L'incidenza delle condotte extra lavorative sul vincolo fiduciario
09 Maggio 2019
Massima
Un licenziamento per giusta causa può essere fondato anche su condotte extra-lavorative precedenti l'instaurazione del rapporto di lavoro, purché non già conosciute dal datore ed idonee ad incidere irrimediabilmente sul vincolo fiduciario tra le parti. Qualora il fatto addebitato integri un'ipotesi di reato, non osta il recesso datoriale il difetto di una condanna definitiva, operando il principio di colpevolezza solo per la pretesa sanzionatoria statale, salvo che tale subordinazione sia oggetto di espressa previsione contrattuale. Il caso
Il caso prende avvio da un licenziamento irrogato il 21 luglio 2006 al quale seguiva, successivamente alla dichiarata illegittimità del recesso da parte del Tribunale di Palmi, una conciliazione il 12 ottobre 2007. Il lavoratore, sulla base di quest'ultima, veniva assunto ex nunc, convenendo le parti che in relazione al nuovo rapporto non avrebbero prodotto effetti gli esiti del processo penale in corso nei confronti del dipendente, limitatamente ai delitti di frode processuale e di accesso abusivo a sistema informatico (fatti indicati nella contestazione datata 15 maggio 2006 e sui quali il recesso era stato fondato). Il lavoratore veniva raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare a seguito della quale la società, relativamente alle condotte oggetto delle indagini penali, diverse da quelle in precedenza contestate dalla stessa, avviava un nuovo procedimento disciplinare, irrogando infine un secondo licenziamento. Quest'ultimo era stato dichiarato legittimo in primo e secondo grado, escludendosi che la transazione novativa del 12 ottobre 2007 impedisse l'avvio di un procedimento disciplinare e l'irrogazione della conseguente sanzione per fatti sconosciuti alla parte datoriale in sede conciliativa.
Veniva proposto ricorso ex art. 360, c.p.c., sostenendosi con il primo motivo che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del carattere novativo della transazione, mentre con la seconda censura si rilevava l'erroneo riconoscimento di rilevanza disciplinare a condotte risalenti ad un'epoca in cui il nuovo rapporto non era stato ancora instaurato, potendosi ipotizzare una responsabilità disciplinare in relazione ad esse solo se accertate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta in un momento in cui il rapporto stesso era già in atto. Nel caso di specie, invece, il datore non avrebbe atteso l'accertamento definitivo della responsabilità penale. La questione
Una condotta tenuta dal lavoratore in un periodo temporalmente anteriore all'instaurazione del rapporto di lavoro può legittimamente giustificare il licenziamento? Soluzione giuridica
La Corte di cassazione rileva l'inammissibilità del primo motivo di ricorso, non avendo il giudice di secondo grado escluso la novazione del rapporto, dando piuttosto questa per presupposta. La prima contestazione risultava attinente al reato di frode informatica non invece agli altri comportamenti che, nonostante la collocabilità temporale in epoca antecedente la costituzione del nuovo rapporto, erano divenuti oggetto di indagine penale nel 2008, il che non consentiva la conoscenza degli stessi da parte della società al momento in cui veniva concluso l'accordo transattivo. Per tali ragioni l'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro non avrebbe potuto impedire l'intimazione del licenziamento per giusta causa.
