L’eccesso di potere non sempre integra l’abuso d’ufficio

09 Maggio 2019

A seguito della nuova formulazione della fattispecie di abuso d'ufficio a opera della legge 16 luglio 1997, n. 234 che ha novellato l'art. 323 c.p., il reato in questione non può configurarsi se non in presenza di “una violazione di norma di legge o regolamento”...
Massima

A seguito della nuova formulazione della fattispecie di abuso d'ufficio a opera della legge 16 luglio 1997, n. 234 che ha novellato l'art. 323 c.p., il reato in questione non può configurarsi se non in presenza di “una violazione di norma di legge o regolamento” (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse proprio dell'agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti). Ne consegue che è stata espunta dall'area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso di poteri o di funzioni non concretandosi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, negandosi al giudice penale la possibilità di invadere l'ambito della discrezionalità amministrativa che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenza di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato

Il caso

Il Tribunale Penale di Sassari ha assolto l'imputato, commissario di un'azienda ospedaliera, dal reato di abuso d'ufficio e falso in atto pubblico perché il fatto non sussiste.

La tesi accusatoria era fondata sul rilievo che l'imputato, nella sua qualità di pubblico ufficiale, avesse procurato un ingiusto vantaggio rappresentato dall'assunzione a tempo indeterminato di un dirigente sanitario in violazione delle norme sulle graduatorie concorsuali.

La sentenza in commento ripercorre l'evoluzione normativa del reato di abuso d'ufficio, soffermandosi in particolare sulla vexata quaestio relativa alla possibilità di ricondurre l'eccesso di potere nell'ambito del fatto tipico descritto dall'art. 323 c.p.

La questione

Una breve riflessione storico – giuridica, per meglio comprendere i termini della questione, impone di ricordare che con il codice Rocco il reato di abuso d'ufficio si è affrancato dal suo carattere esclusivo di tutela dei cittadini dalle prevaricazioni dell'autorità, tipico della tradizione liberale, per trasformarsi anche in uno strumento di controllo dell'imparzialità e fedeltà della pubblica amministrazione.

Questa figura di delitto fino al 1990 è stata di rara applicazione, giacché la giurisprudenza preferiva orientarsi per reprimere le ipotesi di sviamento della pubblica funzione su altre fattispecie di reato e, in particolare, su quella contigua ex art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio), in proposito favorita dalla clausola di riserva contenuta nell'art. 323 c.p. che attribuiva un connotato residuale all'abuso d'ufficio.

L'art. 323 c.p. nella prassi giurisprudenziale, pertanto, era stato relegato ai casi più eclatanti di strumentalizzazione dei pubblici poteri là dove non risultava perseguito un interesse privato incompatibile con quello istituzionale, intervenendo su tale versante il delitto ex art. 324 c.p. anche in casi comunemente ritenutiespressione della discrezionalità amministrativa.

L'ipotesi delittuosa dell'abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p. e, soprattutto, quella disciplinata dall'art. 324 c.p. erano diventate occasione di scontro fra chi propugnava un controllo più penetrante dell'autorità giudiziaria anche in settori tradizionalmente riservati al cosiddetto “merito amministrativo” e coloro che, viceversa, intendevano arginare tali interferenze attraverso un rigoroso rispetto del principio di tassatività della fattispecie incriminatrice.

Per trovare un punto d'equilibrio fra tali opposte esigenze era intervenuto il legislatore attraverso la riforma attuata con la legge 86/1990.

L'intento della modifica normativa era quello di ridurre la sfera di controllo di legalità penale e impedire dilatazioni ermeneutiche volte a criminalizzare il “merito amministrativo”.

L'obiettivo è stato perseguito, tra l'altro, con l'abrogazione della fattispecie d'interesse privato in atti d'ufficio e quella di peculato per distrazione, entrambe assoggettate alla disciplina del nuovo abuso d'ufficio là dove fossero presenti gli elementi strutturali di questa figura di reato, a sua volta modificata.

E invero il novellato art. 323 c.p. sanzionava, salvo che il fatto costituisse più grave reato, la condotta del pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, al fine d procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale, avesse abusato del suo ufficio. Nel caso in cui il vantaggio avesse avuto un carattere patrimoniale era prevista una circostanza aggravante. L'estrema vaghezza del sintagma abuso del suo ufficio induceva l'interprete ad attribuirgli i più svariati significati anche nel senso di ampliare eccessivamente l'area del sindacato penale sull'azione politico amministrativa, dando luogo ad una fattispecie “onnivora” all'interno della quale s'incriminavano anche vizi formali completamente avulsi da uno sviamento della funzione amministrativa rispetto al fine pubblico da realizzare. S'impose così l'esigenza di un'ulteriore riforma, quella introdotta con la legge 234/1997, finalizzata a escludere dall'orbita del penalmente rilevante il vizio amministrativo ritenuto più vago, ossia l'eccesso di potere.

