Strumenti di vigilanza del datore di lavoro, limiti dei controlli difensivi e riservatezza del dipendente
24 Ottobre 2017
Massime
I controlli difensivi occulti sono tendenzialmente ammissibili, anche ad opera di personale estraneo all'organizzazione aziendale, in quanto diretti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l'interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.
Non è soggetta alla disciplina dell'art. 4, comma 2, St. Lav. l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale dalle quali non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori. Il caso
A seguito della condotta tenuta dal dipendente, il quale aveva sottratto prodotti dal magazzino del supermercato in nove occasioni nell'arco di sei giorni, la parte datoriale formulava una prognosi negativa circa il futuro adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro e procedeva ad una contestazione disciplinare adducendo l'inadempimento degli obblighi connessi alle mansioni di addetto alle vendite nonché alla custodia dei prodotti aziendali secondo i dovuti canoni di diligenza e lealtà. La contestazione risultava comprovata dalle riprese di una telecamera installata dal datore di lavoro allo scopo di individuare gli autori di sottrazioni di materiali, già manifestatisi in precedenza nei locali aziendali. La condotta tenuta dalla società, la quale aveva stipulato un apposito contratto con un'agenzia investigativa al fine di accertare gli autori dei comportamenti illeciti, integrava un'ipotesi di cd. controllo difensivo occulto, attuato con modalità non peculiarmente invasive, e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, non avendo ad oggetto l'attività lavorativa ed il suo esatto adempimento. Invero, la telecamera era stata installata nel locale magazzino dell'Ipermercato ove erano collocati i prodotti e le operazioni relative al magazzino non rientravano nell'ambito delle mansioni di competenza dei dipendenti, trattandosi di compiti affidati agli addetti di agenzie esterne. Pertanto, secondo il datore di lavoro, siffatta tipologia di controllo esulava dal campo di applicazione dell'art. 4, L. n. 300/70, dovendo ritenersi legittima e idonea a giustificare il licenziamento intimato per giusta causa in coerenza con i dettami di cui all'art. 191 c.c.n.l. di settore.
A fronte del licenziamento intimato, il dipendente proponeva ricorso al Tribunale di Terni.
La Corte d'Appello di Perugia, riformando la sentenza emessa dal giudice di prime cure in favore del lavoratore, accoglieva il reclamo proposto dalla società e rigettava le domande proposte dal dipendente tese a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare.
Il dipendente proponeva ricorso alla Corte di Cassazione affidato a due motivi. La questione
La pronuncia in esame è particolarmente interessante perché permette una riflessione sui limiti che devono presidiare il potere di vigilanza del datore di lavoro cui fa da contraltare il diritto alla riservatezza e autonomia del dipendente nello svolgimento del lavoro.
La tematica concerne in particolare i cd. "controlli difensivi", vale a dire quei controlli finalizzati non già a verificare l'esatto adempimento delle obbligazioni direttamente scaturenti dal rapporto di lavoro, ma a tutelare i beni del patrimonio aziendale e ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti. Si tratta del potere di vigilanza che il datore di lavoro pone in essere al fine di accertare il compimento di eventuali condotte contra ius da parte dei dipendenti, cioè di quei comportamenti suscettibili di mettere in pericolo la sicurezza dei lavoratori, il patrimonio aziendale ed il regolare e corretto svolgimento della prestazione lavorativa (Cass. sez. lav., n. 2722/2012 e Cass. sez. lav., n. 4746/2002). Le soluzioni giuridiche
Sembra opportuno analizzare in via preliminare il dato normativo di cui all'art. 4, L. n. 300/70, così come modificato dal D.Lgs. n. 151/2015, che ai primi due commi disciplina il legittimo utilizzo degli strumenti di controllo a distanza, mentre nel terzo ed ultimo comma detta le condizioni per il trattamento dei dati legittimamente raccolti, così da poter essere utilizzati per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, alla luce della disciplina del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice della privacy).
In particolare va precisato che il primo comma dell'art. 4, L. n. 300/70 concerne gli strumenti di controllo a distanza, cioè gli impianti e le apparecchiature di controllo funzionali ad esigenze organizzative e produttive ovvero alla sicurezza del lavoro, dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, prevedendo che possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. Invero, in difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del Lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti.
