La tempestività del procedimento disciplinare in ipotesi di condotte penalmente rilevanti
07 Novembre 2017
Massime
In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell'art. 7, terzo e quarto comma, L. 20 maggio 1970, n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede - sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all'esercizio del relativo potere e l'invalidità della sanzione irrogata. Né può ritenersi che l'applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l'interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest'ultimo, tutelata ex lege, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell'organizzazione aziendale.
In tema di licenziamento disciplinare, un fatto non tempestivamente contestato dal datore non può che essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 St. Lav, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori.
In tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti non fa venir meno l'obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa dell'incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a suo carico. Ne consegue che non può ritenersi giustificato il differimento della contestazione di fatti già noti, ove esso sia stato determinato dalla volontà del datore di lavoro di acquisirne la valutazione in sede penale, e in particolare di acquisirne il formale inquadramento, peculiare di tale giudizio, rispetto all'una o all'altra fattispecie incriminatrice, tale incremento di conoscenza restando ininfluente, per la reciproca autonomia dei procedimenti penale e disciplinare, in presenza di condotte che risultino già adeguatamente percepite dal datore di lavoro tanto sul versante della loro realtà storica e fattuale, come su quello del loro disvalore etico e sociale.
In tema di procedimento disciplinare, ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare per i relativi fatti ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione delle esigenze di tutela del segreto istruttorio.
La contestazione disciplinare preordinata al licenziamento è da ritenersi tempestiva quando, sebbene non sia immediata rispetto all'addebito, è comunicata a seguito della decisione di rinvio a giudizio o all'esito del procedimento penale che vede coinvolto il lavoratore indisciplinato. Il caso
La controversia in esame trae origine da una contestazione disciplinare elevata, ad opera di un'azienda di telefonia, nei confronti di un proprio dipendente addetto alle mansioni di “tecnico online”, censurato dal datore per aver effettuato, durante l'orario di lavoro, un numero rilevante di chiamate ai propri familiari, mediante l'utilizzo, anche per più di un'ora continuativa ogni volta, del telefono aziendale destinato alla ricezione delle segnalazioni dell'utenza e con contestuale impiego della funzione di messa in attesa delle chiamate in entrata, così da consentire, al lavoratore de quo, il diniego dell'accesso telefonico ai clienti del servizio gestito dall'azienda per tutta la durata delle chiamate e la simultanea indebita ricarica telefonica delle utenze dei propri familiari, di volta in volta dal medesimo contattati.
L'azienda in parola, dunque, ritenendo che siffatte condotte integrassero una chiara e ripetuta violazione, da parte del dipendente, dei doveri di diligenza, di correttezza e di fedeltà contrattuale oltre che una plausibile ipotesi di condotta penalmente rilevante, dopo aver denunciato i fatti alla competente Autorità inquirente aveva, dapprima, provveduto a sospendere cautelativamente il dipendente, per quindi determinarsi, a distanza di diversi anni dai fatti contestati e solo all'esito del decreto di rinvio a giudizio del dipendente, a contestargli disciplinarmente i menzionati addebiti e, quindi, provvedere al licenziamento del lavoratore per giusta causa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 48 CCNL di settore e 2119 c.c.
La comminata risoluzione datoriale è stata, quindi, immediatamente impugnata dal lavoratore, sul presupposto della rilevata tardività della contestazione disciplinare in esame e della conseguente assenza di un elemento costitutivo del licenziamento irrogato, ex. art. 7 St. Lav., tale da determinare l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18 della L. n. 300/70, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.
Senonchè il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, investito della questione, dapprima ha provveduto, in accoglimento delle doglianze attoree, ad annullare il licenziamento impugnato, con contestuale condanna della datrice di lavoro alla reintegra del ricorrente nel proprio posto di lavoro ed alla corresponsione, in suo favore, di una indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto maturata dalla data del licenziamento fino a quella della reintegra, in misura in ogni caso non superiore alle dodici mensilità, corredata dai relativi versamenti contributivi di natura previdenziale; successivamente ed a distanza di pochi mesi, la medesima Autorità Giudiziaria è invece tornata sui suoi passi, dichiarando, all'esito di una più approfondita disamina della fattispecie oggetto di causa propria della fase processuale, ex. L. n. 92/2012, la tempestività e la giustificatezza del licenziamento impugnato, ex. artt. 7 St. Lav e 1 e ss L. n. 604/1966. La questione
La questione giuridica affrontata dalla decisione in esame involge la vexata quaestio del rispetto del principio di tempestività in ambito disciplinare, con riferimento ad ipotesi caratterizzate dalla concomitante operatività dell'accertamento penale sulla rilevanza delle condotte contestate al dipendente.