La novella del 1997, attraverso una maggiore determinatezza della fattispecie, ha radicalmente ridisegnato l'art. 323 c.p. trasformandolo per la prima volta in reato esclusivamente di evento, eliminando dal testo l'espressione abuso (presente solo nella rubrica della norma) e qualificando l'elemento soggettivo in termini di dolo intenzionale, inteso come rappresentazione e volizione dell'evento, conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da quest'ultimo perseguito.

Fra le condotte tipizzate dalla vigente fattispecie incriminatrice, a parte il dovere di astensione, un ruolo cardine riveste la violazione di legge o di regolamento. In tale alveo, nella tradizionale tripartizione dei vizi amministrativi, sicuramente si possono annoverare l'incompetenza e la violazione di legge.

Non altrettanto può dirsi per l'altra patologia dell'atto amministrativo, quella per l'appunto denominata come eccesso di potere.

Fin dall'entrata in vigore della riforma la giurisprudenza prevalente si era orientata lungo le linee tracciate dalla ratio legis ritenendo irrilevante siffatto vizio amministrativo ai fini della configurazione del reato.

Altra giurisprudenza viceversa ha affermato che anche l'eccesso di potere poteva essere ricondotto nell'art. 323 c.p., a tal proposito richiamando i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità della P.A.

Le soluzioni giuridiche

Nella sentenza in esame il Tribunale di Sassari ha aderito alla tesi secondo cui «non è configurabile il reato di abuso d'ufficio in presenza di un mero addebito di eccesso di potere» essendo stata espunta dal perimetro applicativo dell'art. 323 c.p. «ogni ipotesi di abuso di poteri e funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari del dovere di astensione, negandosi al giudice penale la possibilità di invadere l'ambito della discrezionalità amministrativa».

Nel caso concreto il Tribunale di Sassari ha peraltro messo in luce l'ambiguità dell'imputazione formulata a carico dell'imputato, non essendo chiaro se l'essenza dell'accusa sotto il profilo del fatto tipico fosse inerente a un atto amministrativo viziato da eccesso di potere (per contraddittorietà dell'agere amministrativo) ovvero fosse ascritta unicamente una violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 (motivazione del provvedimento) .

Nel primo caso la fattispecie di reato contestata sarebbe insussistente alla luce dell'insegnamento giurisprudenziale in virtù del quale il delitto di abuso d'ufficio non è configurabile in presenza di un mero addebito di eccesso di potere.

Nella seconda ipotesi si dovrebbe comunque escludere la violazione di legge, posto che il principio affermato dall'Adunanza Pecuniaria del Consiglio di Stato (n. 14/2011), secondo cui in presenza di graduatorie valide e efficaci è necessaria una motivazione adeguata anche qualora si scelga di indire un nuovo concorso, rappresentava un vero e proprio reveriment rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale. All'epoca in cui era stata adottata la delibera, infatti, era nettamente prevalente la tesi in forza della quale «l'indizione di un nuovo concorso, anche in presenza di graduatorie valide ed efficaci costituisce sempre la regola, ritenuta di diretta derivazione costituzionale e, pertanto, non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione».

Osservazioni

Le conclusioni alle quali è pervenuta la decisione in commento appaiono corrette e ampiamente condivisibili.

Tuttavia il percorso motivazionale in tema di eccesso di potere necessita di talune precisazioni.

Parte della giurisprudenza e autorevole dottrina non concordano con la soluzione giuridica prospettata in tale sentenza ritenendo che l'eccesso di potere trovi spazio anche all'attuale formulazione dell'art. 323 c.p.

In tal senso si è osservato che gran parte delle ipotesi declinabili nell'ambito dell'eccesso di potere sarebbero trasformate in violazioni di legge a seguito dell'introduzione della legge n. 241/1990.

Inoltre, l'eccesso di potere comporterebbe di per sé una violazione di legge ai sensi dell'art. 97 Cost. che sancisce il principio di buon andamento della P.A.

In realtà il richiamo al principio costituzionale del buon andamento e imparzialità della P.A. finirebbe per delegare all'interprete la creazione della condotta penalmente rilevante.

È ampiamente noto che la caratteristica delle norme contenenti principi non è tanto quella di delineare specifici comportamenti, bensì quella di fissare criteri guida intorno ai quali cristallizzare le vere e proprie regole di condotta; talché la loro indeterminatezza si porrebbe in contrasto con il principio di precisione delle norme incriminatrici enucleato dall'art. 25, comma 2, c.p.

