La disciplina del concordato di gruppo nel Codice della crisi e dell’insolvenza

Diego Corrado
23 Maggio 2019

Dettati in attuazione di specifiche disposizioni della legge delega (art. 3 legge n. 155/2017), gli artt. 284-292 del Codice della crisi e dell'insolvenza che disciplinano le procedure relative al gruppo di imprese in crisi o insolvente colmano una lacuna particolarmente sentita nel vigore della legge fallimentare, cui dottrina e giurisprudenza avevano a lungo cercato di porre rimedio con un approccio che inevitabilmente scontava una prospettiva parziale su un tema di crescente rilevanza, come tale meritevole di una trattazione organica.
Premessa

Dettati in attuazione di specifiche disposizioni della legge delega (art. 3 legge n. 155/2017), gli artt. 284-292 del Codice della crisi e dell'insolvenza che disciplinano le procedure relative al gruppo di imprese in crisi o insolvente colmano una lacuna particolarmente sentita nel vigore della legge fallimentare, cui dottrina e giurisprudenza avevano a lungo cercato di porre rimedio con un approccio che inevitabilmente scontava una prospettiva parziale su un tema di crescente rilevanza, come tale meritevole di una trattazione organica. Il Codice detta in materia di concordato di gruppo norme il cui esame – vista la loro rilevanza e complessità – deve essere frazionato in più parti. In questa sede ci si concentra sulle disposizioni generali e su quelle di carattere procedurale, oltre che sul contenuto del “piano di gruppo”.

La definizione di gruppo e i principi di fondo della disciplina

I principi della disciplina della crisi di gruppo sono dettati dall'art. 3 della legge delega (legge n. 155/2017), disposizione ampia e articolata divisa in tre commi: il primo detta definizioni e principi generali, il secondo è dedicato alle norme in materia di gestione unitaria delle procedure di concordato di gruppo, il terzo abborda il tema della liquidazione giudiziale del gruppo di imprese insolventi. Come si avrà modo di osservare esaminando le singole disposizioni, il confronto tra legge delega e decreto legislativo di attuazione evidenzia alcuni casi di sospetta incostituzionalità per eccesso di delega, ma in generale il Codice della crisi appare fedele esecuzione dei principi generali.

La disciplina del Codice in materia prende avvio, all'art. 2, comma 1, lett. h, dalla definizione di gruppo di imprese. Oltre al rinvio ai principi dettati dall'art. 2497 del codice civile (che ravvisano il fenomeno del gruppo laddove vi sia attività di direzione e coordinamento in forza di un rapporto partecipativo o contrattuale, presumendo essa sussista comunque nel caso vi sia l'obbligo di redigere il bilancio consolidato), spicca nella definizione in esame l'espressa menzione dell'ipotesi del controllo congiunto e della holding persona fisica, quest'ultima al centro di un ampio dibattito in relazione all'ambito applicativo dell'art. 2497, comma 1.

In via generale, inoltre, si deve rilevare come il Codice paia abbracciare due principi di fondo nel dettare la disciplina della crisi di gruppo. Il primo riguarda l'ammissibilità della trattazione unitaria di diverse procedure di uguale specie (ovvero concordato o liquidazione giudiziale), a patto che il “consolidamento” in questione faccia prevedere un beneficio per i creditori; il secondo riguarda il permanere della rigida distinzione tra distinte masse attive e passive.

La crisi di gruppo nella disciplina vigente: il punto di arrivo dell'elaborazione giurisprudenziale

L'assenza di regole specificamente destinate a disciplinare il fenomeno della crisi di gruppo ha in passato spesso aperto la strada a ipotesi di soluzione unitaria, intuitivamente più agevole di quella parcellizzata, in presenza di relazioni industriali, finanziarie e contrattuali tra le diverse entità che compongono il gruppo. Di fronte a tentativi che non avevano ancoraggio normativo, è stato compito della giurisprudenza tracciare di volta in volta il confine tra ciò che era consentito e ciò che non lo era, con un'opera di esegesi dei principi fondamentali della materia che ha inevitabilmente dato luogo a un panorama frammentario.

Tralasciando una compiuta disamina dell'evoluzione giurisprudenziale, che in questa sede non è possibile affrontare, si deve partire dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 20559 del 3 ottobre 2015. La pronuncia in questione, poi sostanzialmente ripresa da Cass. n. 19014/2017, ritenne inammissibile una delle impostazioni sino ad allora più utilizzate allo scopo, costituita dal conferimento in unica società di persone di attivo e passivo delle società del gruppo, che divenivano quindi soci illimitatamente responsabili.

Tre i punti su cui la Suprema corte ha basato la propria posizione: la violazione dei diritti dei creditori; la formazione delle maggioranze; la competenza territoriale.

