L'attività di ristorazione in condominio
03 Giugno 2019
È frequente che nel regolamento vi siano clausole di natura contrattuale (cioè accettate da tutti i condomini) contenenti limitazioni di destinazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, da intendersi come divieti di dare alle unità immobiliari una o più destinazioni possibili, ovvero come obblighi di preservarne l'originaria e normale destinazione per l'utilità generale dell'intero edificio. Tali divieti possono essere formulati mediante elencazione delle attività vietate: in tale ipotesi è sufficiente, al fine di stabilire se una determinata destinazione non sia consentita o limitata, verificare se sia inclusa nell'elenco. Di conseguenza se una clausola del regolamento vieta espressamente di destinare i locali a ristorante, nessun condomino (o suo conduttore) potrà aggirare tale insormontabile ostacolo, attesa l'evidente comune intenzione dei contraenti di impedire quelle attività potenzialmente idonee a produrre immissioni, siano esse di fumo, calore o altro, nocive per la salute e la tranquillità dei condomini (v., da ultimo, Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2019, n. 9402). Ne consegue che, qualora clausole contrattuali del regolamento di condominio facciano divieto di adibire i locali del fabbricato condominiale ad esercizio di ristorante, non occorre accertare, al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa costituisca oppure no immissione vietata a norma dell'art. 844 c. c. (con le limitazioni ed i temperamenti in tale norma indicati), in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono legittimamente imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche diverse o maggiori di quelle stabilite dalla citata norma e l'obbligo del condomino di adeguarsi alla norma regolamentare discende in via immediata e diretta ex contractu per il generale principio espresso dall'art. 1372 c. c. (v., ad esempio, Cass. civ., sez. II, 7 gennaio 1992, n. 49). Del resto, si deve ritenere pienamente valida anche quella pattuizione contenuta nel regolamento che vieta, in via generale, la destinazione di unità immobiliari ad attività di ristorazione, con la sola eccezione di quelle poste al piano terra e prospicenti una determinata strada pubblica, meglio identificate in una planimetria unita al regolamento condominiale. In tal caso, però, se altra clausola regolamentare prevede la facoltà di unificare più porzioni di sua proprietà, il singolo condomino non può ampliare lo spazio destinato alla ristorazione, aggirando così il divieto di svolgere l'attività in questione; tale conclusione è conforme non solo al significato letterale del regolamento condominiale, ma anche al principio di conservazione del contratto (art. 1367 c.c.) ed alla conformità alla natura ed oggetto del regolamento condominiale (art. 1369 c.c.), che esprime la comune intenzione dei condomini di escludere o limitare destinazioni dell'unità abitativa considerate contrarie alla tranquillità del caseggiato (v., in tal senso, Cass. civ., sez. II, 7 gennaio 2019, n. 149). Le clausole che non impediscono la ristorazione
È importante sottolineare come l'attività di ristorazione nei locali di proprietà esclusiva sia consentita a meno che una clausola del regolamento condominiale non la vieti esplicitamente. Invero le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni (Cass. civ., sez. II, 7 gennaio 2004, n. 23). In particolare, trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle relative norme, sia per quanto attiene all'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione circa le facoltà di destinazione, di norma spettanti al proprietario (v., in tal senso, Cass. civ., sez. II, 1 ottobre 1997, n. 9564). Infatti, solo se le clausole regolamentari contengono espressioni chiare è possibile apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. In ogni caso la condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti e i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. In quest'ottica si è ribadito che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'art. 1363 c.c. In ogni caso per «senso letterale delle parole» si deve intendere tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v., ex plurimis, Cass.civ., sez. II, 19 ottobre 2012, n. 18052). D'altronde, l'indagine ermeneutica è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo (v., tra le tante, Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2011, n. 7633). Applicando questi principi si è precisato che la presenza di una clausola del regolamento di condominio, espressamente limitativa della destinazione d'uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, non può portare a ritenere l'esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti che possono