Divieto di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: il rilievo dell'unitarietà iniziale
23 Maggio 2019
Massima
I risultati delle intercettazioni disposte nell'ambito di un procedimento non possono essere utilizzate ai fini della prova di reati relativi a fatti storicamente diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova sia stato autorizzato, anche se emersi dallo svolgimento delle stesse intercettazioni, essendo oggetto di procedimenti da ritenersi diversi “in senso sostanziale”, salvo che tra i fatti-reato, pur storicamente differenti, sussista una connessione ex art. 12 c.p.p. o, comunque, un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico, che vale a ricondurre ad unitarietà i procedimenti. Il caso
La Corte di Appello di Napoli confermava la pronuncia di condanna del Tribunale di Napoli nei confronti degli imputati per il reato di cui al art. 291-quater d.P.R. 43/1973, perché si associavano al fine di commettere una serie indeterminata di reati in materia di contrabbando di tabacchi lavorati esteri. Avverso questa decisione, gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo, tra l'altro, l'inutilizzabilità delle intercettazioni per la violazione degli artt. 266, 270 e 371 c.p.p. e dell'art. 15 Cost. Al riguardo, hanno rilevato che, nel corso delle indagini, erano state disposte intercettazioni, essendo emersi gravi elementi indiziari dei delitti di usura ed estorsione, aggravati dall'art. 7 della legge n. 203 del 1991. Dalle captazioni, tuttavia, era risultata la prova di una diversa ipotesi criminosa, concernente la violazione delle norme doganali. I risultati di queste intercettazioni non avrebbero potuto essere utilizzati in forza della disciplina di cui all'art. 270 c.p.p. per la prova di quelle fattispecie (ovvero, nella specie, il reato di cui all'art. 291-quater cit.) per le quali le intercettazioni non erano state originariamente autorizzate. Secondo la prospettazione della difesa, in particolare, in assenza di connessione ex art. 12 c.p.p. tra i procedimenti o di collegamento investigativo e/o probatorio ai sensi dell'art. 371-bisc.p.p., cioè, dei presupposti che permettono di ravvisare uno stesso procedimento, il divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270 c.p.p. non potrebbe essere superato, neppure per procedimenti contraddistinti dal medesimo numero di notizia di reato, perché, altrimenti, sarebbero aggirati meccanismi di garanzia che fondano la loro origine nell'art. 15 Cost. Sarebbe irrilevante, infatti, la successiva assegnazione dello stesso numero di procedimento originario anche alle indagini per il delitto di cui all'art. 291-quater d.P.R. 43/1973, in mancanza di un nesso probatorio o finalistico tra il procedimento che ha ad oggetto tale reato e quello relativo all'ipotesi di usura ed estorsione nel corso del quale le intercettazioni erano state autorizzate. Relativamente all'associazione di cui all'art. 291-quater cit., inoltre, non sarebbe consentito l'arresto obbligatorio in flagranza, sicché non sussisterebbe il presupposto richiesto dall'art. 270, comma 1, c.p.p. per l'utilizzo delle captazioni Più specificamente, secondo i ricorrenti, la Corte di appello avrebbe aderito all'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia disposto per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sarebbero utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, pur in assenza di nesso probatorio o finalistico tra le vicende criminose. Al fine di respingere l'eccezione di inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, pertanto, la Corte territoriale avrebbe esclusivamente considerato il dato formale dell'identità del numero del procedimento, in relazione al quale sono state autorizzate le intercettazioni. In tal modo, la decisione di merito si sarebbe posta in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, secondo cui, al fine di individuare lo stesso procedimento occorre prescindere da dati formali. La questione
L'art. 270, comma 1, c.p.p. stabilisce che «i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza». Quali sono i presupposti richiesti dalla legge per ritenere che i procedimenti sono diversi? Assume un rilievo il profilo formale (cioè, la sussistenza dello stesso numero di notizia di reato) oppure occorre riferirsi solo ad una valutazione di natura sostanziale, secondo cui la "diversità" va collegata al dato dell'insussistenza, tra i due fatti - reato, storicamente differenti, di una connessione exart. 12 c.p.p. o anche di un collegamento puramente investigativo ex art. 371c.p.p. e, quindi, all'esistenza di un nesso meramente fattuale ed occasionale tra i procedimenti? Ai fini del giudizio in esame, rileva l'originaria unitarietà del procedimento, magari successivamente, a seguito di provvedimento di separazione, frazionato in più tronconi? Le soluzioni giuridiche
1. Le intercettazioni telefoniche oggetto del giudizio, dunque, sono state disposte in relazione alle ipotesi di reato di usura ed estorsione, originariamente ipotizzate nei confronti di uno degli imputati. Dall'ascolto delle conversazioni captate, sono emersi elementi indiziari concernenti la diversa ipotesi del reato associativo di cui all'art. 291-quater d.P.R. 43/1973, addebitato ai ricorrenti.
