemmeno oggi, benché sicuramente gli effetti modificativi dell'”obbligatorietà” del concordato si possano misurare su un terreno molto più ampio del passato (ove è ben possibile che il credito sia estinto ad es. mediante datio in solutum). Ma l'adempimento concordatario che attribuisce al creditore qualcosa di diverso dal denaro estingue il credito, e dunque realizza definitivamente la responsabilità, senza più porla in questione.

Più correttamente, si tende a pensare che il concordato realizzi effetti modificativi sull'obbligazione, anche radicali, non riconducibili ad un fenomeno già noto del diritto civile, ma interamente “tipici” e determinati dal diritto concorsuale.

Per questo si parla, efficacemente, di effetto “conformativo” del decreto di omologazione, richiamando un fenomeno, tipico del diritto pubblico, ove un diritto del privato viene non già estinto, ma modificato dall'esercizio di poteri inerenti all'urbanistica ed alla gestione del territorio, funzionalizzandolo al conseguimento degli interessi pubblici così tutelati.

Ma in ogni caso, resta il fatto che l'art. 184 l.fall. produce un effetto che costituisce esecuzione del concordato, e dunque proprio di una procedura che, come si è visto, si presenta come forma di attuazione della responsabilità patrimoniale. Dunque non ha senso ipotizzare che sia proprio l'effetto “conformativo” del concordato a rescindere il nesso fra debito e responsabilità.

Ed in ogni caso si tratta di una forzatura che resta facilmente svelata se solo si riflette sul fatto che l'effetto estintivo delle garanzie (peraltro non indissolubile da quello novativo, atteso che la volontà contraria delle parti nell'art. 1232 c.c. può escluderlo) non si verifica affatto, normalmente, nel concordato, né rispetto a quelle costituite da terzi (art. 184, comma 2, l.fall.), né su quelle costituite sul patrimonio del debitore, che infatti vengono piuttosto realizzate, in fase di esecuzione del concordato.

Vi è un unico caso in cui l'omologazione del concordato produce proprio l'effetto che la dottrina qua criticata ipotizza (ossia la “cancellazione” della responsabilità patrimoniale originaria): quella in cui il concordato è per assunzione di un terzo, con liberazione definitiva del debitore; ma in tal caso alla responsabilità patrimoniale del debitore si sostituisce quella dell'assuntore, scindendosi definitivamente il vincolo fra beni e crediti, al punto tale che non è poi neppure più possibile la risoluzione del concordato. La fattispecie presenta dunque dei punti di contatto con la datio in solutum (v. supra).

Un'ultima prospettiva esegetica, assai suggestiva, ipotizza che, addirittura nei concordati liquidatori, sia possibile sottrarre taluni beni all'attuazione delle pretese dei creditori, non solo e non tanto sulla base della assunta inapplicabilità dell'art. 2740 c.c. (tesi peraltro appena confutata), ma in forza di una ricostruzione sistematica che condiziona l'ammissibilità di tale soluzione al riscontro positivo della conformità del concordato al “miglior soddisfacimento dei creditori” (in tal senso ancora Ant. Rossi, Il migliore soddisfacimento, cit., 647).

Tale proposta di lettura si segnala perché intuisce ed intercetta effettivamente una linea di tendenza trasversale nel sistema (v. anche supra): nei casi in cui la legge consente modificazioni della sfera relativa alla responsabilità patrimoniale, è dato sempre ai creditori uno specifico strumento di tutela: o il potere di rifiutare la liberazione di un condebitore, previa comunicazione dell'intento, come nel caso della trasformazione da società di persone in società di capitali; oppure l'opposizione (art. 2503 c.c.), che comporta la conseguenza per cui il Giudice valuterà nel merito se l'interesse dei creditori sia pregiudicato: così nell'archetipo della fusione, come in diversi altri casi.

Qualora una disposizione di legge prevedesse una tale modificazione, senza dotare i creditori di un analogo strumento di tutela, detta disciplina dovrebbe essere dichiarata incostituzionale, per la disparità di trattamento (art. 3 Cost.) così generatasi rispetto ai casi analoghi, e per la lesione del diritto di azione del creditore (art. 24 Cost.: così, nel recente passato, Corte Cost., 20 febbraio 1995, n. 47, nell'ipotesi della fusione eterogenea).

