Deroghe al diritto comune per le società in house: la straordinaria amministrazione permane in capo agli amministratori

13 Novembre 2018

La modifica apportata allo statuto della società per azioni che limita i poteri dell'organo amministrativo alla sola amministrazione ordinaria, si pone in contrasto con l'art. 2380-bis c.c., in quanto va ben oltre le facoltà di deroga consentite dall'art. 16 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica).
Massima

La modifica apportata allo statuto della società per azioni che limita i poteri dell'organo amministrativo alla sola amministrazione ordinaria, si pone in contrasto con l'art. 2380-bis c.c., in quanto va ben oltre le facoltà di deroga consentite dall'art. 16 d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica).

Il caso

Il Tribunale di Roma si è pronunciato sulla legittimità delle modifiche apportate allo statuto di una società in house - interamente partecipata dal Comune e operante nel settore dei servizi pubblici - volte a limitare i poteri degli amministratori al compimento dei soli atti di amministrazione ordinaria.

La sezione specializzata in materia di impresa conclude per la contrarietà della predetta modifica statutaria all'art. 2380-bis c.c., atteso che eccede illegittimamente i limiti della deroga introdotta dall'art. 16 del d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175 (Testo Unico società a partecipazione pubblica).

Le questioni giuridiche

La tematica fondamentale sottesa alla pronuncia in esame concerne l'ampiezza delle deroghe ammissibili all'interno degli statuti delle società in house previste dal Testo Unico delle società a partecipazione pubblica, attuativo della c.d. Riforma Madia del 2015.

In particolare, viene in rilievo l'art. 16 del d.lgs. 175/2016 che, insieme all'art. 2 e all'art. 4 del medesimo testo normativo, descrive la fattispecie della società in house. In via di estrema sintesi, il modello de quo si caratterizza per la contemporanea presenza dei noti tre requisiti: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione a un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.

Queste peculiari caratteristiche strutturali hanno indotto il legislatore del Testo Unico del 2016 a prevedere delle precise deroghe al diritto societario per realizzare il predetto assetto organizzativo, con particolare riferimento all'esercizio del controllo analogo. Tra le deroghe, per quanto qui maggiormente rileva, si segnala la possibilità di inserire negli statuti clausole derogatorie rispetto all'art. 2380-bis c.c. (rubricato “amministrazione della società”).

Nel caso di specie, il Tribunale specializzato in materia di imprese di Roma ha focalizzato la propria attenzione su una clausola contenuta nello statuto di una società in house che svolge servizi comunali, la quale testualmente recita che “il consiglio di amministrazione è investito dei soli poteri per la gestione ordinaria (…) nel pieno rispetto delle prescrizioni impartite dall'organo deputato al controllo analogo o direttamente dal socio e trasfuse in appositi atti o direttive formalie vincolanti”. In relazione a detta clausola il notaio rogante rifiutava l'iscrizione nel registro delle imprese perché non la riteneva idonea a soddisfare i requisiti dell'art. 2436 c.c.

Pertanto, la questione nodale oggetto del caso ruota intorno alla compatibilità della predetta previsione statutaria con le deroghe all'art. 2380-bis c.c. previste dal T.U. società a partecipazione pubblica. Atteso che le deroghe alle norme del diritto societario sono consentire “ai fini della realizzazione dell'assetto organizzativo” proprio dell'in house, il Tribunale chiarisce che le deviazioni dal “modello societario civilistico (…) devono reputarsi ammesse nei limiti del rapporto di strumentalità funzionale tra esse e il fine di realizzare il controllo analogo”. Inoltre - prosegue il collegio della sezione specializzata- dette deroghe hanno una durata predefinita, come testimonia il comma 6 dell'art. 16 del d.lgs. 175/2016. Quest'ultimo dispone che “a seguito della cessazione degli affidamenti diretti, perdono efficacia le clausole statutarie e i patti parasociali finalizzati a realizzare i requisiti del controllo analogo”.

