La quantificazione del danno da responsabilità degli amministratori al verificarsi di una causa di scioglimento

Bianca Caruso
30 Maggio 2019

Il nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza interviene anche in tema di responsabilità degli amministratori. Tra le modifiche di maggior rilievo vi è l'esplicitazione dei criteri per la quantificazione del danno risarcibile dall'amministratore in caso di responsabilità occorsa al verificarsi di una causa di scioglimento.
Premessa

Il nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza interviene anche in tema di responsabilità degli amministratori. Tra le modifiche di maggior rilievo vi è l'esplicitazione dei criteri per la quantificazione del danno risarcibile dall'amministratore in caso di responsabilità occorsa al verificarsi di una causa di scioglimento. Dopo una generica analisi del regime di responsabilità degli amministratori nel caso di scioglimento della società, l'Autore esamina la nuova disciplina contenuta nel Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, nonché le analogie e difformità rispetto ai principi di diritto finora sanciti in giurisprudenza.

La responsabilità degli amministratori al verificarsi di una causa di scioglimento della società

Il nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, introdotto con il d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 14 febbraio 2019, ha apportato alcune, significative, modifiche alla disciplina societaria contenuta nel codice civile, entrate in vigore lo scorso marzo.

Una delle più rilevanti ed al contempo discusse modifiche alla disciplina codicistica è legata all'introduzione dei criteri per la quantificazione del danno risarcibile all'esito dell'azione di responsabilità, promossa contro l'organo amministrativo, al verificarsi di una causa di scioglimento della società.

Ciò premesso, prima di passare in rassegna le novità legislative, si ritiene utile illustrare brevemente il regime di responsabilità in questione.

Sul punto, è l'art. 2486 c.c. che regola il regime di responsabilità degli amministratori dal momento in cui si sia verificata una causa di scioglimento della società e fino alla consegna dei libri sociali ai liquidatori, con contestuale cessazione dalla carica dei primi, ai sensi dell'art. 2487-bis c.c. In tale arco temporale, gli amministratori mantengono il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. Gli amministratori, dunque, sono responsabili nei confronti della società, dei soci, dei creditori sociali e dei terzi per i danni loro arrecati qualora abbiano agito in violazione di tale principio.

La ratio della norma appare evidente: una volta verificatasi la causa di scioglimento, la gestione sociale deve essere volta al maggior realizzo nell'ambito della liquidazione. La finalità della conservazione della ricchezza è, infatti, coerente con l'abdicazione dal fine produttivo dell'impresa (in tal senso Valzer, La gestione interinale dell'impresa nelle società per azioni (art. 2386, comma 5, c.c.), in Società, banche e crisi d'impresa, Liber amicorum Pietro Abbadessa, 2, Torino, 2014, 1167 ss.). In altri termini, l'intento del legislatore è quello di evitare che nella fase di entrata in liquidazione dell'ente, gli amministratori compiano operazioni speculative. Gli amministratori hanno, dunque, solo poteri di ordinaria amministrazione, ovvero di compiere atti di comune gestione dell'azienda, strettamente aderenti alle finalità e dimensioni del suo patrimonio, senza che possano esporre la società al rischio di impresa implicito nel perseguimento dello scopo di lucro che la contraddistingue nella fase di fisiologica attività (cfr. A. Rossi, Commento all'articolo 2486 (poteri degli amministratori), in Commentario Maffei Alberti, 2005, 2186).

Il dibattito circa la natura delle operazioni da ritenersi vietate è stato particolarmente complesso e articolato, soprattutto prima delle modifiche introdotte dalla riforma societaria del 2003. L'art. 2449, comma 1, c.c. ante-riforma, infatti, faceva divieto di intraprendere “nuove” operazioni, pena la responsabilità illimitata e solidale degli amministratori per gli atti compiuti in violazione del divieto; il comma 3 della medesima disposizione, poi, precisava che gli amministratori rispondevano della conservazione dei beni sociali fino alla consegna ai liquidatori. Alla luce del combinato disposto delle due norme, quindi, gli amministratori dovevano astenersi dal compiere nuove operazioni per evitare di compromettere l'integrità del patrimonio sociale in fase di scioglimento (in proposito, cfr. Cass., 16 febbraio 2007, n. 3694, in Foro it., 2008, I, c. 1269, secondo cui nuove operazioni potevano definirsi quelle non funzionali alla liquidazione del patrimonio sociale, seppur con la precisazione che, poiché la liquidazione avrebbe potuto realizzarsi anche mediante la vendita in blocco dell'azienda funzionante, anche atti imprenditoriali posti in essere nella prospettiva di una liquidazione in blocco potessero considerarsi tali).

