La soglia di specificità dell'atto di appello

09 Maggio 2019

La questione sottoposta all'esame della Corte di cassazione nell'ordinanza in oggetto è relativa alla soglia di specificità dell'atto di appello.
Massima

Non può considerarsi aspecifico il motivo d'appello il quale esponga il punto sottoposto al riesame d'appello, in fatto e in diritto, in maniera tale che il giudice d'appello sia posto in condizione di cogliere natura, portata e senso della critica, non occorrendo, tuttavia, che l'appellante alleghi e, tantomeno riporti, analiticamente, le emergenze di causa rilevanti, le quali risultino investite ed evocate non equivocamente dalla censura, diversamente da quel che è previsto per l'impugnazione a critica vincolata.

Il caso

La Corte d'appello di Torino, ribaltando la pronuncia di primo grado, revocò il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Alba con cui era stato ingiunto alla resistente di pagare poco più di 600mila euro in favore del ricorrente, rigettando la domanda di quest'ultimo. La Corte, infatti, valorizzando una pluralità di circostanze convergenti, aveva escluso che l'odierno ricorrente avesse provato la fornitura posta a giustificazione del credito vantato. I documenti di trasporto prodotti, infatti, non costituivano una prova utile perché la società resistente aveva in radice negato di aver ricevuto alcunché e la firma apposta sugli stessi era riferibile a soggetto non identificabile. Tra le altre, non constava che il ricorrente avesse a sua volta acquistato il materiale che affermava di aver consegnato e all'epoca, pur risultando conducente del mezzo che avrebbe effettuato il trasporto, non era abilitato alla guida del veicolo in questione, veicolo del quale non aveva nemmeno la disponibilità in azienda; peraltro all'epoca dei fatti la ditta non era neppure venuta ad esistenza.

Il ricorrente affida le proprie censure a quattro motivi e, in particolare, con il primo motivo denunzia la violazione degli artt. 112 e 342,comma 1, c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c. perché la Corte d'appello di Torino avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l'appello per difetto della specificità richiesta dal novellato art. 342 c.p.c. perché l'appellante non avrebbe trascritto tutte le emergenze di causa.

La questione

La questione sottoposta all'esame della Corte di cassazione nell'ordinanza in oggetto è relativa alla soglia di specificità dell'atto di appello. In particolare ci si domanda se, avendo l'appellante individuato il punto della decisione reputato ingiusto e avendone precisato il presupposto di fatto e la sussunzione giuridica di esso, tanto che la critica viene non soltanto compresa dalla Corte d'appello ma anche accolta, si possa onerare lo stesso della trascrizione di tutte le emergenze di causa.

La risposta che fornisce la Corte è ovviamente e condivisibilmente negativa poiché si trattava nel caso di specie di risultanze già poste nella piena disponibilità del giudice d'appello in base al principio devolutivo. E, peraltro, al giudice dell'appello si era rivolto l'appellante al chiaro scopo di esprimere un convincimento del tutto opposto con riferimento all'assolvimento dell'onere della prova da parte dell'attore, contestando le valutazioni probatorie effettuate dal Tribunale.

Le soluzioni giuridiche

La Corte in coerenza con la giurisprudenza dominante sulla specificità dei motivi d'appello e sull'interpretazione delle norme riformate degli artt. 342 e 434 c.p.c. Secondo la giurisprudenza dominante formatasi sulle norme novellate gli artt. 343 e 434 c.p.c. nel testo post riforma, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (in questo senso Cass. civ., sez. VI, 30 maggio 2018 n. 13535).

Vanno quindi respinte le interpretazioni “restrittive” sposate da alcuni Tribunali secondo cui colui il quale intenda proporre appello non può limitarsi a riproporre le ragioni in fatto ed in diritto già prospettate in primo grado, ma deve indicare i passi della motivazione della sentenza impugnata da censurare, le modifiche da apportare alla stessa ed esporre un progetto alternativo di sentenza.

Che questa tesi non sia attualmente sostenibile lo ha infatti precisato la Corte di cassazione a Sezioni Unite con la nota sentenza 16 novembre 2017 n. 27199, secondo cui le norme in questione devono essere interpretate nel senso che l'impugnazione deve contenere – a pena di inammissibilità –una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, e, insieme ad essi, delle relative doglianze, unendo alla parte volitiva anche una parte argomentativa che sia diretta a contestare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della pronuncia, senza che però sia necessario l'uso di formule sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da opporre alla prima; ciò perché è necessario tenere conto della perdurante natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello che continua ad essere diverso rispetto alle altre impugnazioni a critica vincolata.

Tra le ragioni a base di questa interpretazione va senz'altro richiamato il cd. "assetto teleologico delle forme", di cui all'ultimo comma dell'art. 156 c.p.c. secondo il quale la nullità d'un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Pur se la norma è diretta a regolare le ipotesi di nullità degli atti processuali, mentre i requisiti dell'atto di appello sono dall'art. 342 c.p.c. richiesti a pena di inammissibilità, comunque la norma sul raggiungimento dello scopo dell'atto è espressione di un principio generale che informa il processo civile e che non può essere sottaciuto.

Da questo principio deriva in particolare che, anche quando si debba giudicare dell'ammissibilità d'una impugnazione, il giudicante deve tenere conto unicamente della sostanza e del contenuto effettivo dell'atto.