Dunque, per procedere alla valutazione di compatibilità viene in rilievo l'individuazione dei contorni della nozione di controllo analogo come definita dallo stesso Testo Unico. In particolare, l'art. 2 del d.lgs. 175/2016 precisa che affinché sussista il controllo analogo è necessario che l'ente controllante eserciti “un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata”. Partendo dalla definizione fornita dal T.U., il Tribunale di Roma chiarisce che l'influenza dell'ente pubblico controllante dovrebbe estrinsecarsi “soltanto al livello della c.d. alta amministrazione della società controllata - senza annullare, cioè, l'autonomia gestionale ed esecutiva del suo organo amministrativo – (…), si attribuisce rilevanza all'esercizio effettivo del potere di controllo dell'ente controllante, cioè alla sua direzione gestionale e organizzativa cui la società in house è assoggettata”.

Così definito, il controllo analogo, sembrerebbe avvicinarsi all'attività di direzione e coordinamento di cui all'art. 2497 c.c. (il quale opererebbe in via analogia anche in assenza di espresso richiamo), la quale, come attentamente osservato in giurisprudenza, implica che “l'ente dirigente non agisce compiendo esso stesso atti di gestione della società eterodiretta” (cfr. Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2013; Trib. Milano, ord. 7 maggio 2014, Trib. Roma, 7 aprile 2015).

In altre parole, il controllo analogo si impernia – secondo la sezione imprese di Roma- “sulla «eterodirezione strategica» della società controllata, oltre che sulla partecipazione totalitaria o maggioritaria del capitale pubblico”, la quale non si risolve in “una situazione di asservimento totale della controllata e degli organi di essa, tale da annullarne ogni autonomia”.

Pertanto, il controllo che un ente pubblico spiega nei confronti di un soggetto in house deve consentire un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti. Questo non può portare - come tra l'altro chiarito anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 28 marzo 2013, n. 50 - a un totale annullamento dei “poteri gestionali dell'affidatario in house”, in quanto “la «possibilità di influenza determinante» è incompatibile con il rispetto dell'autonomia gestionale, senza distinguere (…) tra decisioni importanti e ordinaria amministrazione”.

Per chiarire la nozione di influenza determinante, il Tribunale delle imprese, richiama anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, la quale precisa che occorre “verificare che l'ente pubblico affidante eserciti (…) concreti ed effettivi poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria, sicché risulta indispensabile che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante (Consiglio di Stato 15 gennaio 2018, n. 182; 18 luglio 2017, n. 3554 e 24 ottobre 2017, n. 4902)”.

Chiarito quanto precede in termini generali, il Tribunale si sofferma sulla casistica emersa nella giurisprudenza di merito in relazione alle deroghe previste al modello civilistico delle società di capitali per le società pubbliche. In particolare, i giudici di merito hanno ammesso che gli enti pubblici controllanti possano esercitare oltre a poteri di direttiva e indirizzo anche poteri di autorizzazione o annullamento di tutti gli atti sociali più significativi, poteri propulsivi nei confronti del consiglio di amministrazione della società affidataria (…) e poteri di veto sulle deliberazioni del c.d.a. riguardanti l'attuazione dei contratti di servizi”.

Proprio le deviazioni dal modello societario previste dalla giurisprudenza di merito ante 2016 vengono considerate alla base dell'art. 16 del d.lgs. 175/2016 che ha positivizzato i casi di deroga al diritto comune ritenute legittime in presenza di una società in house. Tra le deroghe statutarie ritenute legittime, per ciò che in questa sede maggiormente rileva, è inserita anche la modalità di esercizio dell'attività di amministrazione della società (artt. 2380-bis e 2409-nonies c.c.).