Sul punto preme, altresì, evidenziare che parte della dottrina ha condivisibilmente osservato la diversa posizione assunta dal lavoratore rispetto all'operatività degli strumenti di controllo, dal momento che l'art. 4 regolamenta sia i controlli afferenti a strumenti di lavoro, cioè quegli strumenti rispetto ai quali il dipendente è soggetto attivo poiché sono nella sua disponibilità operativa e da lui effettivamente utilizzati per lo svolgimento della prestazione (comma 2), si pensi in tal senso ad un account aziendale, sia quegli strumenti di controllo in senso stretto, ad esempio una telecamera, rispetto ai quali il lavoratore riveste una posizione meramente passiva (comma 1).
Procedendo nell'analisi dell'art. 4, L. n. 300/70, sembra opportuno evidenziare che la modifica legislativa operata dal D.Lgs. n. 151/2015 ha comportato il venir meno del divieto generale di utilizzare impianti audiovisivi ed altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, limitando l'operatività degli stessi soltanto per le finalità indicate dalla norma, e confermando l'illegittimità dei suddetti strumenti di vigilanza ove tesi esclusivamente a controllare la prestazione lavorativa. In particolare, la nuova formulazione dell'art. 4, se da un lato ha escluso la necessità dell'accordo sindacale o dell'autorizzazione ministeriale per l'utilizzo di strumenti che servono al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e per quelli di registrazione degli accessi e delle presenze, determinando così un'espansione dei poteri datoriali, dall'altro ha reso legittimi solo quei controlli datoriali finalizzati ad esigenze organizzative e produttive, alla sicurezza del lavoro o alla tutela del patrimonio aziendale, compendiato quest'ultimo, sia da beni materiali che immateriali.
In proposito, la Suprema Corte ha recentemente ribadito il principio secondo cui l'effettività del divieto di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori richiede che anche per i cd. controlli difensivi trovino applicazione le garanzie dell'art. 4, comma 2, L. n. 300/70, con la conseguenza che, se per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro può installare impianti o apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi all'attività lavorativa dei dipendenti, tali dati assumono un'efficacia limitata poiché non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale dei lavoratori medesimi (Cass. sez. lav., n. 19922/2016 e Cass. sez. lav., n. 16622/2012).
La portata del potere di vigilanza datoriale deve delinearsi alla luce del bilanciamento fra l'esigenza di controllo, da un lato, e la tutela della dignità e riservatezza dei lavoratori, dall'altro, così come si evince del terzo comma dell'art. 4, L. n. 300/70, che prevede l'utilizzabilità dei dati acquisiti anche a fini disciplinari previa informativa ai dipendenti in ordine alle modalità d'uso degli strumenti e all'effettuazione dei controlli, e fermo restando il rispetto delle disposizioni del D. Lgs. n. 196/2003. In tal modo, attraverso un'informativa scritta e documentata, gli strumenti di cui dispone il datore di lavoro si collocano nell'ambito di un rapporto lavorativo improntato alla trasparenza ed ispirato ai canoni di adeguatezza, proporzionalità e pertinenza del controllo. Sul punto la giurisprudenza ha precisato che il datore di lavoro può effettuare controlli mirati per verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, tra cui i pc aziendali, ma nell'esercizio di tale prerogativa, deve rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché, con riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali, i principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza ex art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 196/2003, poiché tali controlli possono determinare il trattamento di informazioni personali, anche non pertinenti, o di dati sensibili (Cass. civ., sez. III, n. 5525/2012 e Cass. civ., sez. I, n. 18443/2013).
Affrontando il caso in esame, la Suprema Corte ha rilevato che la quaestio iuris dei controlli datoriali è stata ampiamente scrutinata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, già nella vigenza del testo di cui all'art. 4, L. n. 300/1970, anteriore alla riscrittura disposta dall'art. 23 D.Lgs. n. 151/2015, ricordando, sul punto, che l'art. 4, L. n. 300/70 fa parte di una complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore (Cass. sez. lav., n. 8250/2000). In proposito, la Corte non ha mancato di richiamare quanto precisato nella Relazione ministeriale, e cioè che la vigilanza sul lavoro, sebbene necessaria nell'organizzazione produttiva, va mantenuta in una dimensione umana, e cioè non esasperata dall'uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro (Cass.sez. lav, nn. 10955/2015, 2722/2012, 15892/2007, 8250/2000).
