L'ANF al lavoratore somministrato a tempo determinato nel periodo di disponibilità presso l'agenzia
03 Giugno 2019
Massima
La permanenza del sinallagma contrattuale per tutta la durata del rapporto di lavoro somministrato a tempo indeterminato, da un lato, e la natura assistenziale dell'assegno per il nucleo familiare, dall'altro, comportano che tale ultimo assegno debba esser riconosciuto ai lavoratori somministrati, sia nei periodi di utilizzazione presso terzi, che nella fase di disponibilità in vista di future utilizzazioni, dovendosi procedere ad una interpretazione sistematica ed evolutiva delle norme sugli assegni familiari, originariamente coniate sul tradizionale modello del lavoro dipendente. Il caso
La controversia trae origine dal mancato riconoscimento, da parte dell'Inps, del diritto di un lavoratore somministrato a percepire l'Assegno per il Nucleo Familiare (ANF) per tutta l'effettiva durata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze di un'agenzia di somministrazione di lavoro (e cioè, sia per i periodi di effettiva utilizzazione, che per quelli di disponibilità in vista di future utilizzazioni).
Ciò sulla base della considerazione che la corresponsione degli assegni familiari presuppone, da un lato, lo svolgimento effettivo della prestazione lavorativa, e, dell'altro, la percezione della retribuzione, non potendosi ritenere ad essa equiparabile la corresponsione dell'indennità mensile di disponibilità di cui al terzo comma dell'art. 22, d.lgs. n. 276 del 2003, che esclude espressamente detta indennità “dal computo di ogni istituto di legge e di contratto collettivo”. La questione
La questione da esaminare è accertare la compatibilità dell'istituto dell'Assegno per il Nucleo Familiare con la peculiare struttura trilaterale del contratto di somministrazione di lavoro, caratterizzato, da un lato, dalla presenza di tre distinti soggetti (agenzia di somministrazione, lavorator somministrato ed utilizzatore), e, dall'altro, dalla dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro ex parte datoris e l'effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa. Ciò in quanto, come sostenuto dall'Inps, l'art. 2, d.l. 13 marzo 1988, n. 69 (conv. con modif. in l. 13 maggio 1988, n. 153), che ha istituito l'assegno per il nucleo familiare, richiama, al terzo comma, le norme contenute nel testo unico sugli assegni familiari, approvato con d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, ai sensi del quale gli assegni familiari spettano “ai capi-famiglia che prestino lavoro retribuito alle dipendenze di altri” (art. 1), vanno riconosciuti “qualunque sia il numero delle giornate prestate” (art. 12) e sono commisurati nel quantum al numero di “giornate di lavoro effettivamente prestate” (art. 59). Da ciò conseguirebbe, secondo l'Inps, che l'Assegno per il Nucleo Familiare può essere riconosciuto esclusivamente per le giornate di effettiva prestazione lavorativa retribuita del lavoratore somministrato (cioè di utilizzazione presso terzi), e non anche con riguardo ai periodi di inutilizzazione, in cui il lavoratore resta in una situazione di disponibilità, percependo solo il trattamento indennitario previsto dal terzo comma dell'art. 22, d.lgs. n. 276 del 2003 (c.d. indennità mensile di disponibilità), non avente natura strictu sensu retributiva, in quanto non correlato sinallagmaticamente all'esecuzione della prestazione lavorativa.
I giudici dei due gradi di merito avevano tuttavia accolto il ricorso del lavoratore volto al riconoscimento del diritto a percepire l'Assegno per il Nucleo Familiare, argomentando sul fatto che, nel lavoro somministrato, il sinallagma funzionale del rapporto di lavoro tra lavoratore e datore di lavoro era sussistente anche nei periodi non lavorati, in cui il lavoratore era comunque obbligato a rimanere a disposizione della agenzia di somministrazione in vista di future utilizzazioni, percependo l'indennità mensile di disponibilità. Le soluzioni giuridiche
L'Inps, a conforto della sua tesi, ha richiamato il principio di diritto espresso nella sentenza n. 6155 del 2004 della Suprema Corte, secondo cui “L'erogazione dell'assegno per il nucleo familiare […] presuppone - alla stregua della funzione previdenziale assunta dall'istituto rispetto alla originaria funzione di mera integrazione del salario - l'effettivo svolgimento di attività lavorativa, come si evince dalla disciplina generale sugli assegni familiari di cui al d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni ed integrazioni, richiamata dal comma 3 del predetto art. 2, la quale - ad eccezione di alcune particolari situazioni specificamente indicate (malattia, infortunio etc.) - commisura la entità degli assegni relativi a ciascun periodo di paga alle "giornate prestate" e ad un numero minimo di ore lavorate; ne consegue che, al di fuori delle predette situazioni particolari […], gli assegni non spettano per i periodi (nella specie, compresi fra la data di sospensione dell'attività produttiva e quella di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore) in cui, pur essendo formalmente in essere il rapporto, sia tuttavia carente la prestazione lavorativa in conseguenza della insussistenza del sinallagma funzionale del contratto”.
