Insubordinazione o alterco: il diverso regime giuridico alla luce del principio di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione
12 Dicembre 2017
Massima
Non costituisce giusta causa di licenziamento la condotta che il contratto collettivo punisce con una sanzione conservativa: nel caso di specie è stato dichiarato illegittimo il licenziamento del dipendente che abbia avuto un diverbio (con ingiuria) con il superiore prima di prendere servizio. Il caso
Un dipendente era stato sanzionato con il licenziamento disciplinare poiché, all'esito di un diverbio - avvenuto di fronte alla macchinetta del caffè pochi minuti prima dell'inizio del turno di lavoro - aveva rivolto un'espressione offensiva nei confronti del superiore gerarchico. Secondo la società datrice di lavoro il comportamento del lavoratore aveva integrato un episodio di insubordinazione tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia, a causa di una precedente recidiva concernente la medesima mancanza (insubordinazione) in un correlato episodio, il che, secondo quanto previsto dalla clausola del c.c.n.l. di settore, autorizzava la sanzione espulsiva.
La Corte d'appello di Roma, in totale riforma della sentenza di rigetto della domanda del lavoratore emessa dal Tribunale di Velletri, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato, ordinando la reintegra di quest'ultimo nel posto di lavoro ex art. 18 L. n. 300 del 1970, con le relative conseguenze economiche.
La società datrice di lavoro proponeva ricorso in Cassazione denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 38 parte prima, norme generali, sezione seconda, del c.c.n.l. riguardante il settore dell'industria della carta e del cartone, nonché degli artt. 2106, 2119, 2697 c.c., art. 7, L. n. 300/1970, art. 30 L. n. 183/2010 e artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale degradato a mero alterco non seguito da vie di fatto la condotta addebitata al lavoratore, che all'esito di un diverbio aveva rivolto al suo superiore un'espressione ingiuriosa. Ad avviso della società il comportamento del lavoratore si era sostanziato in un'insubordinazione tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia, non già in un semplice diverbio. La questione
La pronuncia in esame risulta di particolare interesse perché ribadisce alcuni importanti principi giuridici in materia di licenziamento disciplinare in ordine all'applicabilità delle sanzioni conservative o espulsive.
Le soluzioni giuridiche
In primo luogo va rilevato che ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, spetta al giudice del merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro. A riguardo, bisogna precisare che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo rispetto all'illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., con la conseguenza che l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solo alla luce di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali o comunque tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto lavorativo (Cass. sez. lav., nn. 25743/2007 e 21912/2010).
Sul punto è opportuno evidenziare che il limite della valutazione in ordine alla lesività del comportamento si compendia, alla luce dei principi costituzionali, nel bilanciamento dell'interesse del lavoratore, tutelato dall'art. 4 Cost. con quello datoriale di cui all'art. 41 Cost., in ragione del quale la condotta del dipendente va analizzata con riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà (Cass. sez. lav., n. 22236/2007).
Va precisato che, anche qualora la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice, investito dell'impugnativa della legittimità del licenziamento, deve comunque verificare l'effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore; infatti, la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento, motivato dalla ricorrenza di una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, non può conseguire automaticamente dal mero riscontro della corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, ma occorre sempre che quest'ultima sia riconducibile alla nozione di giusta causa, tenendo conto della gravità della condotta concretamente tenuta dal dipendente, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo. Tale principio risulta operante altresì nel caso in cui manchi una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le ipotesi specifiche elencate dal contratto collettivo, di cui il datore di lavoro faccia valere il valore meramente esemplificativo.
A riguardo la Suprema Corte ha affermato che la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore cui si applichi l'art. 221 c.c.n.l. del terziario, motivato dalla ricorrenza dell'ipotesi del "diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell'attività aziendale" - contemplata dall'indicata norma contrattuale fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa - deve essere effettuata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione (che non può non basarsi sulla ricostruzione della condotta fin dal momento immediatamente precedente e da quello iniziale dell'avvenuto passaggio alle vie di fatto), sia quando si riscontri l'astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, sia a maggior ragione ove manchi una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le ipotesi esemplificative specifiche elencate dal contratto collettivo, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenuto conto della gravità del comportamento del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c. (Cass. sez. lav., n. 5280/2013).