Simili obiezioni a maggior ragione valgono per le disposizioni dettate dalla l. 241/1990 là dove esse non siano idonee a tipizzare puntualmente le condotte vietate.

La giurisprudenza, come detto, dopo essersi attestata nei primi anni successivi alla legge 234/1997 lungo il solco segnato dal Legislatore, si è poi orientata su posizioni ante riforma, in tal senso condizionata da pressanti esigenze moralizzatrici e giustizialiste.

E invero le prime decisioni – ancorché maturate sotto l'egida di un formale ossequio all'insegnamento giurisprudenziale prevalente espresso soprattutto con la sentenza Tasches (Cass. pen., n. 877/1997) circa l'irrilevanza delle norme di principio o meramente programmatiche – configuravano l'abuso d'ufficio anche nel caso di condotte contrassegnate da eccesso di potere sul presupposto che l'atto amministrativo violasse un non meglio definito “sistema di norme”desumibile dall'ordinamento giuridico (Trib. Napoli 30 novembre 1999, in Cass. pen. 2001, 1027).

In questa prospettiva altre pronunce dei giudici di legittimità hanno ravvisato l'abuso d'ufficio non solo nel caso di violazione di legge, ma anche nell'ipotesi in cui la condotta del pubblico ufficiale sia stata esercitata per un fine diverso da quello per il quale il potere è stato conferito.

Tale evoluzione giurisprudenziale è andata col tempo rafforzandosi ed è stata avallata anche da un intervento delle Sezioni Unite (n. 155/2011, depositata il 10 gennaio 2012).

Ad avviso delle Sezioni Unite integra gli estremi della violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 c.p., non solo la condotta del pubblico ufficiale svolta in contrasto con le disposizioni che disciplinano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che ne legittimano lo stesso esercizio (profilo dell'attribuzione) poiché la condotta è volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è stato conferito.

Si è precisato che «anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione».

Quanto alla portata del principio le stesse Sezioni Unite hanno sottolineato che esso potrebbe non attagliarsi a tutta l'azione amministrativa.

In effetti, la vicenda dalla quale ha tratto origine la tesi in esame verteva intorno ad una contestazione di truffa aggravata e abuso d'ufficio nei confronti di un magistrato che, nella sua qualità di giudice dell'esecuzione, avrebbe concorso con un legale nel realizzare una serie di artifici e raggiri cui era derivata l'emanazione di trentacinque ordinanze di assegnazione, in realtà riconducibili ad un unico titolo di credito, in ognuna delle quali erano state arbitrariamente liquidate delle somme - anche per spese legali - in favore di ciascuno dei trentacinque creditori di fatto fittiziamente creati (somme calcolate sul valore complessivo di tutti i crediti azionati), con conseguente danno del debitore.

Le Sezioni Unite non si sono premurate di chiarire se le regole enunciate in tema di sviamento di potere debbano sempre trovare applicazione. «Certamente valgono allorché si tratta di definire l'ambito dell'attività per legge doverosa dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla legge ed esercitano la loro funzione, che postula imparzialità e terzietà». In proposito i poteri di valutazione del giudice non possono essere confusi con la discrezionalità amministrativa. La funzione giurisdizionale non è connotata da libertà di scelta (come per la pubblica amministrazione là dove per discrezionalità s'intende la valutazione di opportunità che attiene alla fase di ponderazione degli interessi), ma dai principi di legalità, imparzialità e terzietà collegati a specifici doveri (quali quello di astensione e di non ledere alcune parti procurando un ingiusto vantaggio a favore di altre) disciplinati da apposite disposizioni normative.