Le incertezze interpretative evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza citate, hanno indotto il legislatore a modificare la tecnica legislativa, così declinando la disposizione in positivo: non più sancendo il divieto di “nuove operazioni”, ma la limitazione agli atti volti alla conservazione del patrimonio. Ad una più attenta lettura, tuttavia, il problema interpretativo non sembra del tutto risolto: risulta di difficile comprensione – spesso frutto di una opinabile valutazione caso per caso - il limite entro cui gli amministratori possono operare (cfr. Rordorf, La responsabilità degli amministratori di spa per operazioni successive alla perdita del capitale sociale, in Soc., 2009, 282).

(Segue) Il danno risarcibile

Al fine di affermare la responsabilità contro gli amministratori che abbiano gestito la società in modo non conservativo nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento, deve configurarsi (e dimostrarsi) non solo il danno, ma anche un collegamento causale tra la condotta illecita posta in essere dall'amministratore e il danno stesso.

In altri termini, la responsabilità in questione non si configura automaticamente al verificarsi della violazione, essendo indispensabile – in linea con i principi generali dell'ordinamento – che il danno provocato sia conseguenza immediata e diretta del comportamento antigiuridico. Se così non fosse, si configurerebbe una sorta di responsabilità oggettiva a carico degli amministratori (cfr. Montalenti, La gestione dell'impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, 829; in giurisprudenza, Cass., 4 aprile 2011, n. 7606, in Danno e resp., 2012, 48 ss.; Trib. Milano, 24 agosto 2011, in Soc., 2012, 493 ss.).

Nel solco di tale principio si inserisce anche l'annoso dibattito relativo alla quantificazione del danno derivante dal compimento di atti non conservativi (tra i cospicui scritti in argomento, Patti, Il danno e la sua quantificazione nell'azione di responsabilità contro gli amministratori, in Giur. Comm., 1997, I, 91 ss.; Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Ambrosini (a cura di), Il nuovo diritto societario, Torino, 2005, I, 253 ss.; Penta, La quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità: le operazioni compiute dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, in Fall., 2006, I, 670 ss.; Ambrosini, Il problema della quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità contro amministratori e sindaci, in Ambrosini (a cura di), La responsabilità di amministratori, sindaci e revisori contabili, Milano, 2007, 293 ss.; Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita di capitale, in Fall., 2009, 569 ss.; Ambrosini – Aiello, Rassegna di giurisprudenza. Società per azioni. Responsabilità degli amministratori, in Giur. Comm., 2010, II, 953 ss.; Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. Comm., 2011, I, 149 ss.).

Per lungo tempo, infatti, si era ritenuto che l'ammontare del danno, per quanto qui interessa, dovesse calcolarsi facendo ricorso al c.d. criterio del deficit fallimentare, ovvero imputando alla condotta illegittima degli amministratori la differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare. Il ricorso a tale criterio veniva talvolta giustificato imputando il dissesto nella sua interezza o il suo aggravamento all'operato degli amministratori, talvolta invece facendo riferimento all'impossibilità di ricostruire gli effetti delle operazioni compiute dagli amministratori per carenza della relativa documentazione contabile (per una dettagliata analisi della giurisprudenza in argomento si rimanda al prossimo paragrafo).

Tuttavia, tale criterio è stato presto oggetto di critiche della gran parte della dottrina e della successiva giurisprudenza di legittimità in quanto palesemente scollegato ad una valutazione del nesso di causalità tra la condotta antigiuridica e il danno.