2. Ciò posto, la Corte ha rilevato che l'assunto posto a base della sentenza di condanna oggetto del ricorso per cassazione riposa sul ragionamento per cui, ogniqualvolta, all'interno del procedimento instaurato per il reato per il quale sono state disposte le intercettazioni emergano altri reati, diversi dal primo, per i quali nessuna intercettazione sia stata autorizzata, gli esiti captativi ben potrebbero ugualmente essere utilizzati, perché anche i successivi reati farebbero parte del “medesimo procedimento”. Trattandosi dello stesso procedimento, più specificamente, nessun rilievo avrebbe la verifica delle condizioni di applicabilità dell'art. 270 c.p.p. che disciplina l'utilizzabilità in caso di diversità dei procedimenti.
3. Il collegio non ha condiviso questa impostazione. La Corte di appello, infatti, al fine di definire quando il procedimento è il medesimo ha fatto applicazione di un criterio formale in base al quale ha ritenuto come unico un procedimento contrassegnato sempre dal medesimo numero per una scelta del pubblico ministero. La giurisprudenza di legittimità, invece, ha costantemente privilegiato un diverso criterio “sostanziale”, non collegabile al dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato, essendosi affermato che, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p. il concetto di diverso procedimento va collegato al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione a una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell'ambito di altro, differente, procedimento (tra le altre, Cass. pen., Sez. IV, n. 7320/2010; Cass. pen., Sez. IV, n. 4169/2008, dep. 2009).
4. All'applicazione del descritto criterio sostanziale, l'indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità individua un unico limite, rappresentato dalla sussistenza, tra i due fatti-reato, pur storicamente differenti, di un ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p. o comunque di collegamento ex art. 371,comma 2, lett. b) e c), c.p.p., sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico. La connessione o il collegamento probatorio, difatti, valgono a ricondurre ad unitarietà i due procedimenti formalmente distinti (Cass. pen.,Sez. III, n. 2608/2015; Cass. pen.,Sez. II, n. 43434/2013; Cass. pen.,Sez. VI, n. 46244/2012; Cass. pen., Sez. VI, n. 11472/2009).
5. Con riferimento all'ipotesi di collegamento probatorio, peraltro, nel caso contemplato dall'art. 371, comma 2, lett. c), c.p.p. in cui la prova dipenda dalla medesima fonte, la sussistenza di un medesimo procedimento può essere riconosciuta solo limitatamente alle intercettazioni legittimamente autorizzate nel medesimo procedimento, quantunque per le notizie di reato che vengano, di volta in volta, acquisite. Diversamente ragionando, infatti, e presupponendosi sempre e comunque come "stessa fonte" di prova l'intercettazione eseguita in un procedimento ed utilizzandola, quindi, indiscriminatamente nei diversi procedimenti, sarebbe eluso il divieto di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p., rendendo sempre possibile l'utilizzo delle captazioni nel diverso procedimento fondato sulle risultanze delle medesime intercettazioni (così, Cass. pen., Sez. III, n. 2608/2015, cit.; Cass. pen., Sez. III, n. 33598/2015).