L'accertamento del merito della conformità dell'operazione all'interesse dei creditori costituisce pertanto una condizione di legittimità della disciplina primaria che instauri una modificazione del regime di responsabilità patrimoniale, senza il consenso espresso dei singoli creditori (non a caso il “Codice della crisi e dell'insolvenza” ne fa uso più volte, come si è già detto, soprattutto in materia di gruppi); ma non può costituire anche una soluzione applicativa “fai da te”, ove difetti invero una norma che autorizzi la deroga all'art. 2740 c.c., e così pure uno strumento giudiziale di tutela come quelli che abbiamo appena esaminato.

Dunque, in conclusione, nessuna limitazione al principio superiore della responsabilità patrimoniale è veramente predicabile né nel concordato liquidatorio, né in quello con continuità aziendale.

Continuità aziendale e obbligo di mettere a disposizione tutti i propri beni

L'art. 186-bis l.fall., come è ben noto, precisa che “il piano può anche prevedere la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”.

Ci si domanda se sia possibile escludere taluno o tutti i beni “non funzionali” alla prosecuzione dell'impresa dalla loro liquidazione nell'interesse dei creditori.

Come si è già visto, nel concordato liquidatorio tale soluzione operativa è ritenuta per lo più non ammissibile.

La questione tuttavia suscita maggiori perplessità con riferimento ai concordati con continuità: la giurisprudenza ha talvolta “validato” dei piani con continuità in cui taluni assets, non direttamente impiegati nel processo produttivo, venivano “trattenuti” nel patrimonio del debitore, senza essere destinati al realizzo sul mercato del loro valore (così Trib. Firenze, 2 novembre 2016, cit.); e ciò, esplicitamente, anche al fine di consentire di creare una “riserva” col fine di migliorare le chances della continuità.

L'influenza sulla soluzione, tuttavia, dell'impostazione per cui il concordato con continuità legittima deroghe all'art. 2740 c.c., e delle ricostruzioni che collocano il perseguimento della continuità al di sopra di ogni “valore”, ivi compreso quello “superiore” dei creditori, mi pare del tutto evidente.

Ove ciò fosse consentito, mi sembra, verrebbe tuttavia palesemente violato proprio il nucleo essenziale dell'art. 2740 c.c., in quanto se è pur vero che è il debitore a scegliere (col piano) cosa è strategico alla continuità e cosa non lo è, è anche vero però che il debitore non può certamente evitare di liquidare quello che strategico non è, e dunque non risulta per definizione né essenziale né utile al fine di conseguire quel risultato.

Là dove, infatti, assets anche importanti e destinati magari prospetticamente a mantenere un rilevante valore residuo al termine del piano concordatario, facenti parte dell'attivo del debitore, e dichiaratamente non strumentali alla prosecuzione dell'attività di impresa, non venissero liquidati a beneficio dei creditori concorsuali, ma trattenuti nel patrimonio a tutto vantaggio dei suoi soci, e semmai dei creditori futuri, mi pare che la violazione dell'art. 2740 c.c. si porrebbe in modo più che evidente (conf. F. Rolfi, in Rolfi- Ranalli, Il concordato in continuità, cit., 53 s.).

E questo tanto ove si ritenesse che persino nel concordato con continuità non si ponga alcuna “deroga” all'art. 2740 c.c., in forza delle argomentazioni che abbiamo cercato sopra di offrire al dibattito, posto che allora non vi sarebbe davvero alcuna giustificazione logica per sostenere tale conclusione, quanto se invece dovesse pur aderirsi all'impostazione dominante, posto che la “deroga” sarebbe accettabile con riferimento ai beni “funzionali”, ma non potrebbe in alcun modo legittimarsi rispetto agli altri; anzi, a maggior ragione per i beni “residui”, ossia estranei al segmento di patrimonio necessario alla continuità, sarebbe impredicabile la legittimità di una soluzione operativa che li “riservi” al debitore. Tantopiù quando sarebbe lo stesso debitore, in modo sostanzialmente arbitrario (sottolinea l'esigenza che la funzionalità sia intesa con riferimento alla struttura dell'azienda ristrutturata F. Rolfi, in Rolfi- Ranalli, Il concordato in continuità, cit., 54), a stabilire cosa sia “funzionale” e cosa invece non lo sia.