Si è, quindi, sviluppato l'ulteriore metodo di quantificazione del danno della c.d. differenza dei netti patrimoniali, dato dal confronto tra la situazione patrimoniale al momento in cui si è verificata la causa di scioglimento e la situazione patrimoniale al momento della dichiarazione di fallimento (su tale metodo, tra gli altri, Panzani, Responsabilità degli amministratori: rapporto di causalità tra atti di mala gestio e danni. Lo stato della giurisprudenza, in Fall., 1989, 978 ss.; Aiello, Scioglimento della società e responsabilità degli amministratori e sindaci tra «vecchio» e «nuovo» diritto (nota a Trib. Milano, 3 febbraio 2010), in Giur. It., 2010, 11 ss.; De Giorgi, Responsabilità degli amministratori ex art. 2449 e quantificazione dei danni, in Soc., 2003, 1015 ss.; in giurisprudenza, si vedano Trib. Milano, 11 novembre 2002, in Soc., 2003, 1015; Trib. Milano, 7 febbraio 2003, in Soc., 2003, 1385 ss.; Trib. Milano, 3 febbraio 2010, in Giur. It., 2010, 11 ss. Trib. Bologna, 22 ottobre 2015; Trib. Venezia, 15 febbraio 2017).

Secondo parte della dottrina, il criterio in questione sarebbe preferibile rispetto al criterio anzidetto del c.d. deficit fallimentare perché consentirebbe di evitare il proliferare di condanne nei confronti degli amministratori per operazioni non conservative del patrimonio quando alle stesse non sia conseguito un effettivo aggravamento delle perdite (cfr. De Giorgi, Responsabilità degli amministratori, cit., 1015 ss.). Secondo un'altra opinione, mentre il criterio del deficit fallimentare si collocherebbe al di fuori delle dinamiche dell'attività di impresa, il criterio dei netti patrimoniali meglio catturerebbe la formazione del danno quale conseguenza della progressione dell'attività d'impresa, in casi in cui non è possibile isolare le conseguenze dannose dei singoli atti gestori (in tal senso, Penta, La quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità: le operazioni compiute dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, cit., 670 ss.).

Anche tale metodo, tuttavia, non è andato esente da critiche. Si è, infatti, affermato che non si può addebitare all'amministratore ogni decremento patrimoniale a prescindere da una valutazione dei singoli atti compiuti (cfr., Fabiani, L'azione di responsabilità per le operazioni successive allo scioglimento nel passaggio tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fall., 2004, 300; in giurisprudenza, Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall., 2009, 565 e in Giust. Civ., 2009, 11, 2437 ss. con nota di Brizzi, La mala gestio degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la quantificazione del danno); ciò, tra l'altro, si tradurrebbe in un incentivo all'inerzia degli amministratori dal momento in cui si verifica una causa di scioglimento. Infine, non può non considerarsi che la comparazione tra i netti patrimoniali viene effettuata mettendo a confronto due bilanci redatti con criteri differenti, essendovi da un lato il bilancio di esercizio e dall'altro il bilancio di liquidazione (cfr. Balzarini, Commento all'articolo 2486 c.c., in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Marchetti – Bianchi – Ghezzi – Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, 2016, 67).

Gli orientamenti della giurisprudenza pre-riforma fallimentare: dalle sentenze di fine anni settanta alle Sezioni Unite del 2015

Come accennato in precedenza, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi numerose volte sulla quantificazione del danno derivante da condotte poste in essere in violazione dell'art. 2486 c.c.

La possibilità che il danno risarcibile fosse quantificato nella differenza tra attivo e passivo accertati in sede fallimentare, è stata affermata per la prima volta dalla Corte di Cassazione alla fine degli anni settata (cfr. Cass., 4 aprile 1977, n. 1281). Il caso deciso dalla Corte di legittimità verteva sulla responsabilità dell'amministratore che, contravvenendo al divieto di cui all'art. 2449 c.c. (ante-riforma), compiva “nuove operazioni” dopo il verificarsi dello scioglimento della società per perdita di oltre un terzo del capitale sociale (cfr. in senso conforme anche Cass. 23 giugno 1977, n. 2671).

Qualche anno dopo la Suprema Corte tornava in argomento, confermando la bontà del predetto criterio anche in un caso in cui alla violazione degli amministratori, si accompagnava anche l'assenza della contabilità sociale (cfr. Cass., 19 dicembre 1985, n. 6493).