Tuttavia, le difformità che possono giustificarsi negli statuti dell'in house devono – prosegue il giudice specializzato- essere conciliate “con il diritto societario comune negli stessi termini utilizzati dall'evoluzione giurisprudenziale precedente l'intervento legislativo”. Da ciò discende, più nel dettaglio, che la deroga prevista dal Testo Unico società a partecipazione pubblica all'art. 2380-bis c.c. “debba intendersi nel senso di legittimare l'attribuzione al socio del controllo delle decisioni strategiche o comunque particolarmente significative (…) in particolari materie funzionali all'esercizio del controllo analogo”. Al contrario, è da ritenersi esclusa la possibilità di derogare, mediante clausole statutarie, “completamente a una norma tipologica della società per azioni - nella quale categoria le società in house costituite per mezzo di tale tipo devono pur sempre essere ricondotte – che (…) attribuisce la gestione dell'impresa esclusivamente all'organo amministrativo”.

In altri termini, la deroga all'art. 2380-bis c.c. non può comportare uno svuotamento del suo contenuto proprio per evitare il sovvertimento della sua stessa ratio, la quale implica da un lato, la necessaria specializzazione della funzione di gestione e, dall'altro, che il suo esercizio si svolga in termini oggettivi e spersonalizzati e secondo moduli in cui si dia preminente attenzione alle esigenze di agibilità ed efficienza decisionale”. Invero, proprio questo profilo relativo all'attribuzione della gestione alla competenza esclusiva degli amministratori rappresenta l'aspetto qualificante delle società di capitali rispetto alle società di persone.

Dunque, la gestione della società che compete, di regola, agli amministratori “può essere limitata attraverso poteri di direttiva, avocazione e controllo al fine di realizzare quella «eterodirezione strategica» (…) ma mai completamente svuotata di contenuto”, circostanza che si realizzerebbe in presenza di una clausola che limita la loro competenza alla sola ordinaria amministrazione.

La ragione della predetta limitazione si rinviene, come attentamente osservato anche in dottrina, nella necessità di bilanciare l'utilizzo da parte dello stato dello strumento privatistico della società privata con “l'incidenza sulla «causa concreta» del contratto e del rapporto sociale di istanze connesse all'interesse pubblico”, la quale impone che quest'ultime avvengano “in conformità alle regole inderogabili dell'organizzazione societaria, pena la mancanza di tenuta non solo del modello, ma dell'attività medesima”.

Detta prospettiva pare accolta anche dal T.U. società a partecipazione pubblica, il quale richiede che sulla società in house venga esercitata da parte del soggetto pubblico “una influenza determinante sulla gestione e non una determinazione diretta dell'attività della società con la conseguenza che le effettive determinazioni degli obiettivi strategici e delle scelte determinanti possono essere di competenza (non già del soggetto pubblico che esercita il controllo analogo, ma) dell'organo amministrativo, sebbene in correlazione con quanto disposto dal socio”.

In via di estrema sintesi, il Tribunale di Roma ritiene che “riconoscere al socio la possibilità di esercitare il controllo analogo non comporta necessariamente una deroga al principio secondo il quale la gestione dell'impresa è di esclusiva competenza dell'organo gestorio”.

Secondo le argomentazioni della pronuncia in analisi l'appena richiamata ricostruzione poggerebbe sul principio di esclusività della gestione dell'impresa fissato dall'art. 2380-bis c.c. che impedisce di creare per via statutaria modelli di governo non tipizzati, per evitare che l'organo di amministrazione si veda “«alienare» le funzioni «originarie» di pianificazione, coordinamento, organizzazione e supervisione dell'attività, quale che sia la tecnica negoziale a tal fine utilizzata”.

Questo principio di diritto comune sembrerebbe applicabile anche alle società pubbliche. Invero, si tratta di prescrizioni che in questo ultimo tipo di società possono caricarsi “di un'ulteriore valenza precettiva e sistematica”. Più nel dettaglio, il divieto de quo “da una parte può contribuire a scongiurare fenomeni poco virtuosi di moltiplicazione delle cariche e di esercizio dell'influenza da parte del socio pubblico attraverso canali diversi da quelli propri dei rapporti endosocietari; dall'altra, costituisce un indice ulteriore della tendenziale sottoposizione delle società pubbliche, in assenza di norme derogatorie, alla disciplina societaria imperativa”.

