Infondatezza del fatto posto a fondamento del licenziamento: scatta la reintegra senza potere di discrezionalità per il giudice
17 Ottobre 2017
Massima
La previsione contenuta nel novellato art. 18, comma 7, St. Lav., secondo cui il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo articolo, deve essere interpretata nel senso che, in caso di inesistenza del fatto posto alla base del licenziamento e considerati gli elementi del caso concreto, si applichi la reintegra. Al contrario, nel caso in cui sussista il fatto posto alla base del recesso, ma non sia tale da costituire un giustificato motivo di licenziamento, si dovrà applicare la sola tutela risarcitoria.
L'inesistenza giuridica del fatto obiettivo presupposto, valutate altresì le circostanze del caso concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del giudice. Il caso
Con reclamo una lavoratrice impugnava la sentenza del Tribunale di Rovigo, con cui veniva respinta l'opposizione all'ordinanza che rigettava la sua domanda diretta all'annullamento del licenziamento intimatole dal datore di lavoro, una società di ristorazione subentrante in appalto ad altra società, per mancato superamento del periodo di prova.
La Corte d'Appello di Venezia accoglieva il reclamo, annullando il licenziamento, e, per l'effetto, condannando la società alla reintegra nel posto di lavoro della dipendente ed al risarcimento del danno commisurato in 12 mensilità della retribuzione lorda globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali.
La Corte, infatti, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento ed applicabile, per insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 6, L. n. 300/1970.
La società datrice proponeva ricorso di tale sentenza dinnanzi alla Suprema Corte e la dipendente resisteva in giudizio con controricorso. Le questioni
Con il primo motivo la società ricorrente denunciava la violazione e/o falsa applicazione del CCNL turismo pubblici servizi (al capo XIV protocollo appalti-cambi di gestione), lamentando un'erronea interpretazione della disciplina contrattuale collettiva da parte della sentenza impugnata, avendo ritenuto che il CCNL di settore imponesse, anche per il personale con funzioni di direzione esecutiva e di elevata professionalità, l'assunzione da parte della società subentrante senza patto di prova, o, in alternativa, la possibilità di non assumere tale personale.
Con il secondo motivo, invece, la società ricorrente denunciava la violazione dell'art. 2096 c.c., avendo erroneamente ritenuto generico il patto di prova di cui alla lettera di assunzione, che invece faceva esplicito riferimento al periodo di prova stabilito per i lavoratori inquadrati nel III livello dal CCNL di categoria.
Infine, con il terzo motivo, la ricorrente denunciava la violazione e/o falsa applicazione della L. 300/1970, art. 18 come novellato dalla L. n. 92/2012, lamentando che la sentenza impugnata avesse accordato la tutela reintegratoria sull'erroneo presupposto che il licenziamento fosse stato intimato per iscritto ma senza motivazione e quindi in assenza del fatto giustificativo del licenziamento. Secondo la società, infatti, il patto di prova era stato stipulato, pertanto, si poteva al più ritenere errata l'applicazione della disciplina collettiva, ma non l'insussistenza del fatto giustificativo del licenziamento. La società datrice lamentava anche l'eccessività della misura risarcitoria, quantificata in secondo grado in 12 mensilità, ritenendo più congruo, considerata la breve durata del rapporto, la misura minima di 6 mensilità. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo, la Suprema Corte riteneva infondato il primo motivo di impugnazione.
Secondo la Cassazione, infatti, la disciplina collettiva prevedeva chiaramente la possibilità di non assunzione del personale con funzioni di direzione esecutiva, stabilendo però che quest'ultimo, una volta decisane l'assunzione, non fosse soggetto all'effettuazione del periodo di prova.
I giudici di legittimità aggiungevano che “questa S.C. ha recentemente affermato che nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l'interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicché è illegittimamente stipulato ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni, ancorché diversamente denominate, e per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro o di un precedente datore di lavoro-appaltatore, titolare del medesimo appalto (Cass. sez. lav., 1° settembre 2015, n. 17371)”.
In merito al secondo motivo, la Corte rilevava che, ancorché teoricamente fondato, risultava recessivo rispetto al primo, che aveva chiarito che la società non potesse assumere in prova.
Infine, la Suprema Corte riteneva infondato anche il terzo motivo, non potendo ritenersi fatto giustificativo di un licenziamento un patto di prova nullo.
Spiegavano, infatti i giudici che “il licenziamento per mancato superamento di una prova inesistente è un licenziamento totalmente privo di giusta causa o di giustificato motivo, e giustifica dunque la tutela reintegratoria prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 (Cass. sez. lav., 3 agosto 2016, n. 16214)”.