Solo nel corso del decennio successivo, anche in seguito alle critiche formulate dalla dottrina, che enfatizzava l'inadeguatezza di tale metodo a dar conto del nesso di causalità tra la condotta e il danno risarcibile, la giurisprudenza iniziava ad interrogarsi più approfonditamente sulla questione. Ecco quindi che, con una pronuncia di fine anni novanta (cfr. Cass., 17 settembre 1997, n. 9252, in Foro It., 1998, I, 243), il giudice di legittimità compiva un passo di rottura con il passato, affermando che il danno che gli amministratori sono tenuti a risarcire, quando abbiano violato il divieto di intraprendere nuove operazioni (sulla base dell'allora dettato normativo dell'articolo 2449 c.c.) non si identifica automaticamente nella differenza tra passivo e attivo in sede di fallimento, ma può essere commisurato a tale differenza solo ed esclusivamente in mancanza di una prova del maggior pregiudizio e solo se, da tale violazione, sia dipeso il dissesto economico e conseguente fallimento della società. Ancor più netta era la posizione della Suprema Corte, assunta con una pronuncia di poco più recente (Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488), con la quale esprimeva il principio di diritto secondo cui il danno non andasse determinato utilizzando il summenzionato criterio differenziale, bensì tenendo conto delle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate all'amministratore.

Tale ultimo orientamento veniva confermato dalla giurisprudenza successiva (cfr., tra le altre, Cass., 8 febbraio 2000, n. 1375; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2538, in Giur. It., 2005, 1637 ss.; Cass., 15 febbraio 2005, n. 3032, in Foro It., 2006, 1898 ss.; Cass., 23 luglio 2007, n. 16211; Cass., 23 giugno 2008, n. 17033, cit.), che ha continuato ad affermare che il danno non può essere semplicemente commisurato alla differenza tra attivo e passivo accertati in sede concorsuale, «sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno», seppur con la precisazione che tale criterio può essere utilizzato in ipotesi residuali, come parametro per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora venga accertata l'impossibilità di ricostruire, con l'analiticità necessaria, le conseguenze dannose; in tal caso, tuttavia, il giudice di merito avrebbe dovuto giustificare il ricorso a tale criterio, illustrando le ragioni che non avrebbero consentito una ricostruzione puntuale del danno, nonché la plausibilità logica del ricorso a tale criterio.

In tale quadro giurisprudenziale, si inseriscono due ulteriori pronunce del giudice di legittimità del 2011 che, pur muovendo dai principi affermati dalla precedente giurisprudenza in argomento, hanno affermato come, in caso di assoluta mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili, tale da rendere impossibile per il curatore la prova del nesso causale, si verifichi una vera e propria inversione dell'onere probatorio (cfr. Cass., 11 marzo 2011, n. 5876, in Foro it., Rep. 2011, Società, n. 602 e Cass., 4 aprile 2011, n. 7606, in Danno e resp., 2012, 48 ss., secondo cui la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili integri di per sé una condotta illecita in grado di tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale).

Da ultimo, con la nota pronuncia Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100 (che si analizzerà nel dettaglio nel prossimo paragrafo), il giudice di legittimità è intervenuto a comporre il contrasto trentennale in argomento chiarendo i criteri per la quantificazione del danno nella specifica fattispecie.

La giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi anche sul metodo dei netti patrimoniali: come detto, tale criterio è stato oggetto di talune sentenze di merito (cfr., ex multis, Trib. Milano, 11 novembre 2002, cit., 1015; Trib. Milano, 7 febbraio 2003, cit., 1385 ss.; Trib. Milano, 3 febbraio 2010, cit., 11 ss.; Trib. Bologna, 22 ottobre 2015; Trib. Venezia, 15 febbraio 2017), nonché di una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass., 20 aprile 2017, 9983, in questo portale, con nota di Galletti, Abusiva concessione del credito e legittimazione della curatela), sebbene anch'esso destinato ad essere utilizzato in situazioni residuali nel contesto di una valutazione equitativa da parte del giudice.