liberamente essere utilizzati come ristorante-pizzeria. Di conseguenza è stato considerato legittimo il comportamento di un condomino che ha ampliato il locale destinato a ristorante- pizzeria posto al piano terra, collegandolo, mediante la creazione di una scala interna, ad un appartamento posto al primo piano; infatti non è possibile trarre da una previsione che si occupa specificamente solo dei limiti alla facoltà di utilizzo dei locali terranei e dei cantinati, l'esistenza di un limite estremamente rigoroso quanto alle possibilità di utilizzo degli immobili soprastanti aventi diversa natura. Allo stesso modo l'attività di ristorazione è ammissibile se il regolamento vieta di aprire nel caseggiato una locanda, termine che, oltre a significare un albergo economico di categoria assai modesta, è usualmente utilizzato per indicare una trattoria con alloggio (v., in tal senso. Cass. civ., sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21307). Alle stesse condizioni si deve arrivare anche nel caso in cui una norma regolamentare vieti l'apertura di un'osteria, vocabolo che, ancorché nel tempo abbia parzialmente mutato il suo primogenio significato, non è un esatto sinonimo di "ristorante" né di "trattoria", riferendosi piuttosto, in maniera specifica, a quegli esercizi la cui principale attività commerciale consiste nella somministrazione di vino o di altre bevande alcoliche, solo occasionalmente accompagnata dalla consumazione di cibi (Cons. Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5031). All'opposto non sarà possibile allestire un ristorante se una clausola stabilisce che «le unità immobiliari al piano terreno potranno essere destinate, oltre che a negozi, a uffici in genere, depositi e magazzini anche di vendita», sempre che non ne derivino alcuna molestia al vicinato e alcun pericolo di danno allo stabile e agli abitanti di esso. Si è notato infatti che un'impresa di ristorazione è del tutto differente da quelle di conduzione di negozi di vendita, poiché è idonea – e ne basta la semplice potenzialità, indipendentemente dalla concreta sua verificazione – a snaturare il carattere proprio dell'edificio, compromettendone la quiete e la tranquillità, a causa in particolare delle immissioni rumorose e delle esalazioni di odori sgradevoli, che normalmente derivano dalle attività di tal genere, a causa della stessa loro natura, nonché dell'intensità, della durata e degli orari della frequentazione della clientela, ben diversi da quelli dei negozi, uffici in genere, depositi e magazzini anche di vendita (v., in tal senso, Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2010, n. 21841). È comunque doveroso segnalare che a volte i giudici di merito sembrano ricorrere ad interpretazioni di carattere estensivo, discostandosi dall'orientamento giurisprudenziale consolidato. Si richiama ad esempio il caso affrontato dalla Corte meneghina (App. Milano 23 novembre 2018, n. 5159) che doveva accertare se il mutamento di destinazione di una unità immobiliare adibita dapprima a negozio e, poi, trasformata in ristorante, violasse o meno la clausola regolamentare che poneva divieto ai condomini di esercitare le attività di locande, friggitorie e simili. In particolare, sulla base di una vietata interpretazione estensiva analogica, la Corte territoriale ha erroneamente affermato che l'uso del termine “simili”, in relazione al termine locande, dimostrerebbe l'intento di evitare l'esercizio di attività che comportino la presenza di un indifferenziato ed elevato numero di persone e quindi, l'attività di ristorante sarebbe pienamente assimilabile alle locande stesse. Secondo la giurisprudenza di merito, qualora il regolamento, con riferimento alle unità immobiliari poste al piano terreno, consenta attività commerciali e artigianali, esemplificandole in negozi, laboratori e magazzini, non è possibile escludere bar o ristoranti in ambito condominiale, posto che l'attività di ristorazione è pacificamente da annoverare tra le attività commerciali. Di conseguenza, per questa tesi, anche se una norma regolamentare vieta le attività industriali, si ritiene che l'attività di ristorazione non sia affatto vietata, ma l'attività esercitata, nel caso concreto, vada qualificata come attività prettamente commerciale e/o artigianale se il convenuto realizza prodotti con elementi finiti, servendosi di semplici apparecchiature e non si avvale di dipendenti (Trib. Roma 28 ottobre 2016, n. 21947). Del resto la dizione arcaica di "qualsiasi Industria" contenuta nei regolamenti non sarebbe da intendersi riferita ad attività industriale in senso stretto, bensì ad attività commerciale in generale. Recentemente, però la Suprema Corte ha precisato come l'esercizio di un'attività di ristorazione esuli dalla mera attività di commercio (la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sé consentita dalla disposizione regolamentare), in quanto comunque connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo, elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; in ogni caso non si può escludere che consista nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale. Tale conclusione - ad avviso dei giudici supremi - non è ostacolata dall'interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina in ordine alla nozione normativa di commercio, ai fini della riconducibilità ad essa dell'attività di ristorazione, in quanto l'interpretazione delle disposizioni di legge, regolata dall'art.12 preleggi, assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l'intenzione del legislatore, costituisce un'operazione ontologicamente distinta dall'interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica o per vizi di motivazione). Di conseguenza, aderendo alla tesi dei giudici di secondo grado, si è precisato che l'interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare i negozi ad uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l'esercizio dell'attività di ristorazione, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l'intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l'interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice e a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l'unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto. Ristorazione e pregiudizi vietati
È possibile che i divieti e le limitazioni relativi alle unità immobiliari di proprietà esclusiva siano formulati nel regolamento mediante riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare: in tal caso è necessario accertare l'idoneità in concreto della destinazione contestata a produrre gli inconvenienti vietati. Così è possibile che una clausola regolamentare proibisca di destinare i locali al piano terra ad usi che rechino disturbo – sia per rumori che per esalazioni o altro – alla restante parte del fabbricato. In tale ipotesi, per stabilire se l'attività è illegittima, si dovrà procedere ad un accertamento di fatto, tenendo conto non solo dell'entità delle immissioni acustiche ma anche di tutti i possibili elementi di disturbo che la considerata attività comporti incidendo sul bene oggetto di tutela. In altre parole bisognerà accertare, con accessi (anche senza preavviso) nel locale, la rumorosità dell'attività in sé ma anche i disturbi provocati all'esterno del locale dove si trovano tavoli o si organizzano eventi musicali. Naturalmente, l'indagine ermeneutica è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo. In ogni caso se nel regolamento del condominio vengono utilizzati entrambi i criteri di individuazione delle attività vietate (cioè quello della loro espressa elencazione, nonché quello del riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare), deve ritenersi, da un lato, che tutte le attività specificamente indicate siano di per sé vietate, senza necessità di verificare in concreto l'idoneità a recare i pregiudizi suddetti; dall'altro lato, che l'elenco delle attività vietate non sia tassativo, e che il divieto si estenda anche a tutte le destinazioni non espressamente menzionate, che siano comunque idonee a provocare i pregiudizi che si intendono evitare. Lo svolgimento all'interno di unità immobiliari condominiali di attività commerciali (soprattutto quelle legate alla ristorazione) spesso rende necessario dotare il locale di una nuova canna fumaria da collocare sulla parete esterna comune del caseggiato. Questa operazione non è impedita dalla circostanza che la realizzazione dell'opera (e la titolarità dell'autorizzazione commerciale) riguardi il locatario dell'immobile. Del resto l'installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un caseggiato non è in contrasto con la natura del muro comune e, quindi, può essere attuata dal singolo condomino, purché nel rispetto della normativa condominiale e delle altre normative speciali coinvolte. È possibile, però, che il singolo condomino non possa installare una nuova canna fumaria sulle parti comuni per la presenza nel regolamento di condominio di una clausola contrattuale che abbia ad oggetto la conservazione dell'originaria facies architettonica dell'edificio. Tale pattuizione, comprimendo il diritto di proprietà dei condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificativa, persino migliorativa, appresta in tale modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero decoro architettonico dagli artt. 1120, comma 2, 1127, comma 3, e 1138, comma 1, c.c., con la conseguenza che, in presenza di opere esterne, la loro realizzazione integra di per sé una vietata modificazione dell'originario assetto architettonico dell'edificio (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2012, n. 8174). In tale ipotesi è evidente che, una volta accertata la violazione del divieto previsto dal regolamento condominiale, deve senz'altro ritenersi illegittima l'apposizione della canna fumaria, rimanendo precluso per il giudice di merito ogni diversa valutazione circa la sussistenza di una concreta menomazione del decoro architettonico e di un effettivo pregiudizio derivato all'edificio condominiale. Del resto è possibile che una diversa clausola di natura contrattuale preveda, sotto pena dell' obbligo di demolire la nuova opera, il divieto di apportare modifiche alle cose comuni, anche se dirette al miglioramento e all'uso più comodo e al maggior rendimento delle stesse, se non previa deliberazione dell'assemblea con una determinata maggioranza. In tal caso il singolo condomino richiedente non può pretendere che l'autorizzazione gli sia concessa perché ciò equivarrebbe ad abrogare detta disposizione regolamentare. Se gli viene concessa, però, il condomino può procedere con le modifiche in quanto l'autorizzazione, stabilita dall'assemblea, su richiesta del condomino, non può che interpretarsi come riconoscimento, in concreto, del fatto che l'uso più intenso prospettato dal singolo non possa essere considerato illecito. All'opposto l'apposizione di tale manufatto sulla facciata senza il consenso assembleare comporta il diritto della restante collettività condominiale a pretendere la rimozione di quanto abusivamente realizzato. Questa considerazione vale anche nel caso in cui il condomino si limiti semplicemente ad informare l'amministratore della realizzazione dell'opera. Infine merita di essere precisato che quella particolare pattuizione regolamentare che - in deroga ad altre clausole dello stesso regolamento – consenta ad uno dei condomini di adibire le unità di sua proprietà individuale ad attività di ristorazione, rappresenta qualcosa di più della semplice assenza di divieto, atteso che elimina, in radice, ogni possibile contestazione sulla specifica utilizzazione, con riguardo, ad esempio, alla compatibilità di essa con il decoro dello stabile o all'ammissibilità di forme di uso più intenso di beni condominiali in funzione della destinazione anzidetta (Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 2004, n. 1015). Secondo un principio consolidato l'amministratore è tenuto a far osservare tutte le disposizioni del regolamento, nel suo complesso, anche se disciplinano l'uso delle parti del fabbricato di proprietà individuale, dal momento che l'art. 1130 c.c. gli attribuisce, senza alcuna distinzione, il potere/dovere di curare l'osservanza delle norme del regolamento di condominio (v., per tutte, Cass. civ., sez. II, 29 aprile 2005, n. 8883). In particolare, ai sensi dell'art. 1131 c.c. in relazione all'art. 1130 c. c., l'amministratore del condominio è legittimato a far valere in giudizio le norme regolamentari anche quando esse dettino prescrizioni che si riferiscano all'uso di cose di proprietà individuale, sempre che incidano sulla disciplina e sui rapporti relativi alle cose comuni, cosicché la violazione di dette prescrizioni si risolva in un uso della cosa di proprietà individuale che si rifletta sulle cose comuni, ponendo in essere un uso abnorme delle stesse (v., ad esempio, Cass. civ., sez. II, 8 aprile 1983, n. 2499: nella specie, nei locali a piano terreno di un condominio, contro il divieto contenuto nel regolamento condominiale, era stata installata una friggitoria, con propagazione di odori molesti per scale, androni e cortili). Di conseguenza è pienamente condivisibile l'orientamento dominante secondo cui il potere/dovere di cui all'art. 1130, n. 1, c.c. consente l'esperimento di azioni giudiziarie nei riguardi dei trasgressori senza che sia necessaria alcuna delibera dell'assemblea condominiale, essendo l'amministratore tenuto ex lege a curare il rispetto del regolamento (Cass. civ., sez. II, 12 luglio 2012, n. 11841) e tenendo conto che, in caso di inerzia, si potrebbe configurare una sua responsabilità. Così l'amministratore di condominio, essendo tenuto a curare l'osservanza del regolamento di condominio, è legittimato ad agire e a resistere in giudizio per ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento condominiale contrattuale (nella specie, ristorante), senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare assunta con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c., la quale è richiesta soltanto per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell'amministratore stesso (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2010, n. 21841). Infatti, sebbene tali disposizioni regolamentari presentino come oggetto le singole unità immobiliari, la loro mancata osservanza incide sull'interesse