Che sarebbe poi come dire riservare una parte del valore del patrimonio ai soci, posto che nel diritto italiano parrebbe consentito che la ristrutturazione finanziaria dell'impresa insolvente venga realizzata interamente a spese dei creditori, per effetto della falcidia concordataria, laddove l'equity può mantenere in ipotesi il proprio valore “partecipativo” rispetto al capitale netto ricostituito dopo l'omologa; diversamente, una parte della dottrina ha sostenuto anche nel nostro sistema la necessità che i soci contribuiscano con “new value” alla ristrutturazione (Vattermoli, op. loc. citt.). Anche se la questione non può essere qui approfondita, tale peculiarità normativa aggrava la potenziale distorsione che può realizzarsi se un terzo, anziché acquistare gli assets aziendali dell'impresa insolvente attraverso le forme di cui agli artt. 163-bis - 182 l.fall., compri le partecipazioni dei soci al capitale sociale; nell'ordinamento nordamericano ciò deve avvenire comunque tramite un'asta aperta al pubblico; da noi è invece fortemente discusso se si tratti di una modalità operativa “elusiva” del principio posto dai già richiamati artt. 163-bis- 182 l.fall., che impongono il ricollocamento “competitivo” degli assets aziendali (in senso affermativo Trib. Alessandria, 14 dicembre 2017, caso Borsalino “2”; contra però Trib. Napoli, 4 luglio 2018, caso “Bottiglieri”). E' appena il caso di aggiungere che nessuna competizione “aperta” ed efficiente potrà realmente immaginarsi, con riferimento alle proposte concorrenti, almeno fintantoché sarà possibile a tutti i potenziali interessati, in primis al debitore, fare modifiche migliorative della proposta sino a 15 giorni prima dell'adunanza (art. 172 l.fall.), senza aprire successivamente una gara in regime di contestualità e “chiusa”, così come avviene ad es. con l'art. 163-bis l.fall.

Anche in questo caso l'argomento letterale non può essere sopravvalutato, soprattutto a discapito di quello funzionale: l'art. 186-bis l.fall., là dove afferma che il piano “può” prevedere anche l'alienazione di beni non “funzionali” all'attività di impresa, non detta una regola di mera facoltatività della liquidazione in favore dei creditori dei beni non strumentali alla continuità, ma al contrario facoltizza il debitore a strutturare piani concordatari nella forma “mista”, id est serve solo a legittimare dal punto di vista giuridico la “ibridazione” del piano concordatario, ove appunto il compendio aziendale in continuità è “vocato” al soddisfacimento dei creditori attraverso non la loro liquidazione, bensì il loro impiego nella continuazione dell'impresa; laddove gli attivi residui, non “funzionali” appunto a quella continuità, e quindi non già “vocati” al soddisfacimento dei creditori in quella forma, debbono pur essere oggetto di liquidazione, al fine di realizzare appunto la garanzia della Massa secondo i dettami di cui all'art. 2740 c.c., ove “tutti” i beni del debitore (anche quelli futuri: v. infra) debbono essere utilizzati nell'interesse dei creditori del concorso.

D'altro canto i creditori, scaduto il termine per l'adempimento contenuto nella proposta, ritornano come è noto liberi di espropriare tutti i beni del debitore, vocati e non alla continuità; e ciò perché il “patrimonio” del debitore resta tutto destinato al soddisfacimento dei creditori, sia pur con modalità differenti da quelle classiche: i beni strumentali alla continuità dunque non possono essere oggetto di espropriazione fin tanto che dura il piano con continuità diretta, mentre gli altri sono sin da subito destinati al soddisfacimento nelle modalità ordinarie.

La necessità di fare applicazione dell'art. 2740 c.c. al concordato con continuità si impone del resto proprio negli hard cases, ove la soluzione concorsuale fallimentare conduca ad una ingente svalorizzazione dei cespiti funzionali alla prosecuzione dell'impresa, atteso che la legittimazione della prospettiva per cui il debitore potrebbe “trattenere” nel proprio patrimonio, senza metterli a disposizione del ceto creditorio, assets estranei alla continuità, metterebbe sovente la Massa nella situazione di dover subire la scelta “opportunistica” del debitore di sottrarre semplicemente alla garanzia una rilevante fetta dei propri attivi residui.

Si consideri ad es. l'ipotesi di un attivo che contempli per circa il 50% beni funzionali all'impresa, destinati a disgregarsi quasi integralmente col fallimento; non operando nemmeno in subiecta materia il limite del 20%, il debitore potrebbe costringere i creditori a votare qualsiasi piano che prometta ai creditori un livello di soddisfacimento appena superiore al valore di liquidazione degli assets “non funzionali”, ma conservando ed esdebitando questi ultimi, nonostante l'affidamento maturato dai creditori (anche) nel valore di questi ultimi al momento di contrarre le obbligazioni.

Non si potrebbe pertanto dire che la soluzione sia rimessa all'apprezzamento dei creditori, posto che fra l'altro notoriamente l'art. 2740 c.c. costituisce norma imperativa, perché il Legislatore ha valutato che una negoziazione fra debitore e creditori in ordine agli effetti della stessa non possa svolgersi in condizioni di efficienza.