(Segue): Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100

Con la sentenza a Sezioni Unite del maggio 2015, la Suprema Corte giunge a sancire l'inapplicabilità del criterio del c.d. deficit fallimentare, definendolo un criterio inadeguato in quanto in contrasto con il principio di causalità sancito nel nostro ordinamento, nonché potenzialmente erroneo in eccesso o in difetto, in quanto suscettibile di ricomprendere danni derivanti da fattori diversi e ulteriori rispetto alla condotta antigiuridica colposa o dolosa dell'amministratore (cfr. Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100, in Foro it., 2016, 1, I, 272 e in Giur. Comm., 2016, 3, II, 529, con nota di Bassi – Cabras, Fortunato – Galletti – Jorio – Montalenti – Racugno – Sacchi, Differenza tra attivo e passivo e quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori; nota di Agnino, L'omessa tenuta delle scritture contabili e il criterio di accertamento del danno; e nota di Cossu, Azione di responsabilità della curatela fallimentare e quantificazione del danno risarcibile). La liquidazione del danno risarcibile deve prendere in considerazione esclusivamente gli specifici atti illeciti dell'amministratore, con onere di allegazione in capo all'attore.

La Corte di Cassazione, spingendosi ancora oltre, anche in contrasto con quanto affermato nelle pronunce del 2011 sopra citate, ha sancito, inoltre, l'inutilizzabilità di tale criterio anche nel caso di assenza o irregolarità delle scritture contabili della società pur addebitabili all'amministratore, in quanto tali circostanze non sono collegate da un nesso eziologico con il danno costituito dal c.d. deficit fallimentare; emblematico in tal senso il seguente passaggio della sentenza: «la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l'attività di impresa, non li determina, ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità».

Secondo la Corte, sebbene l'omessa tenuta delle scritture contabili integri una specifica violazione degli obblighi in capo agli amministratori, e tale violazione possa comportare un pregiudizio per il patrimonio sociale, lo stesso non può certamente quantificarsi nella differenza tra il passivo e l'attivo accertanti in sede fallimentare, né un simile pregiudizio può presumersi.

Ne consegue che una tale presunzione (e l'inversione dell'onere della prova che ne deriva) non fosse giustificata dal fatto che l'amministratore fosse venuto meno ai suoi doveri di corretta tenuta delle scritture contabili. L'inversione dell'onere della prova non sarebbe giustificata neppure – continua la Suprema Corte – dal principio di vicinanza della prova – inapplicabile ad un amministratore di una società fallita e in quanto tale spossessato dell'azienda e dei relativi documenti – che postula almeno l'allegazione degli specifici atti lesivi che hanno cagionato il danno; il che non si ha nel caso in cui l'unica allegazione riguardi la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili, condotte che – come detto sopra – seppur illecite, non sono quelle che hanno provocato il danno (in tal senso, si veda anche Galletti, Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti, in ilFallimentarista).

In altri termini, l'inadempimento degli amministratori ai propri doveri come sanciti nella specifica fattispecie dell'art. 2486 c.c. non può essere un inadempimento generico, ma deve essere un inadempimento qualificato «e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno» – per utilizzare l'espressione della Suprema Corte.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte concludeva ammettendo l'utilizzo del criterio della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare solo in via equitativa, a condizione che ricorressero determinate circostanze e che fossero motivate le ragioni che non consentivano l'accertamento delle specifiche condotte pregiudizievoli e del nesso eziologico rispetto al danno prodotto, nonché la plausibilità logica del ricorso a tale criterio.

Da tale impostazione, è derivato che non bastasse allegare la mancanza o irregolarità delle scritture contabili, ma fosse necessario allegare (e provare) la condotta antigiuridica e il nesso di causalità, rimettendo alla valutazione equitativa del giudice solo il quantum del risarcimento.

Le novità del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza

Il Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza ha introdotto una nuova previsione al comma 3 dell'art. 2486 c.c., che così recita: «Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in cado di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione».

La norma prosegue, poi, sancendo che se è stata aperta una procedura concorsuale e in mancanza delle scritture contabili ovvero se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possano essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

La novella dell'art. 2486 c.c. pone già dei dubbi nei primi commentatori, soprattutto in merito alla coerenza con l'impianto della responsabilità risarcitoria previsto nel nostro ordinamento. Non può per altro tacersi l'orientamento della più recente giurisprudenza di legittimità che, come sopra illustrato, aveva enfatizzato la natura residuale dei criteri anzidetti e che, con particolare riferimento al criterio della differenza tra attivo e passivo, aveva censurato il ricorso indiscriminato e “automatico” a tale ultimo criterio in mancanza o in caso di irregolarità delle scritture contabili in quanto non tiene conto del nesso di causalità nella determinazione della responsabilità e sembra piuttosto configurare una responsabilità di tipo sanzionatorio (in tal senso, Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100).