Anche il legislatore del Testo Unico prevedendo la predetta possibilità, e non l'obbligo, conferma che “una deroga totale alla disciplina dell'art. 2380 bis c.c. non è necessariamente imposta dalla necessità di consentire all'ente pubblico di esercitare sulla società il controllo analogo”.

Invero, diversamente opinando, attribuendo all'organo gestorio la sola ordinaria amministrazione si rischierebbe di creare un sistema ibrido, non tipizzato, in quanto la “stessa gestione societaria (e non solo un potere di indirizzo, di autorizzazione o di avocazione) sarebbe ripartita tra più organi”.

Oltre alla necessità di evitare la creazione di modelli societari non tipici, circoscrivere la
competenza funzionale dell'organo amministrativo ai soli atti di ordinaria amministrazione lederebbe “i principi su cui si fonda la responsabilità civile degli amministratori nei confronti della società e dei creditori sociali di cui agli artt. 2392 e ss. c.c. (definitivi espressamente norme imperative inderogabili dalla giurisprudenza di legittimità, cfr., Cass, 28 aprile 2010, n. 10215)”.

Si andrebbe, infatti, incontro alla lesione “del naturale parallelismo tra potere e responsabilità e, quindi, in definitiva una totale irresponsabilità per l'attività gestoria e per le scelte gestorie”: non essendo “gli amministratori gli autori dell'attività non si vede proprio come essi possano essere chiamati a rispondere di una scelta ad essi non riconducibile”.

Più nel dettaglio, qualunque sia la ricostruzione operata della nozione di influenza determinante e di controllo analogo “è certo che l'amministratore debba (e non solo possa) ad essa sottrarsi allorquando l'adesione prestata possa recare un danno agli interessi tutelati con le azioni di responsabilità richiamate dall'art. 12” del Testo Unico delle società a partecipazione pubblica. Da ciò consegue, all'evidenza, che l'amministratore deve necessariamente poter disporre tutti i “poteri che gli consentano di «reagire» ad atti illegittimi compiuti dal socio”.

In definitiva, la sezione specializzata del Tribunale di Roma ritiene che la modifica apportata allo statuto della società in house volta a limitare i poteri dell'organo amministrativo alla sola amministrazione ordinaria sia contraria all'art. 2380-bis c.c., eccedendo illegittimamente i limiti derogativi previsti dall'art. 16 del T.U. società partecipate.

Osservazioni

La pronuncia annotata rappresenta una delle prime applicazioni dell'art. 16 del d.lgs. 175/2016 con riferimento all'ampiezza delle deroghe statutarie legittimate per le società in house in deroga al diritto comune.

In particolar modo l'art. 16 del T.U., al comma 1, richiama i requisiti strutturali identificativi dell'in house (partecipazione pubblica maggioritaria, controllo analogo e svolgimento di attività prevalente). Invece, il secondo comma della medesima disposizione- come chiarito nel parere del Consiglio di Stato n. 968 del 2016 – “in coerenza con l'intento di costruire un modello Unico di società nel quale fare confluire anche le società in house, disciplina le modalità attraverso le quali si può esercitare il controllo analogo”.

Infatti, per garantire la realizzazione dell'assetto organizzativo proprio dell'in house sono previste notevoli deroghe alla disciplina del diritto societario. Più nel dettaglio, “gli statuti delle società per azioni possono contenere clausole in deroga delle disposizioni dell'articolo 2380-bis e dell'articolo 2409-novies del codice civile; (...) gli statuti delle società a responsabilità limitata possono prevedere l'attribuzione all'ente o agli enti pubblici soci di particolari diritti, ai sensi dell'articolo 2468, terzo comma, del codice civile; (...) in ogni caso, i requisiti del controllo analogo possono essere acquisiti anche mediante la conclusione di appositi patti parasociali; tali patti possono avere durata superiore a cinque anni, in deroga all'articolo 2341-bis, primo comma, del codice civile”.