Da quanto esposto finora emerge che l'interpretazione della materia dei controlli datoriali deve essere ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra il dettato costituzionale, che garantisce il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell'esercizio delle sue prestazioni, oltre al diritto dell'individuo al rispetto della propria persona ex artt. 1, 3, 35 e 38 Cost., e le esigenze organizzative dell'impresa accompagnate dalla relativa discrezionalità tecnica del datore di lavoro rispetto alle quali il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. (Cass. sez. lav., n. 24037/2013). Pertanto, modulando l'autodeterminazione dell'iniziativa economica imprenditoriale con il valore fondamentale della riservatezza del lavoratore, la Suprema Corte giunge ad affermare la tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi "occulti", anche ad opera di personale estraneo all'organizzazione aziendale, purché volti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, rispetto alle quali è necessario operare un contemperamento con l'interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa dell'organizzazione produttiva aziendale, rimanendo, in ogni caso, nell'ambito dei canoni generali di buona fede e correttezza nell'esecuzione contrattuale.
Con particolare riferimento alla tematica dei controlli difensivi, è opportuno osservare che parte della dottrina, a fronte della rilevanza penale della condotta posta in essere dal dipendente - (si pensi a titolo esemplificativo alle ipotesi di furto, truffa, danneggiamento, rissa, lesioni personali dolose e colpose) - evidenzia l'esigenza di una codificazione giurisprudenziale di una nuova tipologia di controlli a distanza difensivi che, fondandosi sull'antigiuridicità del comportamento controllato, più che sull'esigenza di tutela del patrimonio aziendale, esulino dal campo di applicazione dell'art. 4, L. n. 300/1970. Tale orientamento sembra condivisibile laddove ritiene la legittimità del controllo difensivo, anche in mancanza di autorizzazione negoziale o amministrativa, se effettuato mediante impianti il cui utilizzo è proporzionalmente orientato a scongiurare il rischio concreto di comportamenti del lavoratore di rilevanza penale posti in essere in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta, cioè, di un controllo esclusivamente finalizzato ad accertare lo stato dei fatti a fronte del concreto sospetto di un comportamento illecito, per il tempo a ciò strettamente necessario.
A riguardo, va notato che nel caso in esame la Suprema Corte, richiamando l'orientamento giurisprudenziale affermato in passato secondo cui l'adozione di strumenti di controllo a carattere "difensivo" non necessita tout court del preventivo accordo con le rappresentanze sindacali né di alcuna specifica autorizzazione, in quanto volto a prevenire condotte illecite suscettibili di mettere in pericolo la sicurezza del patrimonio aziendale ed il regolare, corretto svolgimento della prestazione lavorativa (Cass. n. 4647/2002), armonizza tale indirizzo con l'ulteriore principio in base al quale l'esigenza di evitare il compimento di condotte illecite da parte dei dipendenti, non può assumere una portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e della riservatezza del lavoratore. Invero, nella fattispecie sottopostale, la Corte, rilevando che la telecamera era stata installata nel locale magazzino, ove erano collocati i prodotti, e che le operazioni relative a tale luogo non rientravano nell'ambito delle mansioni di competenza dei dipendenti, trattandosi di compiti affidati agli addetti di agenzie esterne (cd. merchandiser), afferma che i giudici del gravame hanno correttamente ritenuto che l'attività di controllo posta in essere dalla parte datoriale non aveva ad oggetto l'attività lavorativa ed il suo corretto adempimento.
