Convivenza more uxorio e non punibilità ex art. 384 c.p.: precisazioni della S.C. sull'applicabilità della norma
13 Maggio 2019
Massima
Al fine di delimitare i limiti di applicabilità dell'istituto di cui all'art. 384 c.p., deve accogliersi un'interpretazione estensiva della nozione di matrimonio che ricomprenda anche i rapporti di fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali, sia la giurisprudenza nazionale che internazionale, attribuiscono incondizionata tutela. Il caso
La Corte di appello adita confermava la decisione del giudice di primo grado, con la quale si condannava l'imputato per il delitto di favoreggiamento, per aver aiutato il convivente della sorella a sottrarsi alle ricerche di polizia, ospitandolo presso la propria abitazione, e fornendo false informazioni alla PG operante in merito alla presenza ivi dello stesso. La Corte riteneva, infatti, non configurabile l'esimente di cui all'art. 384 c.p., atteso che il rapporto sussistente tra il favoreggiatore e l'evaso non rientrasse tra quelli previsti nella nozione di “prossimo congiunto”, ai sensi dell'art. 307 c.p. Avverso la sentenza veniva proposto ricorso per cassazione, con cui si denunciava violazione di legge e vizio di motivazione per non avere, i giudici di merito, ritenuto applicabile l'esimente al caso di specie, in ragione delle recenti riforme intervenute nel diritto di famiglia con la l. 76/2016. L'art. 1, lett. a), infatti, avrebbe esteso, secondo il ricorrente, l'applicabilità dell'istituto anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, valorizzando una nozione di famiglia più estesa rispetto a quello di famiglia legittima; nozione, peraltro, accolta dall'art. 8 della CEDU, che tutela anche i rapporti c.d. di fatto. La questione
La questione sottoposta al vaglio della Corte riguarda l'applicabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. ai casi di rapporti di sola convivenza (non formalizzata attraverso un matrimonio o un'unione civile), per le ipotesi di delitti contro l'amministrazione della giustizia. Il caso specifico, nondimeno, ha dato spunto ai giudici di legittimità anche per affrontare la medesima tematica con riferimento all'ulteriore esimente di cui all'art. 649 c.p. in materia di delitti contro il patrimonio. Sebbene l'ipotesi specifica non sia stata cristallizzata a livello normativo, come devono essere inquadrate, secondo dottrina e giurisprudenza le convivenze more uxorio nell'ambito della legislazione di favore in materia penale che già tutela la famiglia legittima o le unioni civili? Le soluzioni giuridiche
La problematica dell'equivalenza della figura del convivente e del coniuge, già prima dell'intervento della legge Cirinnà, è stata affrontata a più livelli giuridici, sia nazionale (Corte di Cassazione e Corte costituzionale) che europeo. Nella sentenza in commento, la Corte, per giungere alla soluzione della questione sottoposta, pertanto, affronta, seppur in estrema sintesi, in maniera comunque chiara e precisa, tutta la problematica. Preliminarmente, si analizza la posizione della Corte di Cassazione che, con una recente pronuncia, la n. 34147, resa dalla Sezione II in data 30 aprile 2015 in un caso analogo a quello di specie, aveva applicato l'esimente dell'art. 384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio, attesa l'estendibilità a tutti coloro che commettono reati contro la pubblica amministrazione per salvare il prossimo congiunto dal pericolo per la libertà e l'onore. In secondo luogo, allargando l'analisi anche all'esimente di cui all'art. 649 c.p., la Corte da atto di altra giurisprudenza di legittimità che, in maniera pressoché analoga, ha riconosciuto l'operatività della causa di esclusione della punibilità, prevista in materia di reati contro il patrimonio, per il coniuge non legalmente separato e la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, anche in favore del convivente more uxorio (Cass. pen., Sez. IV, 22 gennaio 2004, n. 22398; Cass. pen., Sez. IV, n. 32190/2009; più recentemente, Cass. pen., Sez. V, n. 39480/2015). Con riguardo alla giurisprudenza costituzionale, invece, il richiamo è alla sentenza n. 416/1996, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 384, comma 2, c.p., nella parte in cui non prevedeva che la violazione dell'obbligo d'informazione previsto dall'art. 199, comma 2, c.p.p. comportasse l'esclusione della responsabilità anche nei confronti del convivente per fatti, evidentemente, verificatisi o appresi durante la convivenza. Relativamente alla giurisprudenza internazionale, invece, la sentenza in commento richiamando le pronunce del 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio e del 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera, ha accolto una nozione sostanziale onnicomprensiva di matrimonio che annovera anche i rapporti di fatto, privi di qualsiasi formalizzazione, ai quali l'art. 8 CEDU, accorda tutela incondizionata. Infatti, secondo la Corte internazionale, la nozione di famiglia accolta dalla disposizione della CEDU non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su diversi legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza (a maggior ragione se si è in presenza di figli della coppia). Analizzati tali orientamenti giurisprudenziali, e soprattutto in ragione della posizione legalmente riconosciuta dalle fonti internazionali, la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, preso atto della posizione di fonti interposte delle norme CEDU, ha affermato che «con specifico riguardo agli istituti di cui agli artt. 384 e 649 c.p., non può omettersi di considerare che le fonti internazionali aventi efficacia penale in bonam partem sono immediatamente cogenti per l'interprete, a meno che non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale, e non ne è questo il caso». Pertanto, secondo la Corte, attesa la sussistenza della normativa sovranazionale e del rapporto esistente con quella interna, logica conseguenza è l'adeguamento di quest'ultima alla prima, «nel senso della completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pieno iure a quella di fatto». Osservazioni