In sostanza in qualsiasi situazione di crisi al debitore potrebbe convenire adottare un piano concordatario con continuità, ove potrebbe in questa prospettiva esdebitare il proprio patrimonio, abbattendo in modo consistente il proprio passivo, nonostante la maggiore evidente potenzialità satisfattiva del proprio attivo.

Ciò indurrebbe i creditori ad adottare ex ante comportamenti di estesa autotutela, ricercando con costanza il rilascio di garanzie su beni specifici, e rendendo più difficile il procacciamento del credito, anche commerciale; con risultati sistemici di estesa selezione avversa.

Ma più in generale tale ricostruzione asseconderebbe e privilegerebbe non già l'interesse dei creditori, bensì quello oggettivo alla conservazione dell'attività imprenditoriale, ribaltando la gerarchia sistematica imposta se non altro dall'art. 186bis l.f., con il requisito del “miglior soddisfacimento dei creditori”.

Si tratta semplicemente di una soluzione asistematica, non giustificabile né sotto il profilo giuridico né sotto quello economico.

Nemmeno potrebbe ragionarsi in termini di “prevalenza” della parte del Piano in continuità, posto che la prevalenza è predicabile con riferimento alla componente “liquidatoria” del Piano, e non rispetto alla componente del patrimonio ipoteticamente non destinata ad alcun realizzo.

Ciò non vuol dire anche che gli assets non “funzionali” debbano essere oggetto di una “gestione concordataria secondaria”, ove i ricavi della liquidazione, separati da quelli della continuità, vadano direttamente a soddisfare i creditori concorsuali; la “vocazione” dei beni in questione al successo del piano concordatario fa sì, infatti, che gli stessi debbano semplicemente contribuire alla riuscita del piano, e dunque al conseguimento degli obiettivi della proposta. E questo perché il piano è unico.

Se poi il debitore formulasse un'offerta troppo “al ribasso”, promettendo ai creditori un'aliquota molto inferiore a quella che si potrebbe ottenere realizzando sul mercato tutti gli assets in questione, e ciò magari proprio al fine di non liquidare questi, trattenendone il valore, e così sottraendolo alla Massa, la tutela sarà rappresentata dalla valutazione anche giudiziale “forte” del “miglior soddisfacimento dei creditori”, poiché è probabile che simili proposte rischino di porsi in termini concretamente anticompetitivi rispetto alle alternative liquidatorie, anche intese alla vendita “in blocco” concordataria.

E' da escludere invece che il “miglior soddisfacimento” vada accertato anche con riferimento ad alternative concordatarie sempre con continuità aziendale, ove potrebbe emergere la maggiore convenienza per i creditori di una destinazione alla Massa di tutti i proventi possibili, e questo non perché il requisito debba essere inteso in termini “assoluti” o piuttosto “relativi”, ma a causa della già più sopra ricostruita funzione dello stesso, che costituisce solo un requisito di legittimazione della continuità diretta rispetto a soluzioni concordatarie eterogenee, meno rischiose per i creditori, e non già un presupposto generale di ammissibilità del concordato; in breve, il debitore non deve comunque offrire ai creditori la migliore soluzione possibile ma, quando redige un piano con continuità diretta, deve dimostrare che non esistono soluzioni differenti più favorevoli.

In tal modo, come si vede bene, è da escludersi che il giudizio sul miglior soddisfacimento renda la soluzione ristrutturativa impossibile nei fatti, ciò che risulta tanto temuto dalle correnti di pensiero qua avversate.

Dunque il debitore dovrà destinare al piano ed alla proposta concordatari tutti i suoi beni, realizzando su di essi la pretesa dei creditori fondata sull'art. 2740 c.c., sia pur in modo più complesso di quanto accade con le procedure “liquidatorie”: i beni “funzionali” non saranno alienati, e costituiranno la “spina dorsale” della continuità; i beni “non funzionali” saranno pur essi “vocati” in realtà alla riuscita del piano, dovendo necessariamente quest'ultimo contenere in modo specifico la loro destinazione: liquidazione al servizio dei creditori, se ciò occorra per realizzare gli obiettivi satisfattori della proposta, oppure per sostenere lo stesso successo della ristrutturazione, fornendo dei flussi di cassa aggiuntivi, che in ogni caso non potranno essere semplicemente funzionali agli interessi del debitore (e dei suoi soci), prima che gli obiettivi del concordato siano raggiunti, ed i creditori concorsuali siano stati pagati (in tal senso, di recente, Trib. Rovigo, 27 luglio 2018, in Il caso).