A ben vedere la peculiarità della fattispecie scrutinata dalle Sezioni unite avrebbe dovuto indurre a qualificare, più correttamente, le condotte contestate agli imputati all'interno del perimetro della violazione di norme di legge in senso stretto ai sensi dell'art. 323 c.p., anziché nell'ambito della nozione di eccesso di potere. Al di là di questi particolari casi permane l'incertezza se tale vizio amministrativo sia sussumibile nel delitto di abuso d'ufficio. Al fine di evitare forzature esegetiche è di fondamentale importanza delimitare i confini del principio giurisprudenziale in esame. E ciò anche alla luce delle novità normative introdotte con la riforma Orlando nella parte in cui è stata rafforzata la funzione nomofilattica delle Sezioni Unite creando le basi verso un sistema del precedente vincolante, seppur interno alla stessa Corte di cassazione. Anche in quest'ottica è bene ribadire che la problematica dell'eccesso di potere è strettamente collegata all'ammissibilità del sindacato del giudice penale sull'attività della pubblica amministrazione. Il profilo giuridico dell'atto adottato dal pubblico ufficiale e la sua eventuale illegittimità dal punto di vista amministrativo non coincide con l'elemento oggettivo del reato ex art. 323 c.p.. La condotta del pubblico ufficiale può assumere rilevanza penale soltanto in base ai criteri di qualificazione propri di tale settore dell'ordinamento. Come acutamente è stato osservato «un conto è l'eccesso di potere che si palesa davanti al giudice amministrativo e che costituisce il mezzo più importante per controllare la funzione amministrativa e quindi per correggere l'operato dell'amministrazione in funzione del rispetto della legalità; altra cosa è l'abuso di poteri conferiti dalla legge che si risolvono, sul piano della condotta, nella strumentalizzazione dei poteri conferiti e, sul piano dell'offesa, in quell'oggettiva alterazione delle finalità istituzionali perseguite». In altri termini, per configurare l'abuso d'ufficio non è sufficiente un mero eccesso di potere, la cui sussistenza ai fini dell'annullamento dell'atto attiene a discipline distinte dal diritto penale. In quest'ambito si deve valutare se le condotte del pubblico ufficiale, apparentemente e formalmente legittime, siano in realtà preordinate a obbedire unicamente a un interesse privato invece di perseguire il bene pubblico. In simili ipotesi risulta integrato l'elemento della violazione di norme di legge, giacché il potere attribuito al pubblico ufficiale è stato chiaramente esercitato per finalità diverse da quelle per cui esso è stato conferito. Il richiamo alla nozione di eccesso di potere, tuttavia, al riguardo rischia di apparire fuorviante essendo comunque necessario individuare il fine tipico, ossia predefinito dalla legge, della funzione pubblica. In assenza dell'esatta e chiara individuazione ex ante del fine pubblico non potrà prospettarsi una violazione di norme di legge o di regolamento. In caso d'incertezza, ossia quando risulti problematico stabilire il fine pubblico della P.A. essendo demandato a quest'ultima il compito di individuare quale, fra i contrapposti interessi, debba prevalere non potrà dirsi integrato il reato ex art. 323 c.p. sotto il profilo dello sviamento del potere o della violazione di norme di legge; potendo al più argomentarsi in relazione a mere “figure sintomatiche” non idonee a superare il vaglio di compatibilità rispetto al principio di determinatezza della fattispecie penale. La chiave di lettura offerta in questa sede trova implicita conferma anche nella giurisprudenza formatasi in merito all'elemento soggettivo del reato ex art.323 c.p. È noto che per configurare il dolo (intenzionale) in questo delitto è necessario che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia agito con lo scopo immediato e finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in essere, una finalità pubblica. La qualificazione del dolo intenzionale come scopo finale dell'evento programmato implica, quindi, che la realizzazione del fatto di reato costituisca la finalità immediata e diretta dell'agente. A riprova che nel reato di abuso d'ufficio l'interesse pubblico riveste un ruolo assolutamente centrale nell'economia della fattispecie e pertanto la rappresentazione e la volizione dell'evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui) deve costituire l'obiettivo primario da questi perseguito, a nulla rilevando altrimenti il fatto che l'attività amministrativa sia stata anche l'occasione per soddisfare un interesse diverso da quello pubblicistico perseguito invece in via prioritaria. La giurisprudenza di legittimità ha enunciato in modo chiaro siffatti concetti quando ha precisato che, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo nel delitto di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p., non è sufficiente né il dolo eventuale – ossia l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento – né quello diretto – e cioè la rappresentazione dell'evento come realizzabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza essere lo scopo principale della condotta. In altre parole, la sussistenza del dolo intenzionale nel delitto di abuso d'ufficio, al pari del requisito afferente alla violazione di norme di legge o di regolamento, ha l'obiettivo di limitare i margini di controllo del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale e arrecare un ingiusto danno.

Guida all'approfondimento

M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione, 2019, Giuffrè;

I reati contro la pubblica amministrazione, Trattato di diritto penale a cura di C. Grosso e M. Pellisero, 2015, Giuffrè;

E. Infante, I delitti contro la pubblica amministrazione in Trattato di diritto penale a cura di A. Cadoppi - S. Canestrari – A Manna – M. Papa, 2008, Utet;

I delitti contro la pubblica amministrazione, in Rassegna di giurisprudenza e dottrina a cura di G. Lattanzi e E. Lupo, 2015, Giuffrè;

A. Merli, Il controllo di legalità dell'azione amministrativa e l'abuso d'ufficio, 2012, in Diritto Penale Contemporaneo.

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