Le soluzioni giuridiche
Nel dirimere la controversia posto al suo vaglio, il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, nell'iniziale fase cautelare, ha ritenuto fondata la censurata tardività della contestazione disciplinare, rilevando come le circostanze fattuali sottese al procedimento intrapreso a carico del lavoratore fossero ben note alla datrice fin dal momento della presentazione della denuncia di reato avvenuta nel 2012 e come, di conseguenza, l'azienda risultasse in ogni caso in grado di effettuare specifici e autonomi accertamenti per verificarne l'effettiva gravità disciplinare, stante anche il contenuto del citato atto di denuncia. Il rilevante arco temporale quadriennale trascorso dalla data dei fatti a quella di adozione della contestazione in esame, dunque, sarebbe risultato prima facie ingiustificato e contrario, in quanto tale, al precetto contenuto nell'art. 7 St. Lav., con conseguente riconducibilità di tale violazione del requisito della tempestività, nell'alveo dell'insussistenza di un elemento costitutivo del licenziamento, ai fini dell'applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 St.Lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
Senonchè a distanza di pochi mesi ed a conclusione del giudizio di opposizione proposto dall'azienda resistente ex. L. n. 92/2012, la medesima Autorità Giudiziaria è tornata sui suoi passi, rilevando, all'esito di una più approfondita disamina della fattispecie oggetto di causa, la legittimità del licenziamento comminato al dipendente, ex. artt. 7 St. Lav. e 1 e ss L. n. 604/1966. In particolare il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano ha evidenziato come, da un lato, la contestazione disciplinare formalmente adottata dalla resistente a circa tre anni e mezzo di distanza dalla commissione dei singoli addebiti ascritti al lavoratore risultasse: tempestiva, perché formulata subito dopo la notifica alla società del Decreto di rinvio a giudizio del dipendente per i medesimi fatti sottesi al licenziamento in esame (provvedimento questo, ritenuto dal Giudicante idoneo a “cristallizzare” in maniera attendibile, anche sotto il profilo giuridico, le accuse fino ad allora rivolte all'indagato da parte dell'autorità procedente), comunque non ostativa all'ampio esercizio del diritto di difesa nella sua effettività da parte del dipendente, nonché inidonea, infine ed in ogni caso, a favorire l'affidamento del prestatore di lavoro rispetto alla eventuale ritenuta irrilevanza disciplinare del comportamento dallo stesso realizzato (deponendo chiaramente in tal senso non solo la sospensione cautelativa dal lavoro adottata dall'azienda nei confronti del dipendente non appena avuta notizia del suo coinvolgimento in una indagine penale, ma anche il contenuto dei reiterati provvedimenti con cui la datrice aveva ribadito, nel corso degli anni, la propria volontà di far salva “la più ampia riserva di diritti ed azione, ai sensi di legge e di contratto, in relazione a quanto” sarebbe emerso a carico del lavoratore “dagli sviluppi ed ai provvedimenti” assunti dalle competenti autorità) . Osservazioni
Le pronunce in commento non solo rappresentano una rara ipotesi di retractu giudiziaria, ascrivibile al medesimo estensore in uno iato temporale di pochissimi mesi ed in relazione alla valutazione degli stessi fatti di causa, ma assurgono, al contempo, ad interessante momento di riflessione sul delicato tema del rispetto del principio di tempestività in ambito disciplinare, con riferimento ad ipotesi caratterizzate dalla concomitante operatività dell'accertamento penale sulla rilevanza delle condotte poste in essere dal dipendente.