Nuova finanza e risorse “esterne”

Un altro tema, collaterale a quelli che abbiamo sinora trattato, e che domina le scene della letteratura sui concordati, anche e soprattutto con continuità, attiene alla ampiezza delle possibilità operative di addivenire di fatto ad una distribuzione delle risorse disponibili in modo difforme dall'ordine legale delle cause di prelazione; ordine che, come abbiamo già detto, assumiamo anche in questa sede in un significato “intransigentemente forte”.

Il ritardo endemico nell'accesso agli strumenti regolatori della crisi, e la smaterializzazione degli attivi tipica dell'economia moderna, hanno infatti determinato una frequente e diffusa “insufficienza” degli assets residui del debitore, al momento dell'ingresso in concordato, accompagnata da una inidoneità degli stessi a sprigionare ancora risorse sufficienti per “coprire” soprattutto le passività oggetto di privilegi generali, spesso in gran parte fiscali.

Anche per tentare di rimediare a tale situazione il Legislatore del 2015 ha introdotto il limite legale del 20%, così da indurre il debitore ad accedere alla soluzione regolatoria in modo precoce, quando ancora il suo patrimonio residuo può sprigionare quel livello di recupero per il credito; e ciò in modo armonico anche con la Raccomandazione UE del 2014 e con la più recente Proposta di Direttiva, che ha fra i principali obiettivi proprio quello dell'intervento “precoce” in funzione regolatoria della crisi. In modo però asincronico, e sulla spinta di differenti rationes di politica del diritto, l'intervento del 2015 ha esentato da tale restyling il concordato con continuità; di ciò si è già detto.

Poiché tuttavia il limite del rispetto dell'”ordine legale” attiene alla distribuzione del patrimonio del debitore, gli operatori hanno subito compreso che all'insufficienza del medesimo si sarebbe potuto rimediare mediante apporti “esterni”, ossia tramite l'immissione nel concordato di risorse messe a disposizione da soggetti terzi.

Questa è anche la soluzione che la Legge delega n. 155 e di conserva il Codice della crisi e dell'insolvenza hanno di recente scelto al fine di “sdoganare” la perdurante legittimazione del concordato “liquidatorio”, il quale deve comunque prevedere un apporto “esterno” in grado di elevare in modo sensibile il recovery ratio dei creditori.

Poco importa poi che quelle risorse non siano spesso così “terze”, in quanto sia ben noto a tutti che esse costituiscono il semplice reinvestimento di disponibilità sottratte all'impresa.

Dunque le maggiori risorse provenienti da patrimoni “esterni” a quelli dell'imprenditore insolvente possono essere distribuite nell'esecuzione del concordato a prescindere da quell'ordine legale, in modo ad es. da attribuire un'aliquota anche ai creditori chirografari, nonostante l'insufficienza degli attivi al fine di “coprire” il ceto privilegiato.

Il risultato ermeneutico non era poi così scontato: si sarebbe anche potuto prediligere un'impostazione “etica”, per cui comunque non avrebbe potuto procedersi ad una distribuzione delle risorse comunque disponibili all'organo di liquidazione, in violazione dell'ordine precostituito di soddisfacimento dei crediti.

Ma si è preferita una soluzione più elastica, che in fondo non compromette le finalità di cui agli artt. 2740- 2741 c.c.

Tale indirizzo è stato confermato anche dopo l'introduzione del limite del 20%, quando al limite si sarebbe anche potuto ritenere che tale aliquota fosse da conseguire esclusivamente con risorse “intranee” al patrimonio del debitore, stante la finalità di incentivare il debitore ad accedere tempestivamente al concordato.

Ha prevalso dunque un'esegesi “benevola” rispetto al concordato, che in fondo non sembra compromettere interessi di ordine generale.

Anche la S.C. ha recepito tale impostazione, ed ha statuito nel senso per cui, se di risorse “esterne” deve parlarsi, occorre tuttavia che esse non “passino” in alcun modo per il patrimonio del debitore (Cass., 8 giugno 2012, n. 9373).

Dunque il “terzo” può destinare la propria ricchezza al soddisfacimento di chi vuole, ma se le attribuzioni in questioni entrano nel patrimonio del debitore, esse debbono poi essere distribuite inderogabilmente nel rispetto del criterio legale (che la S.C. qualifica opportunamente come “non disponibile dalle parti”); allo stesso modo non è finanza “terza” quella che dà luogo ad un aggravio del passivo del debitore, anche se generando passività postergate e caratterizzate dalla indisponibilità del diritto di voto nel concordato.