Per giungere alla soluzione appena accennata la Corte, quindi, affronta un'analisi che parte dalle disposizioni introdotte nell'ordinamento giuridico e che danno rilievo alla convivenza more uxorio per giungere, tuttavia, a definire se, nei casi in cui la legge sia muta, sia comunque possibile applicare gli effetti in bonam partem che deriverebbero dal rapporto personale di convivente. Per far questo, in primo luogo, affronta il caso del delitto di maltrattamenti, previsto dall'art. 572 c.p., così come recentemente modificato dall'art. 4, della l. 1 ottobre 2012, n. 172 che, da Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, si è trasformato in Maltrattamenti contro familiari e conviventi, e punisce, oggi, «chiunque […] maltratta una persona della famiglia o comunque convivente». La modifica di tale disposizione è frutto, evidentemente, dell'adeguamento delle norme penali alla mutata realtà sociale fatta non solo di vincoli formali, ma anche di rapporti di fatto, stabili e duraturi. Nondimeno, il problema che si pone, in via principale, è rappresentato, per un verso, dal divieto di analogia in materia penale, mentre, per altro verso, dall'eccezionalità delle disposizioni che producono effetti favorevoli per gli interessati. Con la l. 76/2016 (legge Cirinnà), come detto, si è istituita l'unione civile tra persone dello stesso sesso, ma è stata anche, in qualche modo, introdotta una disciplina delle convivenze di fatto. La ratio della legge è, infatti, quella di equiparare gli effetti, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i terzi in genere, delle unioni civili con quelli del matrimonio. Relativamente alle convivenze more uxorio, la legge, all'art. 1, comma 36, ha invece affermato che le stesse si differenziano da quelle di mero fatto per la richiesta formalizzazione data dalla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b) del d.P.R. 223/1989. Ai conviventi, quindi, viene ampliato il ventaglio di diritti e facoltà attribuiti loro, venendo gli stessi considerati come «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile». Atteso il riconoscimento alle unioni di fatto di diritti e facoltà di natura civile, resta tuttavia aperta la questione se, con la legge Cirinnà siano stati previsti effetti anche in rami dell'ordinamento come quello del diritto penale. La modifica legislativa (legge Cirinnà) ha imposto, evidentemente, un adeguamento sistematico, formale e sostanziale dell'ordinamento penale, laddove, ad esempio, con riferimento alla nozione di prossimo congiunto, così come previsto dall'art. 307, comma 4, c.p., si è ricompresa anche la figura della “parte di un'unione civile” (modifica operata dall'art. 1, lett. a), l. 6/2017, «Agli effetti della legge penale, s'intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole»). La nuova nozione, appena indicata, ha sicuramente riverbero in tutti quei casi in cui la posizione personale ha effetti in bonam partem. Ci si riferisce, cioè:
Alcuni autori, tuttavia, in merito agli effetti della riforma del diritto di famiglia in materia penale, hanno acutamente evidenziato come il legislatore abbia tagliato fuori le coppie di fatto, se non in casi specifici in cui ha legiferato appositamente. Ci si riferisce, ad esempio, all'ipotesi del reato di maltrattamenti già citato. O ancora, secondo quanto si legge all'art. 1, comma 38, legge Cirinnà, che ha previsto gli stessi diritti del coniuge anche al convivente nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. Si tratta, nondimeno, di un riconoscimento non innovativo, atteso che già si parificavano le due figure. Ciò che però la legge citata non ha realizzato è il coordinamento tra il diritto penale e le convivenze di fatto. E infatti, la legge Cirinnà ha acuito, proprio con la regolamentazione della nuova figura delle unioni civili, le differenze di disciplina con le convivenze di fatto, applicando solo alle prime una serie di disposizioni analoghe a quelle previste per il matrimonio. Nondimeno in ambito penalistico, la nozione di convivenza di fatto va certamente intesa nel senso più ampio del termine, cioè quale convivenza more uxorio, situazione fattuale omogenea a quella consacrata dal vincolo matrimoniale, una situazione cioè «caratterizzata da comunione materiale e spirituale paragonabile a quella prevista per il rapporto coniugale, con esclusione dell'unione civile». D'altra parte, trattare diversamente l'unione civile dalla convivenza comporterebbe una inaccettabile disparità di trattamento di situazioni che, di fatto, seppur formalmente diverse, sono sostanzialmente analoghe. Pertanto, con riguardo alle convivenze di fatto può dirsi che sia la giurisprudenza che la dottrina evidenziano una tendenza logico-giuridica alla parificazione di tali rapporti a quelli già formalmente riconosciuti dall'ordinamento anche sotto il profilo penalistico. Ciò, anche in ossequio a quanto previsto a livello sovranazionale, in particolare, dall'art. 8 della CEDU, secondo l'interpretazione estensiva data dalla Corte di Strasburgo, che vuole una completa equiparazione dei due istituti. |