Il secondo motivo risiede nel fatto che le norme processuali laddove non siano perfettamente chiare o si presentino addirittura ambigue devono essere interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che un rigetto in mero rito.

Il principio è stato ad esempio affermato da Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 2014 n. 25242 che, sia pur non riferibile alla specificità dei motivi di appello si è fondata sul principio della primauté del merito rispetto al rito, in controtendenza con il principio opposto da considerarsi definitivamente superato. Sicché tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo (così la sentenza citata, in motivazione).

L'ultimo motivo è infine la comunitarizzazione del diritto processuale civile che va interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario tra cui, non ultima, vi è proprio quella dell'effettività della tutela giurisdizionale che va intesa nel senso che la domanda della parte deve essere esaminata ove sia possibile sempre nel merito. Logica conseguenza della necessità di una decisione nel merito per rispondere alla domanda di giustizia, è che gli organi giudiziari degli Stati membri devono evitare un eccesso di formalismo, specialmente sotto il profilo dell'ammissibilità dei ricorsi, a garanzia del diritto di accesso al giudice posto dall'art. 6 della CEDU.

Tutti questi principi posti alla base della motivazione di Cass. civ. n. 13535/2018 ma anche di Cass. civ., n. 10919/2017, sono poi stati ribaditi dalle Sezioni Unite n. 27199/2017 con la conseguenza che l'art. 342 c.p.c., nella sua attuale formulazione non prevede assolutamente che l'appellante debba predisporre un “progetto alternativo di sentenza”; non esige dall'appellante alcun inutile formalismo; non esige, infine, dall'appellante, la trascrizione integrale o parziale di parti della sentenza appellata o dell'intera sentenza.

Osservazioni

É noto che la pronuncia delle Sezioni Unite 27199 del 2017 ha composto il contrasto di giurisprudenza formatosi sull'interpretazione del requisito della specificità dei motivi d'appello alla luce della nuova formulazione dell'art. 342 (e del parallelo art. 434 c.p.c.). In sostanza la Corte ha però ricondotto ad unità le pronunce precedenti non riscontrando, a parte una ipotesi, alcuna dissonanza. Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2015 n. 2143 ha affermato che l'intervento normativo ha risposto ad un'esigenza di contenimento dei tempi del processo ottenuta per il tramite del rispetto – imposto all'appellante – di precisi oneri formali che devono consentire l'agile individuazione del quantum appellatum e di circoscrivere l'ambito del giudizio di appello, sia con riferimento ai capi della sentenza impugnata, ma anche con riguardo ai percorsi logico-argomentativi che ne sono alla base.

Le Sezioni Unite, con la successiva sentenza 27 maggio 2015, n. 10878, pronunciata hanno tale orientamento, ribadendo che simile interpretazione è in linea con i risultati cui si era giunti a proposito del testo previgente dell'art. 342, più volte citato. La nuova norma, pertanto, senza rigori di forma, esige che «al giudice siano indicate, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dal gravame, anche le ragioni, correlate ed alternative rispetto a quelle che sorreggono la pronuncia, in base alle quali è chiesta la riforma, cosicchè il quantum appellatum resti individuato in modo chiaro ed esauriente».

Nello stesso senso si pongono anche l'ordinanza 5 maggio 2017, n. 10916, e la sentenza 16 maggio 2017, n. 11999, entrambe della Terza Sezione Civile.

Invece la sentenza 7 settembre 2016, n. 17712, della Sezione Lavoro, ha precisato che gli artt. 342 e 434 cit. esigono oggi la proposizione di una nuova e diversa ricostruzione del fatto; vi devono essere, quindi, una «pars destruens della pronuncia oggetto di reclamo» e «una pars construens, volta ad offrire un progetto alternativo di risoluzione della controversia, attraverso una diversa lettura del materiale di prova acquisito o acquisibile al giudizio». Con la conseguenza per cui l'atto di appello deve offrire una «ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice».

Le Sezioni Unite nello sconfessare questa interpretazione aderendo all'orientamento che già può definirsi tradizionale hanno affermato che «Ciò che il nuovo testo degli artt. 342 e 434 cit. esige è che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico è nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come l'eventuale violazione di legge» (così Sez. Un., 27199, cit., in motivazione). Sicché, al pari di quanto già la Corte affermava precedentemente al 2012 e alla riforma delle richiamate norme, nell'atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice che sarà di maggiore o minore ampiezza e specificità a seconda della motivazione assunta nella sentenza di primo grado. Laddove le argomentazioni contenute nella sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti valutate dal giudice, allora l'atto di appello potrà anche consistere, con i necessari adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado.

In ogni caso l'individuazione di un «percorso logico alternativo a quello del primo giudice», non deve quindi necessariamente tradursi in un "progetto alternativo di sentenza"; «il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell'atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio. Quello che viene richiesto – in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perchè queste siano censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all'appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate» (così sent. 27199, cit., in motivazione).

Alla stregua di quanto affermato dalle Sezioni Unite, con principio del tutto condivisibile, può apprezzarsi la soluzione adottata dalla ordinanza in commento anche con riferimento alla superata soglia di specificità nel caso concreto, poiché l'appellante aveva individuato il punto della decisione ritenuto ingiusto precisandone i presupposti di fatto e la sussunzione giuridica dello stesso.

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