La precisazione poteva apparire persino ovvia: se le “nuove” risorse sono attribuite mediante un finanziamento, che dà diritto al finanziatore alla restituzione, il patrimonio del debitore resta quantitativamente invariato; e comunque l'incremento dell'attivo che ne deriva dà luogo a diritti che vanno liquidati nel rispetto non solo dell'art. 160 l.fall., ma anche degli artt. 2740- 2741 c.c., che in parte qua, come abbiamo visto più volte, non subiscono alcun depotenziamento.

Si trattava invece di una precisazione opportuna, perché richiamava l'attenzione degli operatori sulla circostanza per cui tale modalità operativa doveva ritenersi ammessa non (more solito) solo in quanto funzionale al successo della ristrutturazione, ma siccome non collidente con i principi fondamentali in materia di responsabilità patrimoniale.

Non per caso, credo, le limitazioni introdotte dalla S.C. hanno intercettato nella pratica anche giurisprudenziale un certo malcontento, ed una tendenza “strisciante” alla loro sostanziale “disattivazione”. In tal senso si colloca il non condivisibile tentativo dottrinale (di Pezzano – Ratti, La finanza “terza” nella prospettiva riformatrice, in www.osservatorio-oci.org, 2017) di enfatizzare il nuovo comma 5° dell'art. 182-quinquies l.fall., là dove esenta dalla presentazione dell'attestazione speciale il pagamento di debiti pregressi tramite “nuove risorse finanziarie” acquisite senza obbligo di rimborso, o con obbligo postergato: a prescindere dalla circostanza per cui la legge esenta in tali casi il debitore dall'attestazione, non dall'autorizzazione, mi pare evidente la eterogeneità delle due fattispecie, ove l'art. 182quinquies si preoccupa di evitare un pregiudizio per il patrimonio del debitore, non di tutelare l'ordine legale di distribuzione delle risorse

Così, si è talvolta ritenuto che il patrimonio in questione sia esclusivamente quello di cui il debitore è titolare al momento dell'ingresso in procedura, laddove i beni e diritti introdotti successivamente nella sfera patrimoniale del debitore (ivi comprese le “nuove risorse”) rimarrebbero estranei al “vincolo” segregativo in favore dei creditori concorsuali, e dunque non dovrebbero essere ripartiti necessariamente secondo le regole di cui agli artt. 160 l.fall. – 2740- 2741 c.c.

L'esattezza di tale ricostruzione sarà vagliata subito nel prosieguo.

In tal modo però, è appena il caso di dirlo, le limitazioni operative poste dalla S.C. nel 2012 vengono sostanzialmente bypassate (cfr. App. Bologna, 22 ottobre 2015, Immobiliare La Spiga, inedita, a conferma dell'omologazione di un concordato riminese)

Il problema principale però è costituito dalla tendenza sempre più diffusa a considerare liberamente distribuibili, e dunque in barba anche al precetto di cui all'art. 160 l.fall. (per non parlare delle citate norme generali codicistiche), anche i proventi futuri dell'attività di impresa che prosegue in capo al debitore nella continuità diretta, le maggiori somme realizzate nella vendita di assets concordatari rispetto al valore di mercato o comunque al realizzo conseguibile in una procedura liquidativa; più in generale, il surplus” della soluzione concordataria, inteso come maggior valore ricavabile dall'attuazione del piano concordatario rispetto all'alternativa liquidatoria (per lo più fallimentare).

Diverse sono le giustificazioni teoriche rinvenute in tali prospettive esegetiche, che comunque si sentono ampiamente “legittimate” dalla solita “necessità” di favorire in generale la soluzione concordataria, e la ristrutturazione dell'impresa in particolare.

Così, si è detto (ancora) che la responsabilità patrimoniale riguarderebbe solo il patrimonio del debitore esistente al momento dell'apertura del concorso; che tale patrimonio verrebbe ad essere “separato” dal restante per effetto dell'ingresso in procedura, e così “destinato” in via esclusiva al soddisfacimento dei creditori.

Secondo una variante di tali prospettazioni, recentemente, si è assunto che la responsabilità patrimoniale attenga a quei soli beni che i creditori possano realizzare senza la collaborazione del debitore (Fabiani, La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de- concorsualizzazione del concordato preventivo, cit., p. 10).

La tesi permissiva si basa dunque sul presupposto per cui i diritti insorti dopo l'apertura della procedura non farebbero parte del patrimonio destinato al soddisfacimento dei creditori concorsuali, non trovando fra l'altro applicazione il principio fallimentare di cui all'art. 42, comma 2, l.fall., non richiamato dall'art. 169 l.fall.