6. La "lettura" in senso sostanziale della nozione di procedimento è stata avallata, seppur in via incidentale, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a risolvere la questione se, in tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata, costituente di per sé condotta criminosa, possa essere qualificata corpo del reato e sia come tale utilizzabile. La Corte ha affermato, condividendo il prevalente orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che la nozione di "diverso procedimento" va ancorata ad un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, considerandosi decisiva, ai fini della individuazione della identità dei procedimenti, l'esistenza di una connessione tra il contenuto della originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, ed i reati per i quali si procede sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (Cass. pen., Sez. Unite,n. 32697/2014).
7. Secondo la Corte, inoltre, non è ravvisabile un contrasto tra l'indirizzo giurisprudenziale accolto e quello espresso da altre pronunce nelle quali si afferma che, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all'interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili, “senza alcun limite”, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento. Anche questo orientamento, infatti, ribadisce che, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 c.p.p. e, cioè, l'indispensabilità e l'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (tra le altre, Cass. pen., Sez. VI, n. 31984/2017; Cass. pen., Sez. VI, n. 50261/2015; Cass. pen., Sez. II, n. 9500/2016; Cass. pen., Sez. IV n. 29907/2015).
8. Sulla base di questi principi, la Corte ha ritenuto che le intercettazioni disposte nell'ambito dell'originario procedimento iscritto in relazione ai reati di usura ed estorsione non potessero essere utilizzate ai fini della prova riguardante il reato di cui all'art.291-quaterd.P.R.43/1973 oggetto di procedimento sostanzialmente distinto. La mancata previsione dell'arresto obbligatorio in flagranza per questo reato, inoltre, preclude il recupero dei risultati delle intercettazioni nel procedimento diverso ai sensi dell'art. 270 c.p.p. Avendo dunque la sentenza impugnata essenzialmente fondato la prova del reato ascritto agli imputati, come desumibile dalla lettura della motivazione, sulle intercettazioni telefoniche inutilizzabili, la Corte ha annullato la stessa con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello. Osservazioni
1. La sentenza si segnala per lo sforzo di definizione dell'area operativa del divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p. Essa ribadisce che è irrilevante il profilo formale, rappresentato dal fatto che a notizie di reato relative a fatti storici differenti sia stato assegnato il medesimo numero di notizia di reato, dovendo farsi ricorso ad una valutazione sostanziale in base alla quale l'identità del procedimento è ravvisabile solo nel caso in cui tra i fatti – reato sussistano ragioni di connessione ex art. 12 c.p.p. o di collegamento di cui all'art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p. Nel contempo, si segnala perché esclude la sussistenza di un contrasto tra questo indirizzo giurisprudenziale e quello espresso da altre pronunce nelle quali è affermata l'utilizzabilità “senza alcun limite” dei risultati delle intercettazioni per tutti i reati relativi al medesimo procedimento emersi dalle captazioni. Per apprezzare pienamente il senso di queste affermazioni, peraltro, occorre procedere con ordine, seguendo il percorso della motivazione.
