Danno patrimoniale (risarcimento del)

05 Giugno 2019

Il sistema risarcitorio contemplato nel nostro ordinamento giuridico ha struttura bipolare, imperniandosi sulla distinzione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale: il primo consiste nella lesione di un interesse al conseguimento o alla conservazione di beni di natura economica, e dunque presuppone che si siano realizzate lesioni di utilità patrimoniali; per converso, il secondo discende dalla lesione di un interesse al conseguimento o alla conservazione di beni non economicamente rilevanti, e dunque implica l'integrazione di lesioni di utilità aventi natura non patrimoniale.

Inquadramento

Il sistema risarcitorio contemplato nel nostro ordinamento giuridico ha struttura bipolare, imperniandosi sulla distinzione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale: il primo consiste nella lesione di un interesse al conseguimento o alla conservazione di beni di natura economica, e dunque presuppone che si siano realizzate lesioni di utilità patrimoniali; per converso, il secondo discende dalla lesione di un interesse al conseguimento o alla conservazione di beni non economicamente rilevanti, e dunque implica l'integrazione di lesioni di utilità aventi natura non patrimoniale. Per l'effetto, la patrimonialità del danno risiede proprio nell'idoneità delle conseguenze pregiudizievoli della lesione ad una valutazione economica effettuabile sulla scorta di parametri oggettivi. Il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. è ammesso nei soli casi previsti dalla legge mentre l'illecito che può giustificare il risarcimento dei danni patrimoniali è connotato dal requisito dell'atipicità. Naturalmente i due tipi di danno possono coesistere.

La figura del danno patrimoniale, sia nella responsabilità da inadempimento, sia nella responsabilità aquiliana, è delineata nei suoi contorni (ossia allo scopo di delimitare l'area del danno risarcibile) dall'art. 1223 c.c., norma dettata nell'ambito della responsabilità del debitore che non abbia adempiuto la prestazione programmata, ma espressamente richiamata dall'art. 2056, comma 1, c.c. con riguardo alla disciplina dell'illecito extracontrattuale. Il danno patrimoniale si compone, dunque, delle due voci del danno emergente (ossia del nocumento rappresentato dalle perdite subite) e del lucro cessante (ossia del pregiudizio consistente nei mancati guadagni), secondo la ricostruzione che ne traccia la disposizione innanzi evocata. Siffatte voci di pregiudizio devono essere legate da un nesso di consequenzialità diretta e immediata con il contegno inadempiente o illecito. Questa ulteriore precisazione ha le seguenti implicazioni:

a) Il danno patrimoniale, per sua stessa definizione, in entrambe le sue voci del danno emergente e del lucro cessante, si connota quale danno-conseguenza, estrinsecandosi nelle conseguenze pregiudizievoli che discendono dall'inadempimento o dal fatto illecito.

b) Per l'effetto, la valutazione di tali conseguenze attiene al secondo stadio della causalità giuridica e presuppone che sia già comprovato il rapporto di causalità materiale con l'evento dannoso.

c) Il legame di consequenzialità diretta e immediata si realizza qualora le conseguenze ponderabili sul piano economico siano avvinte all'inadempimento oggettivo o all'illecito da un nesso di regolarità causale o normalità o idoneità o adeguatezza o efficienza o sufficienza, tale da escludere dal novero dei nocumenti riparabili le conseguenze remote, che, in base al meccanismo delle serie causali (causa causae est causa causati), sarebbero comunque riconducibili al fatto.

Ne deriva che ricadono nell'ambito dei danni patrimoniali risarcibili anche le conseguenze mediate e indirette, che si configurino però come effetti necessari e inevitabili di quella determinata condotta lesiva. Sicché il ricorso al nesso di consequenzialità immediata e diretta è piuttosto significativo dell'esclusione dal novero dei danni riparabili di quei nocumenti distanti sul piano spazio-temporale dal fatto causativo.

IN EVIDENZA

Peraltro, l'attenuazione del significato letterale della locuzione “conseguenza immediata e diretta” può essere desunta dalla stessa struttura dell'art. 1223 c.c., che annovera tra i danni patrimoniali risarcibili anche i mancati guadagni, che generalmente sono la conseguenza mediata delle perdite subite.

Ai fini di assicurare l'effettività del danno patrimoniale risarcibile, è necessario che le voci attraverso cui esso si manifesta siano attuali e certe. Il requisito di attualità del pregiudizio non si pone in contrasto con la possibilità che singole voci di danno, come il lucro cessante, siano proiettate verso il futuro. Solo impropriamente, infatti, il lucro cessante è qualificato come danno futuro. E tanto perché anche detta componente del nocumento deve essere ricollegata ad una lesione in atto dell'interesse del danneggiato, con l'effetto che la proiezione verso il futuro, che contraddistingue in generale tutti i danni permanenti, a cui fa riferimento l'art. 2057 c.c., non incide affatto sul requisito dell'attualità, ma attiene all'aspetto della sua valutazione, la quale deve avvenire tenendo conto, con criteri necessariamente equitativi, delle ripercussioni future del danno stesso. Pertanto, non è risarcibile il danno futuro in senso stretto, che si riferisca ad un'ipotetica o anche possibile lesione dell'interesse del danneggiato, ossia la semplice perdita di una astratta e non contestualizzata chance de profit (speranza di guadagno). Inoltre, il danno deve essere certo e non meramente possibile. Il fatto che il ricorso all'equità in sede liquidativa sia giustificato dall'impossibilità di dimostrare il danno nel suo preciso ammontare non costituisce un indice rivelatore dell'abdicazione al criterio della certezza. E ciò perché l'incertezza può ricadere sulla sola quantificazione del danno (quantum), che deve però essere certo quanto alla sua integrazione (an). Così il danno patrimoniale da perdita del rapporto parentale, subito dai prossimi congiunti della vittima primaria, postula la verifica di una perdita definitiva e irreparabile, ossia di un danno certo nell'an, ancorché non determinato nel quantum.