Sulla base di tali suggestioni si è ad es. talvolta ritenuto anche in giurisprudenza che i proventi dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore in continuità dopo l'ingresso in procedura (v. in tal senso Trib. Rovereto, 13 ottobre 2014, in www.ilcaso.it; Trib. Massa, 29 settembre 2016, e più di recente ancora 27 novembre 2018, ivi; in senso contrario, e conf. a quanto si va sostenendo, Trib. Bergamo, 26 settembre 2013, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Belluno, 17 febbraio 2017, in www.ilcaso.it; e cfr. anche Vitiello, I criteri di individuazione del concetto di finanza esterna al patrimonio del debitore in concordato preventivo: fattispecie problematiche, in www.ilfallimentarista.it, 11 maggio 2015), e dopo l'omologazione, siano liberamente destinabili, a prescindere dal suddetto ordine delle cause legittime di prelazione, e così anche per il surplus del ricavo della vendita dei beni componenti l'attivo a terzi che offrano di pagare un prezzo superiore al valore stimato di realizzo degli stessi (v. in senso favorevole Trib. Treviso, 16 novembre 2015, in www.ilcaso.it, decreto tuttavia annullato da App. Venezia, 12 maggio 2016, ivi; Trib. Prato, 7 ottobre 2015, ivi); od addirittura per il surplus della soluzione concordataria in sé (cfr. Trib. Monza, 22 dicembre 2011, in www.ilcaso.it).

Tale prospettazione non appare tuttavia, a mio sommesso avviso, affatto condivisibile.

Ciò tanto con riferimento ad eventuali trasferimenti programmati di beni per prezzi superiori a quelli indicati dal “valore” di mercato stimato degli stessi, ma più in generale anche con riferimento a tutte quelle utilità economiche che si ritengano costituire vantaggi specifici della soluzione concordataria.

Se la Legge consente talvolta di pagare il creditore privilegiato in misura “non inferiore” a quanto riceverebbe presumibilmente nell'alternativa liquidatoria, ciò non autorizza a credere anche che tutto quanto sia ricavabile in più rispetto a quanto potrebbe essere assicurato ai creditori concorsuali nel fallimento sia liberamente disponibile e destinabile dal debitore, in deroga ai superiori principi sulla graduazione e sull'ordine delle cause di prelazione.

Sussiste notoriamente una fondamentale distinzione fra prezzo e valore, particolarmente rilevante nel contesto attuale di mercato, e l'applicabilità nel contesto concordatario dei principi espressi dall'art. 107 l.fall. (rinvio semmai rafforzato dal D.L. n. 83/2015), sancisce proprio la opportunità che la destinazione al mercato dei beni del debitore avvenga in un contesto “competitivo”, e previa l'assunzione di stime professionali ed indipendenti del valore dei beni, valore che costituisce la base d'asta per tali esperimenti di vendita.

Dunque è normale ed anzi ricercato che nel concordato i beni del debitore vengano collocati sul mercato ad un prezzo anche superiore a quello del “valore” stimato, per effetto del meccanismo incrementale tipico del procedimento competitivo; e sarebbe dunque irrazionale e contraddittorio che tale surplus fosse liberamente destinabile dal proponente al soddisfacimento di creditori postergati, con alterazione ancora dell'ordine legale delle cause di prelazione.

La norma applicabile per regolare tali situazioni non è in realtà l'art. 42 l.fall., bensì l'art. 2740 c.c., che impone di destinare tutti i beni del debitore, presenti come futuri, alla garanzia del creditore.

Dunque l'erogazione di tali risorse in favore del debitore, anche dopo l'omologazione, comporterebbe l'obbligo di liquidarle nel rispetto delle norme sulla “graduazione” (e dunque secondo l'ordine delle cause legittime di prelazione).

Non si tratta dunque di “nuova finanza”.

Stupisce del resto che da un lato si bollino come meramente “virtuali”, e non “concrete”, soluzioni esegetiche fondate su scenari alternativi ipotetici, e dall'altro si eleggano le stesse proiezioni come metro di giudizio per la legittimità di certe proposte concordatarie.

D'altro canto l'enfasi sulla inesistenza allo stato attuale di determinati beni nel patrimonio del debitore sembra anche mal posta: nemmeno il credito alla riscossione del prezzo dei beni che saranno liquidati dopo l'omologazione appartiene al patrimonio del debitore, prima che il piano sia eseguito; eppure non si dubita di certo del fatto che tali risorse siano integralmente vincolate al soddisfacimento dei creditori concorsuali secondo l'ordine legale.