Nella sentenza in commento, invece, la Cassazione, confermando l'orientamento espresso dai giudici di merito ed all'esito di una accurata ricostruzione della disciplina degli istituti in parola, ha disatteso la tesi sostenuta dall'Inps, sulla base del seguente percorso logico-argomentativo:
Osservazioni
La sentenza in commento muove da un'analisi assai approfondita e sostanzialmente corretta della disciplina degli istituti in commento, sulla base di una loro interpretazione sistematica ed evolutiva, e non limitata al mero significato letterale delle parole utilizzate dal legislatore. Ciò in considerazione del fatto che il tenore letterale della originaria disciplina degli assegni familiari non poteva tener conto della successiva evoluzione normativa, e quindi della successiva introduzione, ad opera del legislatore, di rapporti di lavoro flessibili caratterizzati dalla scissione tra il soggetto titolare del rapporto di lavoro ex parte datoris ed il soggetto effettivo utilizzatore delle prestazioni.
Orbene, è noto che, come la Suprema Corte ha più volte evidenziato “l'assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall'art. 2, d.l. 13 marzo 1988, n.69, conv. in l. 13 maggio 1988, n.153 – finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell'eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e quindi nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero minorenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età – ha natura assistenziale” (cfr. Cass. n. 6351 del 2015). Tale istituto si caratterizza per assicurare un processo di redistribuzione del reddito, attraverso un sistema dei trattamenti diretto ad assicurare una tutela in favore di quelle famiglie che si mostrino effettivamente bisognose sul piano economico. Ed invero, l'assegno è attribuito in maniera differenziata in rapporto al numero dei componenti del nucleo familiare e al reddito del nucleo (in quanto più il nucleo familiare è numeroso e più il reddito è basso, più si accentua lo stato di bisogno), ed è aumentato nel caso in cui qualcuno di questi componenti sia colpito da infermità ovvero non sia nelle condizioni di dedicarsi proficuamente ad un lavoro in maniera permanente. Il che dimostra il carattere squisitamente assistenziale dell'istituto.
Il punto di compatibilità tra le due discipline in esame, pertanto, va individuato tenendo presenti: 1) la permanenza del sinallagma contrattuale (e degli obblighi reciproci) anche nei periodi di inutilizzazione del lavoratore somministrato a tempo indeterminato; 2) la natura retributiva dell'indennità di disponibilità da quest'ultimo percepita; 3) la natura assistenziale dell'Assegno per il Nucleo Familiare, in quanto teso ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in effettivo stato di bisogno, in misura variabile a seconda di quanto sia accentuato detto stato.
In quest'ordine di concetti interdipendenti, risulta evidente che tale prestazione ha la precipua funzione di assicurare la piena tutela del diritto del lavoratore (costituzionalmente garantito) ad una retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", per cui, sulla base di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle due discipline, non può che concludersi che sarebbe del tutto illogico e privo di base normativa riconoscere l'Assegno per il Nucleo Familiare al lavoratore somministrato a tempo indeterminato limitatamente ai periodi di sua effettiva utilizzazione, e non anche a quelli di disponibilità in vista di future utilizzazioni. Del resto, sotto un profilo logico-giuridico, se è vero che l'indennità di disponibilità ha natura retributiva, non si vede per quale motivo la stessa non dovrebbe essere soggetta ai parametri di proporzionalità e sufficienza posti dall'art. 36, Cost., i quali operano anche in relazione al carico familiare del lavoratore; così come, se è vero che tale indennità è soggetta ad ordinario prelievo contributivo (al pari della retribuzione), non si vede per quale ragione la stessa non dovrebbe dare diritto alle prestazioni alimentate da tale contribuzione, in applicazione dei principi generali che regolano le assicurazioni sociali, desumibili dall'art. 38, Cost., e dagli artt. 2114, 2115 e 2116, c.c.
È quindi indubbio che si tratti di prestazione che, per quanto aggiuntiva e integrativa di un reddito già esistente, rappresenta pur sempre un “sostegno di reddito minimo”, in quanto garantisce un incremento reddituale alle famiglie realmente bisognose (perché percettrici di entrate insufficienti a far fronte alle esigenze dell'intero nucleo familiare), affinché queste dispongano delle risorse minime per il mantenimento di detto nucleo.
In tale prospettiva ermeneutica, appare evidente che una interpretazione tesa a differenziare la posizione dei lavoratori somministrati “utilizzati” da quella di coloro che versano in situazione di “disponibilità” in vista di future utilizzazioni, andrebbe a collidere sia il principio di eguaglianza di cui all'art. 3, Cost., sia con il principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione posti dall'art. 36, Cost. Per tali ragioni, come condivisibilmente affermato nella sentenza in commento, il richiamo alla normativa di cui al d.P.R. n. 797 del 1955 (che fa riferimento solo a coloro che "prestino lavoro retribuito alle dipendenze di altri"), non può essere inteso in senso strettamente letterale e deve essere invece coordinato e rapportato anche con le peculiarità dell'istituto del lavoro somministrato, solo successivamente introdotto nell'ordinamento. Ne consegue che la situazione del lavoratore somministrato a tempo indeterminato in situazione di disponibilità deve essere parificata, ai fini dell'ANF, a quella dei "lavoratori che prestano lavoro retribuito alle dipendenze di altri", dovendosi sul punto adottare “una interpretazione adeguatrice del dato normativo, che adotti come elemento caratterizzante non la prestazione di lavoro dipendente, ma il sinallagma funzionale del rapporto in vista di una prestazione lavorativa. Sicché non sussiste alcun ostacolo ad applicare le norme del t.u. anche al lavoro somministrato laddove tale continuità permanga, sia che la stessa si esprima nello svolgimento di attività lavorativa presso terzi sia nella prestazione di disponibilità al somministratore”. |