La Suprema Corte, osservando altresì che i controlli difensivi sono stati attuati con modalità non eccessivamente invasive ed sono stati ispirati dalla necessità di tutelare il patrimonio aziendale, conclude che l'attività posta in essere dal datore di lavoro si era posta al di fuori del campo di applicazione dell'art. 4, L. n. 300/1970. Osservazioni
A conclusione della disamina del caso sembra opportuno osservare che la fattispecie in esame si presenta per alcuni aspetti analoga ad un'altra recentemente scrutinata dalla giurisprudenza di legittimità, nella quale una telecamera di sorveglianza, preposta al controllo della cassaforte della società, aveva registrato una dipendente mentre sottraeva dalla stessa una busta contenete denaro. In tale ipotesi, l'oggetto della ripresa non solo non atteneva alla prestazione lavorativa, ma non differiva neppure da quella illecita posta in essere da qualsiasi soggetto estraneo all'organizzazione del lavoro. Pertanto, la Suprema Corte, vagliando i limiti di legittimità dei c.d. controlli difensivi, ha evidenziato che i suddetti controlli, ex art. 4, comma 2, L. n. 300/70, nel testo vigente all'epoca dei fatti, richiedono il previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna solo nel caso in cui da essi derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Invero, premessa la distinzione fra legittimità dell'installazione dell'impianto audiovisivo e utilizzazione dei dati raccolti, va sottolineato che nella versione antecedente alla modifica operata dal D.Lgs. n. 151/2015, il secondo comma dell'art. 4 consentiva l'installazione di impianti richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, anche quando potesse derivarne - al di là delle intenzioni dell'imprenditore - una possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa, ma affinché l'installazione potesse considerarsi legittima era necessario un previo accordo con le rappresentanze sindacali costituite nell'unità produttiva, oppure, in difetto di tale accordo, l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro.
Nel caso de quo, la Suprema Corte afferma il principio secondo cui non è soggetta alla disciplina dell'art. 4, comma 2, L. n. 300/70 l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale dalle quali non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori. Invero, nell'ottica del bilanciamento degli interessi delle parti, deve ritenersi superato l'orientamento secondo cui i controlli difensivi sono legittimi a prescindere dal loro grado di invasività, osservando che il c.d. "controllo preterintenzionale" è soggetto alle limitazioni stabilite dall'art. 4, L. n. 300/70, laddove la sorveglianza possa riguardare anche la prestazione dell'attività lavorativa e venga attuata con strumenti potenzialmente lesivi della sfera personale (Cass. sez. lav., n. 22662/2016).
Da ultimo, va rilevato che recentemente la tematica degli strumenti di controllo datoriali è stata oggetto di un interessante revirement da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Invero, la Corte EDU è stata chiamata a riesaminare il caso di un ingegnere rumeno che aveva utilizzato per fini personali e durante l'orario lavorativo l'account aziendale creato su Yahoo messanger per gestire le richieste dei clienti. Nel caso di specie, all'atto della firma del contratto di assunzione, era stato consegnato ai dipendenti il codice etico interno dell'azienda, che precisava il divieto di disturbare l'ordine e la disciplina all'interno dell'azienda, nonché di usare computer, telefoni, fotocopiatrici, fax e telefax per scopi personali. A riguardo, va rilevato che la Grand Chambre, ribaltando la precedente pronuncia, ha affermato che l'attività datoriale di monitoraggio dell'account aziendale - che aveva determinato il licenziamento del dipendente a causa dell'utilizzo della mail aziendale per fini privati - costituisce violazione dell'art. 8 della CEDU (CEDU, Caso Bărbulescu c. Romania, ric. n. 61496/08 del 5 settembre 2017, v. Mail aziendale per fini personali: il bilanciamento tra privacy del dipendente e interessi del datore).
Di diverso avviso l'orientamento prospettato dalla Corte EDU nella pronuncia precedente, la quale rilevava che le mail aziendali, così come le telefonate e l'utilizzo di internet dal luogo di lavoro rientrano nel campo di applicazione dell'art. 8 CEDU, che risulta violato solo in assenza di una espressa comunicazione al lavoratore circa il controllo su tali strumenti. In quell'occasione la Corte, osservando che l'uso degli strumenti di controllo deve essere ispirato ad un giusto equilibrio fra il diritto del datore di lavoro alla verifica dell'esatto adempimento dell'obbligazione e quello del lavoratore concernente la riservatezza delle comunicazioni personali sulla base dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, aveva concluso per la legittimità del controllo datoriale nell'esercizio dei suoi poteri disciplinari, ad accedere alle comunicazioni personali del dipendente effettuate con strumenti aziendali. Invero, il controllo della posta elettronica relativa all'attività professionale, pur rappresentando un'ingerenza nel diritto alla riservatezza del lavoratore, non costituiva violazione dell'art. 8 CEDU perché espletata su un account utilizzato dal dipendente per ragioni di servizio, su richiesta del datore di lavoro e in maniera tale da non sfociare in un abuso delle informazioni private (CEDU, Caso Bărbulescu c. Romania, ric. n. 61496/08 del 12 gennaio 2016, v. Mail aziendale per fini personali: la CEDU dichiara legittimo il controllo del datore di lavoro).
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