In proposito, va rilevata la differenza ontologica che intercorre tra l'insubordinazione, consistente nel rifiuto di eseguire un ordine legittimo impartito da un superiore, - rifiuto che va valutato alla luce della rispondenza all'obbligo di diligenza e buona fede del lavoratore -, dall'alterco senza vie di fatto, quale illecito disciplinare a seguito del quale è stato intimato il licenziamento nel caso di specie. Secondo la giurisprudenza, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di aver criticato i vertici aziendali, ma affinché le critiche possano integrare giusta causa , è necessario che travalichino i limiti della correttezza e che il comportamento del lavoratore si traduca in un atto illecito, quale l'ingiuria o la diffamazione, o comunque in una condotta manifestamente riprovevole. Ne consegue che solo ove sussista un livello di gravità necessaria e sufficiente a compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, così da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, si realizzano i presupposti per addivenire al provvedimento disciplinare del licenziamento (Cass. sez. lav., n. 775/2005).
A riguardo va precisato che l'insubordinazione si sostanzia in una nozione più ampia rispetto al semplice rifiuto di adempiere, compendiando un comportamento violativo ad un tempo sia del dovere di diligenza ex art. 2104 c.c., sia del vincolo fiduciario che connota il rapporto di lavoro così come precisato dall'art. 2105 c.c. Sul punto, parte della giurisprudenza in passato ha osservato che al fine di qualificare l'insubordinazione va considerata altresì l'eventuale provocazione subita dal lavoratore (Cass. sez. lav., n. 11706/2000). In particolare, la Suprema Corte ha affermato che nella controversia concernente la validità di un licenziamento intimato per insubordinazione del lavoratore, consistita nel rifiuto di svolgere le nuove mansioni affidategli dal datore di lavoro, ove il dipendente deduca l'illegittimo esercizio dello ius variandi in relazione all'art. 2103 c.c., con ciò formulando un'eccezione di inadempimento nei confronti della controparte, il giudice adito deve procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando in primo luogo la correttezza dell'operato del datore di lavoro in relazione all'eventuale illegittimità dell'esercizio dello ius variandi e, tenendo conto della rispondenza a buona fede del comportamento del lavoratore, occorrendo valutare il rifiuto di quest'ultimo, alla luce dell'obbligo di correttezza ex art. 1460 c.c. (Cass. sez. lav., n. 2948/2001).
Per quanto concerne l'alterco, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che in tema di licenziamento ontologicamente disciplinare, il principio cardine della materia deve essere individuato nella proporzionalità oggettiva e soggettiva. Ne consegue che un violento alterco in orario di lavoro tra dipendenti non può di per sé giustificare il licenziamento ove i fatti siano avvenuti in luogo non aperto al pubblico e senza testimoni e la reazione fisica si sia risolta in tempi brevissimi, senza provocare danni e senza determinare uno specifico turbamento dell'attività lavorativa. (Trib. Roma, 12 marzo 2002).
Il fil rouge della sentenza sembra potersi rinvenire nei principi dell'inderogabilità in pejus e della derogabilità in melius della legge da parte della contrattazione individuale e collettiva, nonché nel dovere del giudice del merito di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell'art. 2106 c.c. e di rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative. La Suprema Corte evidenzia come risulti sottratta all'interprete l'operazione inversa, vale a dire quella consistente nell'ampliamento del catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti, con la conseguenza che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l'autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative. Quanto affermato chiarisce ulteriormente l'esatto valore giuridico che assumono le clausole contenute nei c.c.n.l. - i quali spesso contengono un'elencazione delle possibili condotte illegittime del lavoratore e la correlativa la sanzione disciplinare irrogabile - ed il quantum di efficacia che sono capaci di dispiegare nei rapporti di lavoro. In proposito, alla luce del principio di inderogabilità in pejus della legge da parte della contrattazione, deve osservarsi che ove le parti abbiano stabilito un trattamento più favorevole per il lavoratore, prevedendo sanzioni conservative per condotte astrattamente sanzionabili con il licenziamento, tale previsione non risulta superabile dall'interprete. Laddove invece la deroga pattizia alla legge si risolva in un trattamento in pejus per il lavoratore, risultando il medesimo esposto alla sanzione del licenziamento a fronte di condotte astrattamente sanzionabili con misure conservative, la clausola deve ritenersi nulla e non vincolante per il giudice.