generale al decoro, alla tranquillità e all'abitabilità dell'intero edificio. Naturalmente prima dell'iniziativa giudiziaria l'amministratore può agire in via stragiudiziale nei confronti del trasgressore, con inviti e diffide e, laddove prevista nel regolamento di condominio, l'amministratore potrà dare pratica attuazione alla sanzione pecuniaria deliberata dall'assemblea ex art. 70 disp. att. c.c. I limiti alla destinazione delle proprietà esclusive contenuti nel regolamento di condominio sono qualificati come delle servitù atipiche in quanto incidono non sull'estensione del diritto, ma sull'esercizio del diritto di ciascun condomino. In particolare si tratta di servitù reciproche, poste a carico e a favore di ogni unità immobiliare compresa nel condominio (anche se non è da escludere che la limitazione riguardi solo un determinato appartamento). Naturalmente anche le clausole limitative del diritto di destinazione a bar delle singole unità immobiliari rientrano nella categoria delle servitù (reciproche) atipiche con la conseguenza che l'opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti (cioè quelli successivi al primo acquirente che ha acquistato direttamente dal costruttore-venditore) deve essere regolata secondo le norme proprie delle servitù, mediante l'indicazione, in apposita nota, delle specifiche clausole che vietano determinate attività o pregiudizi, non essendo, invece, sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale contenuto nel rogito di acquisto (Cass. civ., sez. II, 18 ottobre 2016, n. 21024). Di conseguenza, qualora tali clausole limitative siano inserite nel regolamento predisposto dal costruttore venditore, originario unico proprietario dell'edificio, con le note di trascrizione del primo atto di acquisto di un'unità immobiliare e delle clausole che limitano l'uso delle abitazioni dei singoli condomini (creando vincolo reale reciproco), si determina l'opponibilità di quelle servitù, menzionandovi tutte le distinte unità immobiliari, cioè ciascuno dei reciproci fondi dominante e servente; successivamente, in occasione delle vendite delle altre unità immobiliari, non sarà sufficiente richiamare il regolamento di condominio, ma sarà necessaria una ulteriore trascrizione per le clausole che impongono le servitù. Si deve però considerare che, anche in assenza di trascrizione, queste disposizioni del regolamento, che stabiliscono i limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, valgono altrimenti soltanto nei confronti del terzo acquirente che ne prenda atto in maniera specifica nel medesimo contratto d'acquisto. Di conseguenza, in mancanza della certezza legale della conoscenza della servitù da parte del terzo acquirente, derivante dalla trascrizione dell'atto costitutivo, occorre verificare la certezza reale della conoscenza di tale vincolo reciproco, certezza reale che si consegue unicamente mediante la precisa indicazione nel contratto della servitù gravante sull'immobile oggetto del contratto (Cass. civ., sez. II, 19 marzo 2018, n. 6769). In conclusione
La Suprema Corte ha precisato che, anche se l'immobile è nella disponibilità del conduttore, per l'eventuale inosservanza delle norme del regolamento da parte del conduttore, non viene meno la responsabilità del condomino- locatore che è tenuto non solo ad imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, ma altresì a prevenirne le violazioni e a sanzionarle anche mediante la cessazione del rapporto (Cass.civ., sez.II, 16 maggio 2006, n.11383; Trib. Monza 7settembre 2016, n. 2395). In ogni caso nel caso di violazione di disposizioni contenute nel regolamento condominiale, quando non sia contestata l'effettiva opponibilità della clausola al condomino locatore, il condominio può chiedere giudizialmente, nei diretti confronti del conduttore di un appartamento del fabbricato condominiale, la cessazione della destinazione abusiva. Qualora, invece, il giudizio si estenda anche a sindacare la validità del divieto, derivante dal regolamento contrattuale di condominio, di conferire una certa destinazione all'immobile (divieto riguardante tanto il proprietario quanto il conduttore) si verte proprio in caso di litisconsorzio necessario: si devono cioè citare in giudizio sia il proprietario sia il conduttore per cui non ha senso scindere la causa, con la possibilità di pronunzie distinte ed eventualmente contraddittorie (Cass. civ., sez. II, 8 marzo 2006, n. 4920). Celeste - Scarpa, Il condominio negli edifici, Milano,2017, 657; Celeste - Salciarini - Terzago, Il condominio, Milano,2015, 485; Celeste - Scarpa, Il regolamento, le tabelle e le spese, Milano,2014, 42; Salciarini, Condominio, Milano,2012, 233; Corona, I regolamenti di condominio, Torino,2004, 87; Triola, Condominio e contenzioso, Milano, 1995, 131. |