Come è noto, il principio in argomento viene desunto, in parte ed in via interpretativa, dal disposto dell'art. 7 St.Lav. (L. n. 300 del 1970), incidendo la tardività della contestazione disciplinare sull'effettività del diritto di difesa del lavoratore; in altra parte, dal richiamo ai criteri generali civilistici di buona fede e correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, oltre che agli assiomi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento del lavoratore incolpato.
La contestazione, infatti, “…. deve essere caratterizzata da immediatezza, per consentire al lavoratore incolpato l'effettivo esercizio del diritto di difesa mediante l'allestimento del materiale difensivo, dovendosi anche considerare il ‘giusto affidamento' del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione disciplinare, dato che l'esercizio del potere disciplinare non è un obbligo per il datore di lavoro, bensì una facoltà” (v. Cass. sez. lav., 7 novembre 2003, n. 16754).
Senonchè il nodo gordiano della materia è rappresentato, senza dubbio, dalla necessità di operare una corretta valutazione ed un imprescindibile contemperamento dei contrapposti ma egualmente rilevanti interessi in gioco, quali, in particolare, quello del datore di lavoro, da una parte, a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e quello del lavoratore, dall'altra, a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione, al fine di poter correttamente articolare le proprie difese, evitando altresì la formazione di un legittimo convincimento circa l'irrilevanza disciplinare del fatto per l'intervenuta decorrenza di un lasso temporale, tale da far pensare alla mancanza dell'interesse datoriale all'esercizio del potere disciplinare.
E si badi che, in tema di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza riguarda sia la contestazione dell'addebito che l'irrogazione della sanzione, dovendo, tanto l'esplicitazione dei comportamenti irregolari contestati quanto la successiva comunicazione del provvedimento sanzionatorio adottato, verificarsi in stretta connessione temporale con l'avvenimento disciplinarmente rilevante e con la formulazione delle giustificazioni, in quanto la tempestività della contestazione dell'addebito appare funzionale e necessaria alla tutela concreta ed effettiva del diritto di difesa del lavoratore, che non deve essere danneggiato nella predisposizione della documentazione difensiva relativa alla ricostruzione del fatto, alla ricerca dell'eventuale documentazione ed all'indicazione dei testimoni; mentre la tempestività nell'irrogazione della sanzione tende a salvaguardare l'interesse a conoscere la determinazione datoriale, per evitare l'innaturale situazione di incertezza e soggezione all'esercizio del potere disciplinare.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente, tuttavia, ha sin da subito precisato, a più riprese, come il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito e quello della tempestività del recesso datoriale debbano essere intesi in senso relativo ed a seguito della compiuta valutazione in concreto caso per caso, dovendosi tener conto della effettiva realtà fattuale in relazione alla quale si è concretizzato l'illecito disciplinare, della complessità (o meno) della organizzazione aziendale, delle eventuali difficoltà in merito ad una adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente e delle giustificazioni da lui fornite.
In particolare poi e con riferimento allo specifico tema in commento, la giurisprudenza, da un lato, ha chiarito come l'aver presentato, a carico di un lavoratore, denuncia per un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell'addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (v. Cass. sez. lav., n. 1101/2007 e Cass. sez. lav., n. 4502/2008); ma, dall'altro, ha altresì evidenziato come, ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività in sede disciplinare, un determinato intervallo temporale assume rilievo solo in quanto rilevatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio del proprio potere sanzionatorio, con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, l'incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure, specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto, dimostrano la permanente volontà del datore di lavoro di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento (Cass. sez. lav., 6 dicembre 2005, n. 26670; Cass. sez. lav., 18 aprile 1998, n. 3964; Cass. sez. lav., n. 6127 del 1999, Cass. sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13955).
Ebbene, le riportate pronunce, apparentemente antinomiche, muovono invece tutte dalla necessità di contemperare i surichiamati principi di tutela dell'interesse del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e di contemporanea tutela dell'interesse del lavoratore all'effettivo esercizio del proprio diritto di difesa, in uno all'affidamento in merito alla irrilevanza disciplinare della condotta contestata, per comportamento concludente legato al protrarsi di una inerzia datoriale temporalmente rilevante.