Chiariva, a tal proposito, la Corte che, se le circostanze del caso concreto denotano la manifesta infondatezza del fatto addebitato, ai sensi dell'art. 18, comma 7, al giudice non è riconosciuto un potere discrezionale in ordine ai rimedi, ma deve applicare la reintegra.
Concludevano, quindi, i giudici di terzo grado evidenziando che, nel caso di specie, fosse evidente l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, poiché il mancato superamento di una prova insussistente rendeva irrimediabilmente inesistente la causale del recesso e che, pertanto, dovesse essere applicata la reintegra.
La Suprema Corte, perciò, rigettava il motivo e puntualizzava altresì che avrebbe dovuto essere corretta la motivazione della sentenza impugnata, essendo stato erroneamente applicato il novellato art. 18, comma 6, riguardante le violazioni formali inerenti l'irrogazione del licenziamento, pur aggravato dal dedotto difetto di giustificazione del licenziamento.
Sulla base di tali motivazioni, pertanto, la Corte respingeva il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite. Osservazioni
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha innanzitutto ribadito che il provvedimento espulsivo fondato sul mancato superamento di un patto di prova illegittimo deve ritenersi totalmente privo di giusta causa o di giustificato motivo.
I giudici di legittimità, partendo da tale considerazione e stabilendo, conseguentemente, l'applicazione della tutela reale ai sensi dell'art 18, comma 7, St. Lav., hanno altresì precisato il significato della predetta norma.
Il settimo comma dell'art. 18 novellato dalla L. n. 92/2012, infatti, prevede che il giudice possa (“Può altresì (…)”) applicare la disciplina di cui al quarto comma del medesimo articolo (ovverosia la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento all'effettiva reintegra, dedotto l'aliunde perceptum) nell'ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui venga accertato che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, invece, la stessa norma stabilisce che il giudice applichi la disciplina di cui al quinto comma (tutela solo indennitaria, nella misura di un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione).
La formulazione della norma ha impegnato i commentatori, in ragione dell'utilizzo del verbo “potere”, sin dall'entrata in vigore della L. n. 92/2012, in quanto potrebbe lasciare intendere che vi sia un'assoluta discrezionalità del giudice in ordine alla scelta tra la reintegrazione e l'indennità risarcitoria.
Proprio attenendosi ad un'interpretazione letterale della suddetta previsione, infatti, una parte della dottrina ha affermato che il giudice, una volta accertata la “manifesta insussistenza del fatto” posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, disporrebbe di un potere discrezionale di ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro (oltre alle misure risarcitorie previste dal quarto comma) piuttosto che la tutela indennitaria.
A tale interpretazione se n'è opposta un'altra, secondo cui, accertata la manifesta insussistenza del fatto che fonda licenziamento, il giudice deve necessariamente disporre la reintegrazione.
Tale incertezza interpretativa si è registrata, peraltro, anche nella giurisprudenza di merito, dove si sono succedute pronunce di segno opposto, con evidente rischio di minare la certezza del diritto della normativa (ex multis, in senso conforme al primo orientamento: Trib. Reggio Calabria, 3 giugno 2013; in senso conforme al secondo orientamento: Trib. Foggia, 11 settembre 2012; Trib. Rieti, 2 gennaio 2013; Trib. Varese, 4 settembre 2013, cit.; Trib. Roma, 19 marzo 2014).
Con la sentenza in commento, pertanto, la Suprema Corte si esprime in maniera netta proprio su tale aspetto, risolvendo le incertezze evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza e affermando che “deve in sostanza affermarsi che il principio "può altresì applicare" (di cui al comma 7 del novellato, dalla L. n. 92 del 2012, art. 18) deve interpretarsi nel senso che a fronte della inesistenza del fatto posto a base del licenziamento il giudice, tenuto conto degli elementi del caso concreto (…), applica la reintegra”.
La Corte, attraverso la sentenza n. 17528/2017 puntualizza, inoltre, che “la giuridica inesistenza del fatto obiettivo presupposto (a base del licenziamento), valutate altresì le circostanze del caso concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del giudice (id est che a fronte della manifesta infondatezza del fatto il giudice decida liberamente se applicare la reintegra o la tutela indennitaria), trattandosi di ipotesi del tutto differenti”.
Si deve, infine, evidenziare che i giudici di legittimità, dopo aver escluso ogni discrezionalità in capo al giudicante dinnanzi all'infondatezza del fatto posto alla base del licenziamento, hanno specificato che “nelle altre ipotesi di cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Pertanto, nella diversa ipotesi in cui il fatto addebitato non integri il giustificato motivo, sarà applicabile solo la tutela indennitaria.
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