Il secondo motivo è dichiarato infondato. Sostiene la Corte che il recesso ex art. 2119, c.c., è motivato ogniqualvolta il vincolo fiduciario, alla base del rapporto lavorativo, venga leso in modo irrimediabile. La fiducia può venire meno non soltanto in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali ma anche a seguito di condotte extra-contrattuali che, nonostante siano state tenute al di fuori dell'ambiente aziendale e non riguardino direttamente l'esecuzione della prestazione lavorativa, possano nondimeno essere idonee a ledere irrimediabilmente il suddetto vincolo tra le parti, riflettendosi oggettivamente sulla funzionalità del rapporto e compromettendo le aspettative sulla futura puntualità dell'adempimento dell'obbligazione gravante sul lavoratore. Tale potenziale incidenza dovrebbe ritenersi maggiore nelle ipotesi in cui la condotta tenuta dal lavoratore sia riconducibile ad un precedente rapporto, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione. Infatti, le condotte extra-lavorative suscettibili di essere rilevanti nei suddetti termini non afferiscono esclusivamente alla vita privata strictu sensu del lavoratore, ma a tutti gli ambiti nei quali la sua personalità viene ad esplicarsi. Esse non debbono necessariamente essere successive all'instaurazione del rapporto di lavoro e, nei limiti in cui il datore ne abbia avuto conoscenza in un momento successivo alla conclusione del contratto, potranno considerarsi incompatibili con il grado di affidamento richiesto per lo svolgimento delle mansioni assegnate e al ruolo del lavoratore in seno all'azienda.
La Corte, seguendo la propria giurisprudenza, esclude che le garanzie connesse al principio di colpevolezza possano trovare applicazione, in via analogia o estensiva, anche all'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, dovendosene limitare l'operatività all'attuazione della pretesa punitiva statale. Pertanto, salvo diversa previsione negoziale, per l'applicazione della sanzione espulsiva, conseguente ad una condotta integrante gli estremi del reato, non il datore non dovrà attendere la sentenza definitiva di condanna.
Sarà tuttavia necessario accertare l'effettiva sussistenza dei fatti fondanti il licenziamento, non integrando la giusta causa il mero rinvio a giudizio del lavoratore e la dedotta incidenza sul rapporto fiduciario. Osservazioni
In merito alle condotte da ritenere rilevanti ai fini del licenziamento ex art. 2119, c.c., in dottrina sono rinvenibili due distinte posizioni:
- secondo la prima, c.d. teoria “oggettiva”, il recesso datoriale per giusta causa potrebbe essere giustificato anche da condotte non strettamente connesse all'adempimento della prestazione lavorativa, purché idonee ad incidere, menomandolo, sul vincolo di fiducia esistente tra le parti contrattuali, rendendo impossibile la prosecuzione, anche solo temporanea, del rapporto di lavoro. Tale opzione ermeneutica verrebbe confermata dalla lettera della disposizione normativa, facente generico riferimento alla “causa” che non consente la prosecuzione, e non invece alla “mancanza grave” richiamata nel r.d.l. n. 1825 del 1924, o al “grave inadempimento” determinante il licenziamento con preavviso ex art. 3,l. n. 604 del 1966. La differenza tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo si paleserebbe, quindi, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi, rilevando le condotte non integranti tecnicamente un inadempimento solo ai fini della prima, potendo il recesso ad nutum essere determinato anche da fatti extra-lavorativi imputabili al lavoratore, nella misura in cui pregiudichino la fiducia riposta dal datore nell'esattezza dei futuri adempimenti degli obblighi contrattuali;
- secondo la teoria c.d. “soggettiva”, invece, potrebbero dar luogo ad un licenziamento per giusta causa solo comportamenti configuranti un inadempimento del contratto di lavoro, non rilevando fatti estranei al rapporto e concernenti la sfera privata del lavoratore. La distinzione rispetto al giustificato motivo soggettivo sarebbe solo quantitativa, individuandosi nella condotta giustificante un recesso ex art. 2119, c.c., un inadempimento degli obblighi contrattuali connotato da una gravità tale da non consentire, neanche provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Al di là di tale netta contrapposizione, si constata come la giurisprudenza, nel determinare il contenuto sostanziale della clausola generale della “giusta causa”, abbia negli anni dato rilievo ad una serie di condotte estranee al nucleo principale dell'obbligazione lavorativa. Infatti, pur precisandosi che la vita privata del dipendente è, in linea di principio, ininfluente, i giudici hanno ritenuto talune condotte, non attinenti all'adempimento della prestazione lavorativa e poste in essere al di fuori dell'ambiente di lavoro, in concreto idonee a ledere in modo irrimediabile il vincolo fiduciario tra le parti, con riflessi sulla funzionalità del rapporto stesso. Sembrerebbe, quindi, che la giurisprudenza abbia abbracciato la sopra citata tesi “oggettiva”. Tuttavia dall'esame delle sentenze è possibile constatare la riconduzione delle condotte extra-lavorative ad un inadempimento di obblighi c.d. “accessori”, quali quelli di protezione: il lavoratore sarebbe tenuto non soltanto a fornire la prestazione concordata, ma anche a conservare, al di fuori del contesto strettamente lavorativo, una condotta che non leda gli interessi materiali e morali del datore, né comprometta il rapporto fiduciario con lo stesso esistente. Suddetti obblighi, ulteriori rispetto a quelli riconducibili al nucleo centrale dell'obbligazione lavorativa, considerati complementari e strumentali, troverebbero il proprio fondamento negli artt. 2104 e 2105, c.c., nonché nell'art. 1375, c.c., espressione del generale principio di correttezza e buona fede nella fase esecutiva del contratto.