Più nel dettaglio, infatti, il primo indirizzo giurisprudenziale richiamato si articola sull'assunto per cui un bilanciamento coerente degli interessi sottesi al procedimento disciplinare non consente di individuare, nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e/o nella conseguente denuncia all'autorità inquirente, circostanze di per sé sole esonerative dall'obbligo di immediata contestazione, qualora i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore e ciò in considerazione, da un lato, della rilevanza che tale obbligo assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa del lavoratore incolpato; dall'altro, dell'autonomia tra i due procedimenti e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare, in uno all'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico (v. Cass. sez. lav., n. 7409/2010 e Cass. sez. lav., 23 gennaio 2013, n. 1558).
Ed invero, il principio di non colpevolezza valido fino alla condanna definitiva, sancito dall'art. 27, secondo comma, della Costituzione, concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può, quindi, applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio, da parte del datore di lavoro, della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo a ciò di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna (v. Cass. sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13955; Cass. sez. lav., n. 29825/2008).
Il secondo filone giurisprudenziale menzionato, invece, sviluppando ancor più il contemperamento in parola, evidenzia come nelle ipotesi in cui il fatto costituente illecito disciplinare assuma anche rilevanza penale, il principio dell'immediatezza della contestazione non possa considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente ovvero anche solo il suo concreto disvalore e/o la connotazione dello stesso quale ipotesi di reato (al fine dell'eventuale integrazione del dettato normativo del CCNL di settore), porti la vicenda all'esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell'esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l'illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale (v. Cass. sez. lav., 27 marzo 2008, n. 7983) e che adotti provvedimenti e/o condotte idonee a dimostrare la permanenza, per tutto lo iato temporale necessario all'accertamento, dell'interesse datoriale all'eventuale esercizio del potere disciplinare (Cass. sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13955).
Sulla scorta, dunque, delle coordinate ermeneutiche e giurisprudenziali sin qui illustrate, appare allora a questo punto possibile commentare i provvedimenti antitetici adottati dal Giudice del lavoro del Tribunale di Milano.
Ed invero, come già evidenziato in precedenza, nell'iniziale fase cautelare, l'estensore ha ritenuto fondata la censurata tardività della contestazione disciplinare, rilevando come le circostanze fattuali sottese al procedimento intrapreso a carico del lavoratore fossero ben note alla datrice, in tutto il loro disvalore, fin dal momento della presentazione della denuncia di reato e come, di conseguenza, non potesse “… ritenersi giustificato il differimento della contestazione di fatti già noti, ove esso sia stato determinato dalla volontà del datore di lavoro di acquisirne la valutazione in sede penale, e in particolare di acquisirne il formale inquadramento, peculiare di tale giudizio, rispetto all'una o all'altra fattispecie incriminatrice, tale incremento di conoscenza restando ininfluente, per la reciproca autonomia dei procedimenti penale e disciplinare, in presenza di condotte che risultino già adeguatamente percepite dal datore di lavoro tanto sul versante della loro realtà storica e fattuale, come su quello del loro disvalore etico e sociale ...”, interpretando, altresì, il disposto allontanamento cautelativo del ricorrente dal lavoro, accompagnato dall'espressa attestazione datoriale di “ampia riserva di diritti ed azione”, quale prova ulteriore della piena consapevolezza aziendale circa la sussistenza e la rilevanza disciplinare degli addebiti in oggetto, “… non avendo altrimenti tali provvedimenti alcuna plausibile giustificazione giuridica…”.
Senonchè, a distanza di pochi mesi ed a conclusione del giudizio di opposizione proposto dall'azienda resistente ex L. n. 92/2012, la medesima Autorità Giudiziaria è tornata sui suoi passi, rilevando, all'esito di una più approfondita disamina della fattispecie oggetto di causa, la legittimità del licenziamento comminato al dipendente, ex artt. 7 St.Lav. e 1 e ss L. n. 604/1966.
