Insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento e relativo regime di tutela
03 Giugno 2019
Massima
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai fini dell'applicazione della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18, st. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice è tenuto ad accertare che vi sia una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento e, in caso di esito positivo di tale verifica, a procedere all'ulteriore valutazione discrezionale sulla non eccessiva onerosità del rimedio, essendo altrimenti applicabile la sola tutela risarcitoria di cui al comma 5 dell'art. 18, st. lav.
Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, omettendo completamente le suddette verifiche, aveva riconosciuto la tutela reale in favore di una giornalista adibita a un ufficio di corrispondenza all'estero come collaboratrice fissa, sulla base della semplice constatazione che il datore di lavoro non aveva provato il venir meno dell'esigenza di tale figura professionale. Il caso
La Corte d'appello di Roma, riformando la pronuncia del giudice di prime cure, ha accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro giornalistico in esame ed annullato il licenziamento intimato dal datore di lavoro, condannando il medesimo a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro ed al pagamento di dodici mensilità a titolo di indennità risarcitoria.
La Corte territoriale affermava che i motivi addotti nella lettera di recesso, e consistenti nel venir meno della necessità di collaborazioni esterne e nel dissenso tra le parti rispetto alla qualificazione (autonoma o subordinata) del rapporto, fossero da considerare di per sé superati dalla qualificazione giudiziale del rapporto di lavoro come di natura subordinata, aggiungendo che, d'altronde, il datore non aveva provato che fosse venuta meno, come dedotto nelle difese giudiziali, la necessità, in aggiunta ad un giornalista-redattore, anche di una collaboratrice fissa, quale doveva qualificarsi la ricorrente, presso l'ufficio di Madrid, senza contare che l'avvenuta ricostituzione di un ufficio di corrispondenza in concomitanza con il licenziamento della predetta induceva ad ulteriormente dubitare della genuinità delle argomentazioni addotte.
La Corte d'appello riteneva poi che la ricorrente fosse da inquadrare come collaboratore fisso ex art. 2, C.C.N.L., e non come giornalista-redattore esterno o corrispondente, come dalla stessa rivendicato e quindi, tenuto conto che contemporaneamente la lavoratrice prestava collaborazione per un'altra testata giornalistica, calcolava l'indennizzo risarcitorio in misura pari, per ciascuna mensilità, al 60% della retribuzione spettante al redattore ordinario.
Avverso tale sentenza il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione con dieci motivi; resisteva la lavoratrice con controricorso, contenente anche un motivo di ricorso incidentale, cui ha resistito il datore con proprio controricorso, contenente un ulteriore motivo di ricorso incidentale condizionato. Il datore ha infine depositato memoria ex art. 378, c.p.c. La questione
Il caso in esame consente di riflettere sulla delicata questione dell'interpretazione dell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo insussistente e, di conseguenza, sull'inquadramento del relativo regime di modulazione delle tutele.
Sul punto è opportuno osservare che recentemente la Cassazione, in ragione della particolare importanza concernente la portata applicativa del comma 7 dell'art. 18, l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, ha enunciato il principio di diritto secondo cui la verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La "manifesta insussistenza" va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al medesimo comma 4 dell'art. 18, ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro (Cass. n. 10435 del 2018).
Sul punto deve rilevarsi che secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repêchage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (Cass. n. 4460 del 2015; Cass. n. 5592 del 2016; Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 27792 del 2017).
Per quanto concerne il regime probatorio, premesso che ai sensi dell'art. 5, l. n. 604 del 1966, l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro, va evidenziato che sul creditore attore, cioè sul lavoratore che impugna il licenziamento come illegittimo, grava l'onere di allegazione e di prova della fonte del proprio diritto, id est, il rapporto di lavoro, nonché di allegazione dell'inadempimento della controparte, vale a dire l'esercizio illegittimo del diritto di recesso per g.m.o., mentre il datore di lavoro, in qualità di debitore convenuto, è onerato della prova del fatto estintivo, consistente nel legittimo esercizio del diritto di recesso per g.m.o. nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, anche l'impossibilità di repêchage: coerentemente con i principi di persistenza del diritto (art. 2697, c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova (Cass., sez. un., n. 13533 del 2001).
In particolare, con riferimento all'obbligo di repêchage si è ritenuto che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l'onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.
Dunque, sul datore di lavoro incombe l'onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l'esercizio del potere di recesso, ossia l'effettiva sussistenza di una ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda nonché l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (Cass. n. 20436 del 2016; Cass. n. 160 del 2017; Cass. n. 9869 del 2017).