Ad esempio, tale fattispecie di danno ricorre ove la vittima primaria avesse elargito gli alimenti a certi congiunti, quando non vi siano obbligati in solido di grado uguale o posteriore che possano sopportare il relativo onere, oppure ove sia stata persa dai creditori la prestazione di carattere strettamente personale pattuita con la vittima intuitu personae, quando risulti l'insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile ai creditori procurarsi, se non a condizioni più onerose, prestazioni uguali o equipollenti.

Estensione del danno patrimoniale

Pertanto, il danno patrimoniale si compone delle due voci del danno emergente (vulnus interno al patrimonio del creditore) e del lucro cessante (proiezione esterna del patrimonio del soggetto), così come omologamente il danno non patrimoniale è costituito dalle due voci del danno da sofferenza interiore e del danno dinamico-relazione o sofferenza esteriore (Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901). Il danno emergente si consacra nel depauperamento sopportato dal danneggiato avente ad oggetto beni o diritti di cui egli era già in possesso al momento della lesione, sulla scorta di un preciso riscontro probatorio. Pertanto, il danno emergente è un danno presente, in quanto il relativo pregiudizio è valutabile al momento della liquidazione. Si ritengono inclusi nel danno emergente le spese mediche sostenute, le spese funerarie, le spese per i danni sopportati al vestiario, nonché le spese per l'assistenza stragiudiziale. Eccezionalmente ricadono nella categoria del danno emergente anche le spese future, quali perdite che, pur non sussistendo al momento della liquidazione, possono ritenersi comunque certe e quantificabili sulla base di oggettivi parametri medici ed economici valutabili dal giudice.

Al contrario, il lucro cessante consiste nella mancata acquisizione dei beni, guadagni, vantaggi o utilità di cui il danneggiato avrebbe potuto disporre qualora non si fosse verificato il fatto causativo del danno.

Secondo una tesi tradizionale, il danno patrimoniale deve intendersi come incidenza quantitativa dell'inadempimento o del fatto illecito sul patrimonio del debitore o del danneggiato. Sicché esso si sostanzierebbe nella diminuzione patrimoniale subita: in base alla teoria differenziale, occorrerebbe fare riferimento alla comparazione tra valore ipotetico del patrimonio, qualora l'inadempimento o il fatto illecito non si fosse verificato, e valore effettivo del patrimonio, in conseguenza dell'integrazione dell'inadempimento o del fatto illecito. In questa prospettiva, la delimitazione del danno patrimoniale sarebbe ascritta ad una logica prettamente patrimonialistica e astratta.

Invece, in ragione di una concezione personale e concreta, volta a porre al centro del sistema risarcitorio la tutela dell'individuo in tutte le sue estrinsecazioni, con la conseguente valorizzazione degli interessi della persona nel loro complesso, il danno patrimoniale si produce, secondo uno schema elastico, quale pregiudizio o nocumento che importano la privazione - o sottrazione - ovvero la compromissione - o alterazione - di una situazione favorevole. Sicché la natura patrimoniale del danno deriva non già dall'accertamento contabile di un saldo negativo nello stato patrimoniale della vittima, bensì dall'idoneità del fatto lesivo, alla stregua di una valutazione sociale tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato avrebbe potuto disporre. In ogni caso, è indispensabile che il danneggiato fornisca la prova del danno patrimoniale, che sia conseguenza dell'inadempimento o dell'illecito, eventualmente avvalendosi anche delle prove indirette.

In questo senso si è assestata la giurisprudenza più recente, secondo cui il danno patrimoniale da mancato guadagno si concreta nell'accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall'inadempimento dell'obbligazione contrattuale (o dall'illecito aquiliano) e presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che il creditore (o il danneggiato) avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta (o l'illecito non fosse stato integrato), esclusi i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente (o danneggiata), dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l'entità del danno subito (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 8 marzo 2018, n. 5613; Cass. civ., sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24632).

Inoltre, l'accertamento delle conseguenze pregiudizievoli, verificatesi a titolo sia di danno emergente che di lucro cessante, va riferito al momento causativo del danno, risultando irrilevanti le vicende anteriori o posteriori a tale momento (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2010, n. 11967). Sicché gli eventi posteriori al fatto genetico del danno non appaiono idonei ad elidere gli effetti pregiudizievoli già prodottisi sul bene, di modo che la prova e l'accertamento giudiziale dovranno incentrarsi solo su tale fatto e non anche sugli accadimenti postumi.