Sul punto giova sottolineare il costante l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui in materia di licenziamento disciplinare, deve escludersi che, ove un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa formare oggetto di un'autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che non accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. sez. lav., nn. 9223/2015, 13353/2011, 1173/1996). Tuttavia, va notato che in presenza di un'aggressione particolarmente grave che sia foriera di serie conseguenze pregiudizievoli, tra cui uno stravolgimento dei ritmi di lavoro aziendali, la giurisprudenza legittima la misura espulsiva nonostante la previsione meramente conservativa del contratto collettivo (Cass. sez. lav, n. 9223/2015). In tali ipotesi, secondo la Suprema Corte le parti contrattuali, nel prevedere una sanzione conservativa in caso di alterchi con vie di fatto negli edifici della società, non hanno inteso escludere la sanzione espulsiva quando vi siano state serie conseguenze, insistito malanimo, grave stravolgimento dell'ordinario ritmo di lavoro. Osservazioni
A conclusione della disamina del caso deve ritenersi - alla stregua di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato - che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia tale in concreto da giustificare o meno la sanzione disciplinare espulsiva (Cass. sez. lav., 6569/2009, 20221/2007).
In particolare, la Suprema Corte ha precisato che le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, doveri che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono quelli imposti dagli art. 2104 e 2105 c.c. e, specificatamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali - la cui vigenza equivale per un soggetto preposto ad una filiale di un istituto di credito, quanto all'onere di conoscerle, alle norme di comune prudenza ed a quelle del codice penale - comportano che, ai fini della legittimità del provvedimento irrogativo di un licenziamento disciplinare, non è necessario indicarle nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di un'esplicita specificazione delle norme violate (Cass. sez. lav., n. 17366/2015).
Sul punto è opportuno notare che in tema di licenziamento per giusta causa, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli art. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore per il compimento di atti di violenza nei confronti della moglie, anch'ella socia della società, all'interno del luogo di lavoro) (Cass. sez. lav., n. 2550/2015).
A riguardo va osservato che, secondo la giurisprudenza, anche le mancanze non contestate possono assumere rilievo, ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla mancanza ritualmente contestata, come circostanze confermative della gravità di quest'ultima, in quanto l'iniziale tolleranza del datore di lavoro rispetto a mancanze precedenti non implica una sua acquiescenza che preclude la futura contestazione di una condotta analoga che è stata reiterata dal dipendente (Cass. sez. lav., n. 1505/1995). Invero, parte della dottrina rileva che l'inerzia iniziale accompagnata dalla maggiore severità successiva da parte del datore di lavoro possa spiegarsi con l'abbassamento del limite entro il quale il datore può essere portato a tollerare la ripetizione di condotte antigiuridiche dei propri dipendenti.
Da ultimo, sembra interessante rilevare che in un caso analogo a quello in esame, la Suprema Corte ha statuito che le espressioni irriguardose, ma non minacciose, rivolte dal dipendente all'amministratore della società, sono da valutarsi nel complessivo contesto in cui vengono pronunciate caratterizzato da un alterco intervenuto fra i due e, se effetto di una reazione emotiva ed istintiva del lavoratore ai rimproveri ricevuti, viene meno l'ascrivibilità ad una ipotesi di vera e propria insubordinazione e, comunque, alla particolare gravità contrattualmente richiesta per potersi fare applicazione della sanzione punitiva (Cass. sez. lav., n. 6569/2009). In altre parole, in tale ipotesi, la giurisprudenza ritiene giustificabili le condotte del lavoratore in relazione al contesto di tensione nel quale si sono manifestate, reputandole non idonee ad incidere in modo significativo sul rapporto di lavoro, confermando così la ratio sottesa alla tematica in esame, vale a dire il principio di proporzione fra la gravità dell'illecito disciplinare addebitato al lavoratore e la relativa sanzione.
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