Per quanto attiene, invece, alla ragione inerente l'attività produttiva (art. 3, l. n. 604 del 1966), la Suprema Corte ha più volte ribadito che la stessa è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali. La modifica della struttura organizzativa aziendale - espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41, Cost. - che legittima l'irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell'attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito, sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell'incremento della redditività, fermo restando, da una parte, la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali (come previsto dalla l. n. 183 del 2010, art. 30, comma 1, nonché, con lo stesso fine, dal d.lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 3, e art. 69, comma 3, e dalla l. n. 92 del 2012, art. 1, comma 43) ma, dall'altra, il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso nonché sul nesso causale tra l'accertata ragione e l'intimato licenziamento (Cass. n. 10435 del 2018).
Così, premesso che al giudice è demandato il compito di riscontrare nel caso concreto la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento ed il nesso di causalità fra tale motivo ed il recesso, e posto che nella nozione di licenziamento per g.m.o. rientra, come precedentemente osservato, sia l'esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie. Invero, a fronte dell'espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il "fatto", sganciata da richiami diretti ed espliciti alle "ragioni" connesse con l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva previste dalla l. n. 604 del 1966, art. 3, il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata. Quindi, una volta accertata l'ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti, il giudice di merito, ai fini dell'individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta, ossia evidente, l'insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che causalmente determini un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse (Cass. n. 10435 del 2018). Le soluzioni giuridiche
Preliminarmente va rilevato che la Suprema Corte ha osservato che il concetto di "manifesta insussistenza" dimostra come il legislatore abbia voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria; non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi della l. n. 604 del 1966, art. 5, deve cimentarsi, esso va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità (Cass. n. 10435 del 2018).
Sul versante del regime di tutela, giova sottolineare che il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevede, inoltre, che il giudice che ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro. Nello schema legislativo è previsto, infatti, che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti "può" essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione nel posto di lavoro (l. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4) oppure il risarcimento del danno (comma 5 della medesima norma), e la soluzione esegetica da privilegiare non può prescindere dal tenore lessicale della disposizione, non potendosi condividere interpretazioni (cfr. Cass. n. 17528 del 2017) che privino di significato il dato letterale.
L'applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale. La legge non fornisce nessuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo o a quello meno rigoroso ma dovendo, la scelta di tale alternativa, essere motivata dal giudice, si impone all'interprete lo sforzo esegetico di individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale possa essere esercitato. Il criterio che consente al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore, può essere desunto dai principi generali forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058, c.c., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, Cass. n. 15726 del 2010; Cass. n. 4925 del 2006; Cass. n. 2569 del 2001; Cass. n. 582 del 1973) ovvero di diminuire l'ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384, c.c.). Il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria (Cass. n. 10435 del 2018). Osservazioni
Per mere ragioni di completezza, sembra opportuno segnalare che in un obiter dictum la Suprema Corte ha recentemente affermato che l'art. 18, st. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, dispone (comma 7) che il giudice applichi la disciplina di cui al comma 4, e cioè la più forte ed incisiva tutela costituita dalla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello della effettiva reintegrazione, entro il limite delle dodici mensilità “nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; e che applichi, invece, la disciplina di cui al comma 5, e cioè la condanna del datore di lavoro al solo pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” (Cass. n. 7167 del 2019). In sostanza, il nuovo regime sanzionatorio introdotto dalla l. n. 92 del 2012 in tema di recesso datoriale per g.m.o. prevede, come regola, il pagamento a favore del lavoratore di un'indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità, mentre riserva il ripristino del rapporto, oltre ad un risarcimento che non può superare le dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alle ipotesi eccezionali connotate – in luogo del mero difetto degli “estremi” della fattispecie – della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento (Cass. n. 14021 del 2016). Ne consegue che l'espressione “può altresì applicare” che compare al principio della disposizione di cui al comma 7 dell'art. 18, st. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, non assegna al giudice un margine ulteriore di discrezionalità (tra casi reputati meritevoli della più severa sanzione per la loro estrema gravità e casi che, pur rivelandosi compresi anch'essi nell'identico e comune ambito di eccezione, non siano considerati tali), posto che, ove il fatto sia caratterizzato dalla “manifesta insussistenza”, è unica, e soltanto applicabile, la protezione del lavoratore rappresentata dalla disciplina di cui al comma 4 (Cass. n. 7167 del 2019).
|