In particolare, osserva la Cassazione, la confluenza di attivi e passivi in un'unica società avrebbe impedito di assegnare ai creditori delle conferenti il trattamento di cui avrebbero beneficiato nelle singole procedure in forza del principio, di cui all'art. 2740 del Codice civile, secondo cui il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutto il suo patrimonio, presente e futuro. Asservire parte di quel patrimonio al trattamento di creditori che prima del conferimento erano a tutti gli effetti terzi estranei confligge con questo principio.

A quei creditori deve essere inoltre assicurato il diritto di approvare separatamente la proposta di concordato loro rivolta. Al contrario, nella vicenda su cui si è pronunciata la Suprema Corte, la maggioranza si era formata sul totale dei creditori conferiti, cosicché la capacità di incidere dei singoli ne è risultata compromessa. Ulteriore censura ha infine riguardato la competenza territoriale, che l'operazione di conferimento aveva fatto convergere sulla neocostituita società di persone, travalicando così la disciplina vigente.

Come è facile rilevare, la riforma si è posta l'obiettivo di intervenire su ognuno di questi aspetti, in un quadro che mira a regolare un percorso unitario senza trascurare la tutela dei diritti dei singoli.

Il Tribunale competente nelle procedure relative alla crisi di gruppo

Prima di addentrarsi nell'esame della disciplina specifica è bene osservare che il Codice della crisi prevede specifiche regole di competenza territoriale in caso di procedure relative alla crisi di gruppo. Fatta salva l'ipotesi del gruppo di imprese di rilevanti dimensioni (in questo caso Tribunale competente sarà, ex art. 27, comma 1, del Codice, quello sede della sezione specializzata in materia di imprese, avuto riguardo al luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali) la regola generale è quella che si ottiene dal combinato disposto del citato art. 27 e dell'art. 286, comma 1.

Le norme ora citate stabiliscono che la domanda unitaria di concordato di gruppo di imprese con sedi diverse dovrà essere presentata al Tribunale competente per la società o persona fisica che, secondo quanto dichiarato al Registro delle imprese, esercita attività di direzione e coordinamento, o – in mancanza della dichiarazione prevista dall'art. 2497-bis c.c. – per quella il cui ultimo bilancio approvato presenta la maggiore esposizione debitoria.

Per completezza, si osserva che, in caso di liquidazione giudiziale, la norma che viene in rilievo è quella stabilita dall'art. 287, comma 4, del Codice, che riproduce il contenuto dell'art. 286, ma solo nel caso di presentazione contemporanea di più domande “in proprio”. Negli altri casi, infatti, “il tribunale competente è quello dinanzi al quale è stata presentata la prima domanda di liquidazione giudiziale”.

Come l'esame della disciplina rende evidente, il criterio unitario di competenza opera solo ci sia una domanda che specificamente miri all'apertura di una procedura unitaria. In caso contrario (nel caso cioè più imprese appartenenti a un medesimo gruppo siano assoggettate a separate procedure di liquidazione giudiziale ovvero a separate procedure di concordato preventivo, eventualmente dinanzi a tribunali diversi”), la legge – all'art. 288 – si limita a stabilire un obbligo di “cooperazione” finalizzato a “facilitare la gestione efficace di tali procedure”.

Proposta e piano nel concordato “unitario”

Come si è visto, il concordato unitario è una facoltà per il debitore. In proposito, l'art. 284, comma 1, prevede che la domanda unica per tutte le società appartenenti al medesimo gruppo possa essere accompagnata da un unico piano o da piani distinti ma collegati tra loro (“piani reciprocamente collegati e interferenti”, è la dizione scelta dal legislatore). In tal caso la domanda deve illustrare (cfr. art. 284, comma 4) le ragioni di maggiore convenienza della trattazione unitaria della crisi, rispetto alla previsione di un piano autonomo per ciascuna impresa.

Come dispone espressamente l'art. 284, comma 3, “resta ferma l'autonomia delle rispettive masse attive e passive”. Ciò, unitamente al fatto che i creditori votano separatamente, ciascuno sulla proposta del proprio debitore (art. 286, comma 5), ha indotto parte della dottrina a ritenere che ciascuna impresa debba presentare una propria domanda autonoma. Ragioni per accogliere la soluzione opposta si rinvengono tuttavia nell'art. 3, comma 3, lett. c della legge delega, laddove si fa riferimento alla “proposta unitaria omologata”.

Altra questione dubbia è se l'art. 284 dia luogo a una procedura unica ovvero a un fascio di procedure “concentrate” (caratterizzate dall'identità degli organi), domanda cui non può essere data risposta facendo riferimento alla legge delega, che – all'art. 3 – in un caso parla di “gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali” (facendo propendere per la seconda ipotesi), in altri di “procedura di concordato preventivo di gruppo” e “procedura di liquidazione giudiziale di gruppo” (sembrando così indicare la prima).