2. La Corte, innanzi tutto, ha rilevato che,nella giurisprudenza della Corte di cassazione, è consolidato l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, al fine di definire quando ricorre la diversità tra il procedimento nel quale sono state disposte le intercettazioni e quello nel quale s'intenda utilizzarne i risultati (o, a contrario, quando si versa nell'ambito del medesimo procedimento), occorre privilegiare un criterio di natura sostanziale. Ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p., infatti, il concetto di procedimenti diversi va collegato al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell'ambito di altro, differente, procedimento (cfr., tra le altre, Cass. pen., n. 1972 del 16/05/1997; Cass. pen., n. 46075/2004; Cass. pen., n. 4169/2008, dep. 2009; Cass. pen., n. 7320/2010). Alla stregua di questa impostazione, l'indirizzo prevalente specifica che la diversità dei procedimenti non è desumibile, né dalla diversità dei reati (cfr., tra le altre, Cass. pen., n. 1972/1997; Cass. pen., n. 14595/1999), né dal dato puramente formale del numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (cfr., tra le altre, Cass. pen., n. 46075/2004; Cass. pen., n. 9579/2004), dovendo farsi riferimento al contenuto della notizia di reato, ossia al fatto storico in relazione al quale sono in corso le indagini necessarie all'esercizio dell'azione penale. Risulta ormai superata la tesi che esclude la diversità del procedimento quando la nuova fattispecie di reato, anche a carico di persona diversa, emersa da un'operazione di intercettazione disposta allo scopo di perseguirne un'altra, sia sottoposta a indagine cumulativamente (o, semplicemente, successivamente giudicata in modo cumulativo) (cfr., Cass. pen., n. 10827/1986), perché l'applicazione del regime in esame dipenderebbe dalla separazione ovvero dalla riunione dei processi e, cioè, da un evento accidentale. È analogamente superato l'orientamento che equipara la nozione di procedimento a quella di reato, di modo che la disciplina dell'art. 270 c.p.p. dovrebbe essere applicata ogni qual volta dall'intercettazione emerga un reato ulteriore a quello per cui è stata concessa l'autorizzazione ex art. 267 c.p.p., ferma restando, in ogni caso, l'utilizzabilità del dato captato quale notitia criminis (Cass. pen., n. 2451/1978, dep. 1979).
3. La lettura “in senso sostanziale” della nozione di procedimento è stata recepita, seppur in via incidentale, anche le Sezioni unite della Corte di cassazione. In questa pronuncia, la Corte ha affermato che la nozione di “diverso procedimento” va ancorata ad un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, come il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, considerandosi decisiva, invece, ai fini della individuazione della identità dei procedimenti, l'esistenza di una connessione tra il contenuto della originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, ed i reati per i quali si procede sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico (Cass. pen., Sez. Unite, n. 32697/2014). Le Sezioni Unite, peraltro, erano state chiamate a risolvere la questione se, in tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata, costituente di per sé condotta criminosa, potesse essere qualificata “corpo del reato” e fosse come tale utilizzabile nel giudizio. A questo quesito è stata data una risposta positiva. Ne consegue che una captazione ritenuta inutilizzabile ai sensi dell'art. 270 c.p.p., potrebbe essere recuperata, sussistendone i presupposti, come “corpo del reato”, se integra essa stessa una condotta illecita.
4. Un limite all'operatività del criterio sostanziale illustrato riguarda il procedimento relativo a fatti – reato storicamente differenti, ma legati da una “stretta connessione” o da un “collegamento sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico” (Cass. pen., n. 2135/1994; Cass. pen., n. 11472/2009; Cass. pen., n. 46244/2012; Cass. pen., n. 28516/2018). La connessione o il collegamento permette di ritenere che il procedimento rimane lo stesso, nonostante la formale separazione. A tal proposito, più precisamente, si è fatto riferimento alle ipotesi in cui tra i reati sussista una connessione rilevante ai sensi dell'art. 12 c.p.p. o un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p. (Cass. pen., n. 11472/2009; Cass. pen., n. 2608/2015).
5. La pronuncia in esame, tuttavia, precisa che la portata unificante del collegamento di cui all'art. 371, comma 2, lett. c), c.p.p., che concerne l'ipotesi in cui la prova di più reati “deriva, anche in parte, dalla stessa fonte” è più limitata, fino a venire sostanzialmente meno. Essa, infatti, deve essere circoscritta alle sole intercettazioni legittimamente autorizzate nel medesimo procedimento. La soluzione offerta appare certamente apprezzabile. Infatti, diversamente ragionando, e presupponendosi sempre e comunque come “stessa fonte” l'intercettazione eseguita in un procedimento ed utilizzandola indiscriminatamente in procedimenti diversi, sarebbe inevitabilmente eluso il divieto di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p. (Cass. pen., n. 33598/2015). Questo profilo integra un punto importante della decisione, in quanto da esso dipende l'effettività del divieto di cui all'art. 270 c.p.p., che sarebbe facilmente aggirabile. Nel contempo, costituisce anche un profilo critico della sentenza perché conduce a ritenere che anche quando il procedimento è rimasto unitario e non è stato oggetto di frazionamento l'utilizzazione delle intercettazioni per la prova delle diverse fattispecie di reato emerse dipende dalla sussistenza di ragioni di connessione o di collegamento finalistico. A maggior ragione poi, se il procedimento è stato frazionato – e dunque anche formalmente ha assunto un nuovo numero – non basta che la prova derivi dalle stesse intercettazioni per superare il divieto di cui all'art. 270 c.p.p.