Dunque, il legislatore del d.lgs. 175/2016 si preoccupa di delimitare i termini dell'esercizio del controllo analogo a quello esercitato dal soggetto pubblico sui propri uffici o servizi. La definizione di questo elemento caratterizzante il fenomeno dell'in house providing, viene positivizzata all'art. 2 comma 1, lett. c) del d.lgs. 175/2016 (in linea con il disposto dell'art. 5 d.lgs. 50/2016), il quale precisa che sussiste detto requisito quando un'amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore eserciti un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Si legittima, anche, il controllo indiretto, ovvero quello esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore (cd. in house "a cascata”). In via di estrema sintesi, in continuità con la costante giurisprudenza nazionale ed europea e con le direttive europee del 2014, il requisito del controllo analogo è idoneo a incidere sull'autonomia decisionale e gestionale in capo agli amministratori della società.

Quanto precede giustifica, dunque, una delle principali deroghe al diritto comune previste dall'art. 16 T.U. società partecipate in materia di governance societaria, ovvero la possibilità di discostarsi dagli artt. 2380-bis e 2409-nonies c.c., che disciplinano l'amministrazione nelle società di capitali.

Queste ultime due disposizioni attribuiscono nelle s.p.a. la gestione in via esclusiva al consiglio di amministrazione (per le società che adottano il modello tradizionale) ovvero al consiglio di gestione (se il sistema scelto è quello dualistico).

Alla base della deroga al principio della competenza degli amministratori sulla gestione della società in house c'è la necessità di contemperare due profili, ovvero l'esercizio di poteri di ingerenza da parte del socio pubblico (che potrebbero estendersi fino alla vera e propria “gestione diretta”) e la possibile restrizione dei poteri attribuiti all'organo di amministrazione da norme che vengono ritenute inderogabili nella sistematica del diritto societario.

In merito alla possibile deroga delle ordinarie regole di amministrazione di cui agli articoli 2380-bis e 2409-nonies c.c. è doveroso segnalare anche le perplessità sollevate nel parere n.286 del 2016 dal Consiglio di Stato, il quale non ha perso occasione di sottolineare che la previsione di “una mera facoltà di deroga al principio di cui all'art. 2380-bis c.c. da parte degli statuti societari desta qualche perplessità, in quanto il mancato esercizio di tale potere manterrebbe ferma la riserva di gestione in capo agli amministratori in contrasto con la caratterizzazione propria delle modalità di funzionamento del controllo analogo”. Nonostante dette osservazioni della Commissione speciale insediata presso il Consiglio di Stato, il governo ha mantenuto invariato il tenore del secondo comma dell'art. 16 T.U. società a partecipazione pubblica.

Si permette, dunque, alle società in house, da un lato, di derogare in maniera molto pregnante agli assetti organizzativi propri delle spa, e dall'altro, si consente al socio pubblico di esercitare un potere decisionale sulla gestione strategica.

Tuttavia, sarebbe errato pensare che la deroga alla competenza esclusiva dell'organo di amministrazione nella gestione della società sia priva di limiti. In primo luogo, infatti, l'eventuale deroga agli articoli 2380-bis e 2409-nonies c.c. è giustificata esclusivamente ai fini del controllo analogo e dunque ha durata determinata, testimoniata dal fatto che con la cessazione degli affidamenti diretti le clausole statutarie volte a realizzare i requisiti del controllo analogo perdono efficacia.

In secondo luogo, anche con riguardo ai poteri esercitabili dal soggetto pubblico è doveroso segnalare che vi sono delle limitazioni. Infatti -in linea con la costante giurisprudenza costituzionale ed europea (Cfr. Corte Cost. 28 marzo 2013, n. 50; Corte Giust. 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen) - “sul soggetto concessionario deve essere esercitato un controllo che consente all'autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti. Ciò non significa che siano annullati tutti i poteri gestionali dell'affidatario in house (…)”.