La soluzione dell'unica procedura pare dover essere quella da privilegiare, con fondamento nell'art. 286, comma 7, che dispone “il concordato di gruppo omologato non può essere risolto o annullato quando i presupposti per la risoluzione o l'annullamento si verifichino soltanto rispetto a una o ad alcune imprese del gruppo, a meno che ne risulti significativamente compromessa l'attuazione del piano anche nei confronti delle altre imprese”.

Da notare, quanto al contenuto della domanda, che l'art. 284, comma 4 (disposizione comune anche al caso di liquidazione giudiziale di gruppo) prevede che essa debba fornire “informazioni analitiche sulla struttura del gruppo e sui vincoli partecipativi o contrattuali esistenti tra le e imprese e indicare il registro delle imprese o i registri delle imprese in cui è stata effettuata la pubblicità ai sensi dell'articolo 2497-bis del codice civile”, e che al ricorso sia allegato il bilancio consolidato di gruppo, ove redatto. Le stesse informazioni devono peraltro essere contenute nella domanda (di concordato preventivo o di liquidazione giudiziale) che sia presentata individualmente da un'impresa appartenente a un gruppo, secondo quanto prevede l'art. 289.

Il contenuto del piano o dei piani di gruppo

I presupposti per la gestione di gruppo della crisi sono, come si è visto, la miglior soddisfazione dei creditori nel piano unitario rispetto alla prospettiva di procedure parcellizzate, e la rigorosa separazione delle masse attive e passive, cosicché sia offerto ai creditori un trattamento non deteriore rispetto a quello di cui avrebbero goduto con il concorso sul patrimonio del debitore.

Ciò detto, l'art. 285 (rubricato “Contenuto del piano o dei piani di gruppo e azioni a tutela dei creditori e dei soci”) si preoccupa con evidenza di adattare all'ipotesi del concordato di gruppo l'impianto generale dell'istituto come plasmato dal Codice della crisi, basato com'è noto su una bipartizione tra concordato liquidatorio e concordato in continuità (sia consentito rinviare sul punto a Corrado, Il nuovo concordato preventivo, in www.ilFallimentarista.it, 7 Febbraio 2019).

Così, al comma 1, indica il criterio per distinguere, anche nel caso di concordato di gruppo, l'ipotesi liquidatoria da quella in continuità, prevedendo (in analogia con il principio di prevalenza dettato dall'art. 84, comma 3) che, benché il piano (o i piani) di gruppo possano prevedere la liquidazione di alcune imprese e la continuazione dell'attività di altre imprese del gruppo, si applicherà tuttavia la sola disciplina del concordato in continuità quando, confrontando i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell'attività con i flussi complessivi derivanti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino.

Quanto allo specifico contenuto del piano, l'art. 285, co. 2, riproduce quasi testualmente il principio di delega di cui all'art. 3, comma 2, lett. f, con la rilevante eccezione di sancire espressamente l'ammissibilità, tra le operazioni contrattuali e di riorganizzazione possibili, di “trasferimenti di risorse infragruppo”, a patto che “un professionista indipendente attesti che dette operazioni sono necessarie ai fini della continuità aziendale per le imprese per le quali essa è prevista nel piano e coerenti con l'obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori di tutte le imprese del gruppo”.

La norma, che si pone in deroga al principio generale di cui all'art. 2740 c.c., pare viziata per eccesso di delega. A prescindere da questo rilievo, destinato ad essere chiarito in sede applicativa, essa si inserisce nel solco dell'ampio dibattito in materia, che ha sinora fatto emergere un vistoso contrasto tra la unanime giurisprudenza (orientata nel senso dell'inderogabilità della norma codicistica citata) e la dottrina prevalente, orientata a concedere ampio spazio all'autonomia privata nel determinare il contenuto della proposta concordataria.

Ad ogni modo, la legge prevede che gli effetti pregiudizievoli delle operazioni di trasferimento infragruppo (da notare che per un evidente refuso l'opposizione è riferita alle operazioni di cui al comma 1, laddove esse sono previste al comma 2) possano essere contestati con l'opposizione all'omologazione dei creditori dissenzienti di una classe dissenziente, o, nel caso della mancata formazione di classi, dei creditori che rappresentino almeno il 20% dei crediti ammessi al voto con riguardo a una singola società (art. 285, co. 3). Allo stesso modo possono agire i soci di minoranza che intendano far valere il pregiudizio alla singola società (co. 5; anche qui il riferimento al comma 1 deve intendersi riferito al comma 2).