6. Ed infatti, proseguendo nel suo percorso motivazionale, la Corte si confronta con l'indirizzo emerso nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all'interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili, “senza alcun limite”, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento (Cass. pen., n. 50261/2015; Cass. pen., n. 49745/2012; Cass. pen., n.29907/2015; Cass. pen., n. 53418/2014; Cass. pen., n. 41317/2015; Cass. pen., n. 9500/2016; Cass. pen., n. 31984/2017). Secondo la decisione in esame, questo orientamento non si porrebbe in contrasto con il descritto criterio sostanziale in base al quale si deve valutare quando ricorre lo stesso procedimento. Anche queste decisioni, infatti, riaffermano che, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 c.p.p. e, cioè, l'indispensabilità e l'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (Cass. pen., n. 31984/2017; Cass. pen., n. 50261/2015; Cass. pen., n. 9500/2016; Cass. pen., n. 29907/2015). In assenza di connessione ex art. 12 c.p.p. tra i procedimenti o di collegamento investigativo e/o probatorio ai sensi dell'art. 371-bisc.p.p., cioè, dei presupposti che permettono di ravvisare uno “stesso procedimento” in senso sostanziale, dunque, il divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270 c.p.p. non potrebbe essere superato, neppure se le intercettazioni originariamente erano state autorizzate in un procedimento, magari poi separato per l'eterogeneità dei fatti - reato. L'unitarietà iniziale, insomma, non vale a superare il divieto di utilizzazione di cui all'art. 270 c.p.p., sia stato o meno frazionato tale procedimento relativo ad ipotesi accusatorie eterogenee. Sottesa a questa ricostruzione si coglie uno sforzo apprezzabile volto ad evitare l'aggiramento del meccanismo di garanzia di cui all'art. 270, comma 1, c.p.p., che fonda la sua origine nell'art. 15 Cost. L'art. 270 c.p.p., invero, costituisce l'attuazione in via legislativa del bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti: il diritto dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e l'interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio coloro che delinquono (cfr. Corte cost. n. 391/1991).
7. Quest'ultimo passaggio della motivazione, invero, appare molto significativo, perché rivolto a ricondurre ad unità l'elaborazione giurisprudenziale in tema di divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi. Viene ribadito che bisogna accedere ad una nozione sostanziale di procedimento al fine di ravvisare l'unitarietà. Il criterio formale dell'assegnazione a notizie di reato derivanti da diversi fatti storici dello stesso numero è del tutto irrilevante. La ricostruzione della giurisprudenza di legittimità proposta dalla decisione in esame, tuttavia, nella parte in cui esclude la sussistenza di un conflitto tra gli indirizzi illustrati, non è unanimemente riconosciuta. Di recente, infatti, è stato posto al vaglio delle Sezioni unite, proprio il tema in esame. Con ordinanza della Cass. pen., Sez. VI, n. 11160/2019 (depositata il 13 marzo 2019), è stato sottoposto alle Sezioni unite il seguente quesito: Se il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all'art. 270 c.p.p., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione. La decisione, attesa per il mese di giugno, sembra l'occasione per una definitiva puntualizzazione della disciplina dell'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, magari fondata sul recupero della ratio costituzionale del divieto di cui all'art. 270 c.p.p. |