Responsabile il Ministero se il cancelliere si appropria di somme depositate sul libretto della procedura esecutiva

Renato Savoia
24 Maggio 2019

L'Amministrazione della Giustizia risponde dei danni cagionati dal delitto di peculato del cancelliere che, in ragione dell'esercizio delle funzioni conferitegli, abbia obiettivamente violato, per fini personali od egoistici, i propri doveri di ufficio.

Così hanno deciso le Sezioni Unite, nella sentenza n. 13246 depositata il 16 maggio 2019, che ha modificato il precedente orientamento maggioritario (anzi, addirittura totalitario se si considera la sola giurisprudenza civile, mentre la giurisprudenza penale di legittimità, negli ultimi anni, aveva iniziato a discostarsene).

La vicenda. Un Cancelliere del Tribunale di Catania si era appropriato di somme, ricavate nel corso di un giudizio civile di divisione, giacenti su un libretto di deposito giudiziario mediante falsificazione della firma del funzionario competente per il mandato di pagamento.

Dopo la conclusione del processo penale, con la sentenza di condanna per peculato, era stato intrapreso il giudizio civile di risarcimento del danno da parte del soggetto che avrebbe avuto diritto a tali somme, il quale aveva promosso il giudizio oltre che nei confronti del cancelliere anche nei confronti del Ministero della Giustizia.

In primo grado la sentenza aveva accolto la richiesta di condanna anche del Ministero, ritenendo sussistenti i presupposti dell'estensione della responsabilità all'Amministrazione, a norma dell'art. 28 Cost.

Nel successivo giudizio di appello la Corte territoriale aveva invece respinto la domanda nei confronti del Ministero, ritenendo che il dipendente avesse agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all'amministrazione e, anzi, addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, ed in quanto tale idoneo ad escludere ogni collegamento con le proprie attribuzioni.

Proposto ricorso per cassazione, inizialmente veniva assegnato alla Sesta Sezione, che poi, vista giurisprudenza non univoca, ha ritenuto di rimettere alle Sezioni Unite la questione della «sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica amministrazione per i fatti illeciti dei propri dipendenti, valore dipendente, approfittando delle sue precipue funzioni, commetta un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale».

La P.A. risponde come risponde il privato per i fatti del dipendente. Nella corposa motivazione le Sezioni Unite anzitutto hanno riassunto lo stato dell'arte per quel che riguarda la responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente che abbia approfittato delle proprie attribuzioni per ottenere un vantaggio personale.

Due erano gli orientamenti in campo:

a) un primo, seguito dalla Cassazione civile, che basandosi sull'art. 28 Cost. aveva desunto la configurazione di una responsabilità della p.a. soltanto nel caso in cui l'attività dannosa si fosse atteggiata come esplicazione dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè avesse teso, sia pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente fosse addetto (così, per tutte, Cass. civ., n. 9260/1997). Conseguentemente veniva esclusa la responsabilità in tutti i casi in cui la condotta fosse sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (si veda Cass. civ., n. 1083/2000);

b) Un secondo, di cui si era fatta portavoce negli ultimi anni la giurisprudenza penale di legittimità, che invece configurava la responsabilità civile della p.a. anche per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali tramite la realizzazione di un reato doloso, se poste in essere sfruttando l'occasione offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogenio sviluppo di un corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall'art. 2049 c.c. (così Cass. pen., n. 13799/2015). Quest'ultimo orientamento, peraltro, poteva facilmente trovare paragone nell'estensione della responsabilità civile avvenuta in altri ambiti di preposizione, meramente privatistici, quali quelli dei funzionari di banche o dei promotori finanziari, in ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei proponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al proposto il danno arrecato a terzi.

Riconosciuto questo contrasto, le Sezioni Unite hanno ritenuto che «nessuna ragione giustifichi più, nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di poteri pubblicisti».

Desumere un diverso regime di responsabilità a seconda che il proponente sia soggetto privato o pubblico, si risolverebbe in ingiustificato privilegio dello Stato o dell'ente pubblico.

Pertanto hanno ritenuto, che l'art. 28 Cost. non possa precludere l'applicazione della normativa del codice civile (art. 2049 c.c.) e pertanto il proponente pubblico dovrà d'ora in poi rispondere del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qualvolta questo non si sarebbe verificato senza l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicisti.

Sono, quindi, fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico anche i danni determinati da condotte del preposto devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale dei conferimento del potere di agire, a condizione che sussistano (unitamente) due requisiti, ovvero:

1) si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria;

2) si tratti di condotte raffigurar abili o prevedibili oggettivamente come sviluppo non anomalo dell'esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica il fatto che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il proponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta infedele estrinsecazione dei poteri conferiti, o di violazione dei divieti imposti.

Facendo applicazione di tale orientamento è stato ritenuto oggettivamente non improbabile (e dunque sarebbe dovuto essere prevenuto da qualunque preponente) il fatto commesso dal cancelliere, ovvero l'appropriazione delle somme depositate su un libretto.

La vicenda torna ora all'attenzione della Corte d'appello, che dovrà fare applicazione del principio di diritto enunciato.

*Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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