La norma, infatti, è intervenuta a sancire l'applicazione di una presunzione che – seppur relativa – pone generalmente a carico del convenuto l'onere di dimostrare il diverso ammontare del danno, in situazioni in cui la prova del quantum dannoso è estremamente complicata.

D'altra parte, pare doveroso precisare che l'intervento normativo attiene, non tanto al profilo sostanziale della fattispecie, bensì al profilo probatorio, con esclusivo riferimento alla quantificazione del danno. Il legislatore, a ben vedere, non è intervenuto ridefinendo gli elementi costitutivi della fattispecie, ma più semplicemente introducendo una inversione dell'onere probatorio – inversione che può considerarsi anche giustificata sulla base del principio cardine della c.d. “vicinanza alla prova”.

La relazione illustrativa al d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 spiega come il legislatore delegato si sia fatto carico di risolvere, anche in funzione “deflattiva”, un contrasto giurisprudenziale esistente in materia con l'obiettiva difficoltà di quantificare il danno in tutti i casi, nella pratica molto frequenti, in cui mancano le scritture contabili o le stesse non siano state tenute in modo regolare. Pare quindi che la ratio della norma sia quella di individuare ex ante un criterio, che in assenza di elementi probatori idonei e salva la facoltà per l'amministratore convenuto di allegare e provare tali elementi, consenta di determinare la misura del danno, anche e soprattutto in un'ottica di speditezza dei procedimenti giudiziali, con il fine ultimo di sgravare l'organo giurisdizionale di una valutazione spesso complessa e certamente dispendiosa in termini di costi e di tempo.

A ben vedere, la ratio appena illustrata si pone perfettamente in linea con gli obiettivi annunciati della riforma e rappresenta uno dei tanti interventi che il legislatore delegato ha fatto sulla base del leitmotiv della semplificazione processuale.

Più problematico pare, ad una prima lettura, l'ultimo capoverso del nuovo comma 3, relativo al criterio del c.d. deficit fallimentare: la formulazione della norma – che a differenza del precedente paragrafo non fa riferimento al criterio presuntivo, ma alla liquidazione da parte del giudice – pone alcuni dubbi interpretavi; ci si chiede, in particolare, se il legislatore abbia voluto, anche in questo caso, introdurre una presunzione relativa, che quindi possa essere oggetto di prova contraria, ovvero una presunzione assoluta o, addirittura, abbia agito sul piano sostanziale fino a stabilire il generale criterio per la quantificazione del danno.

Volendo attenersi ad una interpretazione coerente con i principi sanciti dal nostro ordinamento, nonché dalla già citata pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sembra opportuno limitare in via interpretativa la portata applicativa della norma, facendo rivivere il principio per cui tale criterio trovi applicazione, nell'ambito di una valutazione di tipo equitativo da parte del giudice, nel caso in cui sia di fatto impossibile giungere ad una quantificazione puntuale del danno con un diverso criterio.

Una diversa interpretazione porterebbe, di fatto, ad introdurre nel nostro ordinamento una fattispecie di danno non causalmente collegata con la singola condotta antigiuridica o, addirittura, a configurare una fattispecie di danno c.d. punitivo (prima non ammessa).

In conclusione

La nuova disposizione richiede, senza dubbio, uno sforzo interpretativo volto ad individuare con certezza il suo ambito di applicazione alla luce dei fondamentali principi del nostro ordinamento.

Come sopra accennato, non sono certamente prive di fondamento le perplessità ad oggi emerse in dottrina, seppur probabilmente non decisive.

Non sembra, infatti, del tutto superato dalla novella l'insegnamento della Corte di Cassazione a sezioni unite, con la conseguenza che il criterio adottato dal legislatore potrebbe essere qualificato come residuale, evitando così la codificazione di una nuova fattispecie di “danno punitivo”.

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