In particolare, il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano ha evidenziato come, in primo luogo, la contestazione disciplinare formalmente adottata dalla resistente a circa tre anni e mezzo di distanza dalla commissione dei singoli addebiti ascritti al lavoratore risultasse tempestiva, perché “... ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare per i relativi fatti ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione delle esigenze di tutela del segreto istruttorio... ” e perchè, in ogni caso, formulata subito dopo la notifica alla società del Decreto di rinvio a giudizio del dipendente per i medesimi fatti sottesi al licenziamento in esame (provvedimento questo, ritenuto dal Giudicante idoneo a “cristallizzare” in maniera attendibile, anche sotto il profilo giuridico, le accuse fino ad allora rivolte all'indagato da parte dell'autorità procedente), in ossequio all'indirizzo della Suprema Corte espresso nella sentenza n. 25686/2014 per cui “... la contestazione disciplinare preordinata al licenziamento è da ritenersi tempestiva quando, sebbene non sia immediata rispetto all'addebito, è comunicata a seguito della decisione di rinvio a giudizio o all'esito del procedimento penale che vede coinvolto il lavoratore indisciplinato ...”
In secondo luogo, la citata Autorità giudiziaria, dopo aver attestato l'inesistenza di alcun vulnus all'esercizio del diritto di difesa nella sua effettività da parte del dipendente, avendo questi, una volta ricevuta la contestazione disciplinare in esame, esercitato “in maniera piena ed esaustiva ... il proprio diritto di difesa, ex. art. 7 stat. lav, ammettendo la commissione della condotta in contestazione”, rivedendo l'interpretazione resa nella precedente fase del giudizio, ha ritenuto che la sospensione cautelativa dal lavoro, adottata dall'azienda nei confronti del dipendente non appena avuta notizia del suo coinvolgimento in una indagine penale, in uno al contenuto dei reiterati provvedimenti con cui la datrice aveva ribadito, nel corso degli anni, la propria volontà di far salva “la più ampia riserva di diritti ed azione, ai sensi di legge e di contratto, in relazione a quanto” sarebbe emerso a carico del lavoratore “dagli sviluppi e dai provvedimenti” assunti dalle competenti autorità, deponessero chiaramente in senso confermativo dell'interesse datoriale all'esercizio della facoltà di recesso, tanto da impedire la formazione di qualsivoglia affidamento del prestatore di lavoro rispetto alla eventuale ritenuta irrilevanza disciplinare del comportamento dallo stesso adottato.
Ed allora, volendo provare ad avanzare alcune considerazioni conclusive, può senz'altro evidenziarsi come, alla luce delle attestazioni e circostanze illustrate nelle pronunce in commento, il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano abbia giustamente mutato il proprio iniziale orientamento, fino a riconoscere la legittimità del comminato licenziamento e la correttezza dell'esercizio del potere disciplinare da parte datoriale.
Ed infatti, posto che, come più volte ricordato, i principi dell'immediatezza della contestazione dell'addebito e della tempestività del recesso sono espressione dell'imprescindibile esigenza di garantire, al lavoratore, tanto l'effettività del diritto di difesa quanto la mancata formazione di un legittimo convincimento circa l'irrilevanza disciplinare del fatto posto in essere, nessuna lesione dei summenzionati principi e diritti potrebbe essere riscontrata nella fattispecie in esame, in quanto, preso atto della verifica giudiziale circa la piena e puntuale esplicitazione delle giustificazioni difensive ad opera del dipendente incolpato, il ritardato esercizio del potere disciplinare, da parte datoriale, siccome necessitato dal compimento di un'adeguata valutazione della gravità e della rilevanza, anche nei suoi connotati di reato, della condotta posta in essere dal dipendente, non ha di fatto rivelato alcuna abdicazione e/o elisione dell'interesse aziendale al corretto esercizio del potere disciplinare in relazione ai fatti commessi dal lavoratore, avendo il datore di lavoro non solo provveduto all'immediata sospensione cautelativa dal lavoro del proprio dipendente (non appena avuta notizia del suo coinvolgimento in una indagine penale) ma anche costantemente e reiteratamente ribadito, nel corso degli anni, la propria volontà di far salva la più ampia riserva di diritti ed azione, ai sensi di legge e di contratto, in relazione a quanto sarebbe emerso a carico del lavoratore dagli sviluppi ed ai provvedimenti” assunti dalle competenti Autorità.