Ciò accade perché la garanzia patrimoniale attiene non solo ai diritti attualmente ricompresi nel patrimonio generale del debitore, ma anche a quelli che siano il prodotto della trasformazione dei primi, si tratti di attivi da vendere, di canoni da riscuotere per il godimento di beni concessi a terzi, oppure di risultati dell'attività di impresa esercitata direttamente dall'imprenditore in concordato.

Ed è proprio per questo che non convince neppure la ricostruzione fondata sul concetto di patrimonio “separato”, poiché, a prescindere dalla circostanza per cui l'esistenza di tale fenomeno di segregazione sembrerebbe più il prodotto della “tradizione”, che di norme positive (conf. sul punto Trib. Milano, 15 dicembre 2016, in www.ilcaso.it), è normale e logico che nel patrimonio separato rimangano segregati anche i beni che costituiscano la conseguenza della trasformazione in denaro od in altro di quanto in esso sia già contenuto ab origine, e così tipicamente il ricavo delle vendite, ed i profitti di un'attività d'impresa. Quel regime segregativo, poi, lo si ripete qua, sarebbe comunque dettato dalla funzione di tutelare i creditori concorsuali, e dunque nulla gli si potrebbe ascrivere in punto di limitazione degli assets ad essi “vocati”: si tratterebbe dell'ennesima forzatura concettuale, determinata da intenti del tutto “pragmatici”.

Non esiste d'altro canto nemmeno un principio per cui il creditore abbia “diritto” a vedersi attribuire almeno il risultato di una ipotetica liquidazione fallimentare, ciò che costituisce il presupposto tacito ed inespresso delle ricostruzioni concettuali qua avversate: come si è visto sopra, è ammissibile un concordato (liquidatorio) ove i creditori siano trattati peggio che nell'alternativa fallimentare e, se nessuno dei legittimati aziona il giudizio di cram down, detto concordato è anche omologabile, e quindi legittimo; d'altro canto il creditore può avere diritto invece a più che nell'alternativa fallimentare, se è possibile una soluzione traslativa dell'azienda in esercizio in sede concordataria, ed il debitore si ostina a perseguire una continuità diretta sub-valente (rectius, non prevalente).

Esiste, è vero, l'art. 160, comma 2, l.fall., che tuttavia assicura al solo creditore privilegiato, per la semplice ragione che egli non partecipa al voto, e dunque non può far ascoltare la sua voice, un trattamento non inferiore a quello che riceverebbe nella liquidazione fallimentare del bene; anzi, il confronto avviene soltanto quanto al realizzo come creditore privilegiato, e dunque al ricavo ottenibile nel riparto, non al trattamento complessivo come creditore; sicché, in teoria, non è da escludere che il privilegiato possa dimostrare che il fallimento realizzerebbe di più dalla vendita del bene, anche se non pagherebbe il chirografo, laddove il concordato, per la parte degradata in chirografo, gli attribuirebbe un'aliquota che renda complessivamente sub-valente l'ipotesi liquidativa.

Elevando l'art. 160, comma 2, a principio generale del concordato, si trasforma una norma che tutela un interesse individuale in norma di sistema, che dovrebbe invece essere posta a tutela di interessi collettivi e generali.

Dunque non si può pretendere di ricavare dall'art. 160, comma 2, l.fall., un principio generale che consenta di destinare con libertà dall'ordine legale (peraltro oggetto un precetto imperativo contenuto nello stesso comma) il surplus della soluzione concordataria rispetto al fallimento. Nel senso qui sostenuto si segnala un importante arresto del Tribunale fallimentare di Milano (decr. 15 dicembre 2016, cit.), il quale peraltro fa seguito ad un altro, di poco precedente, ma di segno parrebbe contrario (decr. 3 novembre 2016, ivi); nel primo caso si trattava peraltro di un concordato liquidatorio (ma la motivazione ricomprende anche la continuità), nel secondo di un concordato con continuità.

Soltanto il debitore può decidere di accedere al concordato, e strutturare il piano (con l'eccezione delle proposte concorrenti), ma se egli adotta tale decisione, poi incontra dei limiti al contenuto concreto delle proprie scelte esecutive, che derivano dal sistema delle norme.

Mi pare dunque che alla fine il sistema, ripulito dalle scorie e dalle spinte eccentriche generate da movimenti tutti “pragmatici”, ne esca rafforzato, quanto a coerenza interna e linearità dell'architettura.

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