Nel primo caso (opposizione dei creditori) il tribunale omologa il concordato di gruppo qualora ritenga, sulla base di una valutazione complessiva del piano o dei piani collegati, che i creditori possano essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto ricaverebbero dalla liquidazione giudiziale della singola società (co. 4); nel secondo (opposizione dei soci) se esclude la sussistenza di un pregiudizio in considerazione dei vantaggi compensativi derivanti alle singole società dal piano di gruppo (co. 5).

Presupposti del concordato di gruppo e questioni procedurali

Limitando l'analisi agli aspetti peculiari della crisi di gruppo si deve preliminarmente osservare che, benché la questione non sia neppure accennata dalla disciplina, pare ovvio affermare che il presupposto per l'ammissione alla procedura vada accertato singolarmente per ciascuno dei soggetti compresi nel perimetro della domanda. Non sarebbe consentito, cioè, assoggettare a concordato preventivo una società che non si trovi in stato di crisi o di insolvenza, neanche se ciò fosse strumentale alla migliore soluzione della crisi del gruppo cui essa appartiene, poiché ciò si presterebbe a possibili abusi in danno dei suoi soci e creditori.

Indipendentemente dalla soluzione che si ritenga di privilegiare in ordine alla questione sopra illustrata, circa unitarietà o meno della procedura di concordato che riguardi un gruppo, sotto il profilo pratico si può rilevare che la legge – al fine dell'opportuno coordinamento gestionale – prevede di regola, oltre all'individuazione di un unico Tribunale competente, la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario (art. 286, comma 2), cui fa da contraltare in ogni caso la costituzione di un unico fondo per le spese di giustizia, da porre a carico di ciascun soggetto coinvolto nella crisi in proporzione delle rispettive masse attive (successivo comma 3), soluzione questa che non soddisfa appieno, ove si osservi che potrà spesso tradursi di fatto in un drenaggio di risorse a favore delle imprese più indebitate del gruppo.

Benché prevedere un unico commissario sia la soluzione che di norma consentirà maggior efficacia gestoria, è evidente che essa incontra limiti sotto il profilo dei potenziali conflitti di interesse, ove l'organo in questione debba valutare la legittimità di atti di gestione sotto il profilo della violazione dell'art. 2497 c.c. o del depauperamento di una componente del gruppo a favore di un altro (l'esperienza pratica spesso pone di fronte a situazioni in cui alcune società, dotate di maggiore liquidità, facciano da “banca” alle altre, con le conseguenze del caso al sopravvenire della crisi).

La disciplina dettata in tema di concordato preventivo non contiene una norma analoga a quella – prevista per la sola ipotesi della liquidazione giudiziale – di cui all'art. 287, comma 2, che subordina la previsione di un unico curatore all'assenza di “specifiche ragioni” che obblighino a procedere con organi separati, ma si tratta evidentemente di una lacuna da risolvere, in caso di necessità, con l'applicazione analogica della regola ora citata. Si porrà in tal caso il problema di capire che cosa accade quando il conflitto di interessi emerge a procedura avviata.

L'art. 286 prosegue poi prevedendo la facoltà, per il commissario giudiziale, di chiedere l'intervento di Consob e di ogni altra autorità per accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo.

La disposizione in esame inoltre detta espressamente le regole di voto, che prevedono che i creditori di ciascuna delle imprese (eventualmente divisi in classi qualora ciò sia previsto dalla legge o dal piano) “votano in maniera contestuale e separata sulla proposta presentata dalla società loro debitrice” e che “il concordato di gruppo è approvato quando le proposte delle singole imprese del gruppo sono approvate dalla maggioranza prevista dall'articolo 109” (cfr. art. 286, comma 5).

Peraltro, come prevede il successivo comma 6, “sono escluse dal voto le imprese del gruppo titolari di crediti nei confronti dell'impresa ammessa alla procedura”.

Il piano attestato di risanamento e l'accordo di ristrutturazione di gruppo: cenni

Benché non siano oggetto di queste note, si deve accennare al fatto che il Codice della crisi prevede espressamente l'accordo di ristrutturazione dei debiti e il piano attestato di gruppo. Nulla quaestio per il primo, espressamente previsto dall'art. 3 della legge delega, che invece non menziona il secondo. Ciò tuttavia non dovrebbe provocare problemi di sorta sotto il profilo dell'eccesso di delega, posto che le previsioni del Codice della crisi in materia (cfr. art. 284, comma 5) non contrastano con alcun principio posto da fonti primarie e peraltro poco aggiungono a quanto già previsto dall'art. 56 del Codice, che certo non esclude che il piano attestato possa essere unico o identico per più imprese appartenente ad un medesimo gruppo.

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