Da ultimo, ma non certo per importanza, un rapidissimo accenno merita di esser fatto in riferimento alla tipologia di tutela prevista dall'ordinamento vigente con riguardo alle ipotesi di illegittimità del licenziamento per accertata violazione del requisito di tempestività, in considerazione della pronuncia sul punto resa dal Giudicante nell'ordinanza conclusiva della prima fase del giudizio, con la quale è stato ribadito che “ … in tema di licenziamento disciplinare, un fatto non tempestivamente contestato dal datore non può che essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 St. Lav., come modificato dalla L. n. 92/2012, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori … ” .
Ebbene, come è noto, nel previgente sistema imperniato sulla reintegrazione, a fronte di un licenziamento affetto da vizi anche meramente procedurali, come la tardività della contestazione degli addebiti, la tutela riconosciuta dalla legge al lavoratore era la tutela reale.
Oggi, a seguito delle modifiche apportate all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori dalla L. 92 del 2012 (Riforma Fornero) e dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23 del 2015 attuativo della L. n. 183 del 2014 sul contratto a tutele crescenti, c.d. Jobs Act, gli effetti dell'accertamento della tardività della contestazione sono nettamente mutati, assumendo rilevanza discretiva la qualificazione di natura formale o sostanziale del vizio del licenziamento intervenuto in forza di contestazione tardiva.
Ebbene, con la sentenza n. 2513 del 2017 la Suprema Corte di Cassazione, intervenuta sul tema, ha evidenziato come la non immediatezza della contestazione non possa che qualificarsi alla stregua di un vizio procedimentale a carattere radicale e di natura sostanziale, che impedisce in radice l'accertamento giudiziale, perché la valutazione dell'insussistenza del fatto è contenuta nel comportamento di inerzia del datore di lavoro, cui l'ordinamento impone il dovere di reagire, aggiungendo come, non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7, il fatto deve ritenersi “tamquam non esset” e quindi “insussistente” ai sensi dell'art. 18 novellato. Senonchè, con ordinanza n. 10159 del 21 aprile 2017 l'Organo della Nomofilachia, ritenendo che “…dopo l'entrata in vigore della riforma legislativa dell'art. 18 L. n. 300/70 per opera della L. n. 92/2012 la questione della tardività merita ad avviso di questo Collegio un'attenta valutazione discretiva, attesa la diversità delle conseguenze sanzionatorie specificamente stabilite in riferimento alle fattispecie distintamente regolate, al contrario della disciplina anteriore di esclusiva previsione della tutela reintegratoria per ogni ipotesi di illegittimità, indifferentemente di natura sostanziale, piuttosto che formale” e sottolineando come “ … tenuto conto della distinzione, radicata su una corretta lettura del dato normativo, tra illegittimità del licenziamento disciplinare per “insussistenza del fatto contestato”, comportante una tutela reintegratoria (art. 18, c. 4) e illegittimità del licenziamento per “altre ipotesi”, comportante una tutela indennitaria (art. 18, c. 5), deve valutarsi se possa essere data continuità al recente orientamento espresso da questa Corte con la sentenza n. 2513 del 2017 che equiparando un fatto contestato con notevole ritardo, superiore all'anno, ad uno insussistente, siccome inidoneo ad essere verificato in giudizio, fa rientrare anche tale fattispecie nella prima ipotesi, dovendosi ricordare tuttavia che questa Corte si è già espressa diversamente, ritenendo che comporti una tutela indennitaria (art. 18, co. 5) “la violazione del requisito della tempestività, che viene considerato elemento costitutivo del diritto di recesso, a differenza del requisito di immediatezza della contestazione, che rientra tra le regole procedurali” (Cass. sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669), ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, definendo la questione “di massima e particolare importanza”, essendo la soluzione del contrasto in materia destinata ad incidere su altre controversie già pendenti o che verosimilmente potrebbero essere instaurate nell'immediato futuro, in ordine alle quali è auspicabile si prevenga il formarsi di una molteplicità di orientamenti giurisprudenziali contrastanti. |