Ammessa in tali termini la rilevanza ai fini del licenziamento per giusta causa anche di condotte extra-lavorative, è bene specificare la necessità di una valutazione in concreto delle stesse (c.d. concretizzazione della giusta causa), tenute in conto le peculiarità oggettive e soggettive del caso di specie. Secondo la giurisprudenza, infatti, la “giusta causa” dovrà tradursi nella grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, anche alla luce della coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma di riferimento. Il giudice dovrà valutare non solo la gravità dei fatti addebitati, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo ma anche la proporzionalità tra l'azione e la reazione datoriale, con conseguente possibilità di negare che il comportamento contestato possa giustificare un licenziamento senza preavviso.
Esempio emblematico in materia è certamente quello di un reato commesso dal lavoratore, costituente fatto potenzialmente idoneo a giustificare il recesso datoriale per giusta causa, a prescindere dalla pronuncia di una sentenza di condanna irrevocabile. Le garanzie poste dall'art. 27, Cost., attengono infatti al solo potere sanzionatorio dello Stato, non applicabili in via analogica o estensiva anche all'esercizio da parte del datore della facoltà di recedere ex art. 2119, c.c., a fronte di un comportamento del lavoratore che integri una fattispecie criminosa.
Si rammenta che il giudizio conseguente all'impugnazione del licenziamento è autonomo rispetto a quello penale. La sentenza irrevocabile di assoluzione, ex art. 654, c.p.p., produrrà effetti nel procedimento disciplinare per il fatto-reato soltanto se il datore si sia costituito parte civile (lamentando ad esempio il danno all'immagine aziendale). L'assoluzione, potendosi fondare anche sulla insufficienza probatoria circa uno degli elementi costitutivi del reato, non vincolerebbe l'apprezzamento del giudice civile in ordine ad ogni altro aspetto della condotta contestata (Cass., 9 giugno 2005, n. 12134). Dovendosi precisare, inoltre, che la valutazione dei fatti in sede civile è operata alla luce dell'art. 2119, c.c., e dell'art. 3, l. n. 604 del 1966, sicché il rapporto fiduciario potrà ritenersi compromesso anche per condotte giudicate non meritevoli di sanzione penale (Cass., 5 agosto 2000, n. 10315). Per approfondire
F. Chiantera, La rilevanza dei comportamenti extralavorativi ai fini della giusta causa del licenziamento, in I licenziamento individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, R. De Luca Tamajo, F. Bianchi D'Urso (a cura di), Milano, 2006;
M. Biasi, La (ir)rilevanza disciplinare del silenzio serbato dal lavoratore circa il proprio passato professionale, in Dir. Rel. Ind., 2017, 2, p. 509 ss.;
G. Gaudio, Condotte extra-lavorative e licenziamento per giusta causa, in ADR, 2017, 4-5, p. 1310 ss. |