Sulla stessa lunghezza d'onda si pone anche il Tribunale di Roma con la pronuncia annotata, il quale ha cercato di mettere dei punti fermi in ordine alla legittimità di una clausola contenuta nello statuto di una società in house volta a limitare il potere gestorio degli amministratori ai soli atti di ordinaria amministrazione. In particolare, l'analisi della sezione specializzata è tutta tesa a conciliare le deroghe previste dall'art. 16 del d.lgs. 175/2016 con le norme ordinarie del diritto “negli stessi termini utilizzati dall'evoluzione giurisprudenziale precedente l'intervento legislativo”.

Secondo la lucida ricostruzione operata dalla sezione imprese del Tribunale di Roma “sebbene appaia plausibile che la deroga introdotta dall'art. 16 TUSP all'art. 2380-bis c.c. debba intendersi nel senso di legittimare l'attribuzione al socio del controllo” delle decisioni strategiche connesse con le materie funzionali all'esercizio del controllo “è da escludersi che possa derogarsi completamente a una norma tipologica della società per azioni - nella quale categoria le società in house costituite per mezzo di tale tipo devono pur sempre essere ricondotte - che, come noto, attribuisce la gestione dell'impresa esclusivamente all'organo amministrativo”.

In altri termini, la competenza gestoria degli amministratori non può essere completamente svuotata per due ordini principali di motivi. In primo luogo, se si consentisse la limitazione dei poteri degli amministratori ai soli atti di ordinaria amministrazione si creerebbe un modello di governo societario non tipizzato; con conseguente violazione del divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società (previsto all'art. 11 comma 9 lett. d) T.U. società partecipate).

In secondo luogo, attribuire all'assemblea i poteri di straordinaria amministrazione esautorando l'organo amministrativo determinerebbe “una totale irresponsabilità per l'attività gestoria e per le scelte gestorie”. Più nel dettaglio, qualunque sia il contenuto attribuito alla nozione di influenza determinante e di controllo analogo questo non può comportare la violazione dei principi su cui si fonda la responsabilità civile degli amministratori nei confronti della società e dei creditori sociali di cui agli artt. 2392 e ss. c.c., che in giurisprudenza sono stati definitivi norme imperative inderogabili (cfr., Cass. Civ., n. 10215/2010).

Sulla scorta di quanto precede sembra coerente la decisione del Tribunale di Roma che ha concluso per la contrarietà della clausola statutaria che limita la competenza degli amministratori di una società in house ai soli atti di ordinaria amministrazione.

Conclusioni

La pronuncia della sezione specializzata in materie di imprese annotata offre notevoli spunti di riflessione circa l'ampiezza delle deroghe al diritto societario ammesse per le società in house. Quest'ultima tematica da tempo è all'attenzione della dottrina e della giurisprudenza e sembra aver trovato qualche punto fermo con il Testo Unico società a partecipazione pubblica che ha, tra l'altro, positivizzato le possibili deroghe statutarie che possono essere previste per detta tipologia societaria.

La ratio della deviazione dalle regole proprie del modello previsto dal codice civile si rinviene, all'evidenza, nella struttura del soggetto in house, che, come chiarito in dottrina e giurisprudenza, rappresenta un'anomalia nel panorama del diritto societario. É, infatti, difficileconciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell'ente pubblico titolare della partecipazione sociale” (Cass. civ., Sez. Un., n. 26283/2013).

Ciò non toglie che l'assoggettamento degli organi di governance (nel caso di specie l'organo amministrativo) all'influenza determinante del socio pubblico sugli obiettivi e le decisioni strategiche non può intendersi in modo tale da annullare tutti i poteri ex lege attribuiti agli organi sociali, al fine di non svilire gli interessi coinvolti nell'attività sociale (in questo caso l'eventuale responsabilità degli amministratori verso soci e creditori).

In definitiva, l'utilizzo da parte di soggetti pubblici di un modello spiccatamente privatistico per perseguire interessi pubblici dovrebbe sempre avvenire in conformità alle regole inderogabili di organizzazione societariaaltrimenti si rischia di scardinare il modello stesso dell'in house.

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