Il danno patrimoniale da incisione sulla capacità lavorativa specifica

Il danno patrimoniale da perdita o riduzione della capacità lavorativa specifica si sostanzia nel nocumento subito dal danneggiato in ordine alla sua idoneità a produrre reddito. Pertanto, il comportamento lesivo incide sulle utilità economiche che il danneggiato, prima dell'inadempimento o dell'illecito, percepiva o avrebbe potuto percepire, e ciò anche in prospettiva futura. La limitazione della capacità lavorativa specifica può riguardare un'attività lavorativa in essere (con riferimento ai soggetti che, al momento del fatto, erano percettori di reddito) oppure un'attività potenziale (con riferimento ai soggetti che, al momento del fatto, non esercitavano alcuna attività lavorativa, quantomeno retribuita: studenti, pensionati, disoccupati, casalinghe). Ove l'attività sia in atto, il relativo pregiudizio deve essere parametrato ad un dato effettivo, ossia all'influenza del comportamento lesivo, in termini ostativi o riduttivi, sulla concreta percezione degli introiti lavorativi, salvo che non si tratti di retribuzioni irrisorie e trascurabili. Per converso, ove l'attività sia solo in potenza, occorre avere riguardo - per un verso - all'ipotetica produzione di redditi che il soggetto avrebbe potuto fisiologicamente trarre, in base alla sua predisposizione lavorativa, alle sue inclinazioni esternamente desumibili e al percorso propedeutico avviato, se non si fosse frapposto l'inadempimento o l'illecito, e - per altro verso - all'ipotetica incidenza quantitativa che su tali occasioni remunerative possa avere il fatto lesivo. Diversamente dalla capacità lavorativa specifica, la capacità lavorativa generica, ossia non ancorata all'an, al quid e al quantum della puntuale condizione lavorativa del danneggiato, costituisce manifestazione dell'unitaria e onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale: il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia - in quanto lesione di un'attitudine o di un modo d'essere del soggetto - in una menomazione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico (Cass. civ., sez. III, 25 agosto 2014, n. 18161). In proposito, la giurisprudenza di legittimità chiarisce che il danno patrimoniale futuro, conseguente alla lesione della salute, è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell'infortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell'attività lavorativa (quomodo), non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell'essenza dell'individuo e va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 22 maggio 2018, n. 12572). Per l'effetto, la capacità lavorativa specifica è indicativa dell'effettivo svolgimento, ovvero dell'attitudine propria di un individuo a svolgere, una particolare attività lavorativa ed è generalmente valutata dal consulente tecnico d'ufficio - medico legale in relazione alla competenza/abilità del richiedente ad estrinsecare determinate attività lavorative in relazione alla sua sfera attitudinale, in quanto coerenti con l'età del soggetto, il sesso, il suo grado di istruzione, il suo stato socio-familiare e la sua esperienza lavorativa. L'onere della prova di tale forma di danno patrimoniale consequenziale ricade sul danneggiato, che può avvalersi del ragionamento per presunzioni semplici, rifuggendo però da alcun rigido automatismo (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 4 novembre 2014, n. 23468; Cass. civ., sez. III, 23 settembre 2014, n. 20003; Cass. civ., sez. III, 3 luglio 2014, n. 15238; Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2013, n. 25634; Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2006, n. 10031). Sicché, a tal fine, è necessario che la vittima, che lamenti una diminuita capacità di lavoro specifico, deduca in giudizio tutte le prove di cui è in possesso, così da fornire al giudice (e, per esso, al consulente tecnico d'ufficio) la possibilità di esaminare, in concreto, la rilevanza del danno-evento (solitamente il danno biologico) sulla vita del danneggiato rispetto alle specifiche attività svolte - o che si sarebbero potute espletare - nella sua quotidianità, ivi compresa l'attività lavorativa.

In materia di danno patrimoniale, il disposto di cui all'art. 137 cod. ass. stabilisce che: «1. Nel caso di danno alla persona, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l'incidenza dell'inabilità temporanea o dell'invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni e, per il lavoro autonomo, sulla base del reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni ovvero, nei casi previsti dalla legge, dall'apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro ai sensi delle norme di legge. 2. È in ogni caso ammessa la prova contraria, ma, quando dalla stessa risulti che il reddito sia superiore di oltre un quinto rispetto a quello risultante dagli atti indicati nel comma 1, il giudice ne fa segnalazione al competente ufficio dell'Agenzia delle entrate. 3. In tutti gli altri casi il reddito che occorre considerare ai fini del risarcimento non può essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale».

Secondo un certo, isolato - e più risalente nel tempo - orientamento della Corte di legittimità il danno de quo può essere liquidato dal giudice ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale, anche quando il danneggiato non abbia provato l'entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento. Di diverso avviso è altro, più persuasivo - e più recente - orientamento della stessa Corte, secondo il quale detta liquidazione dovrebbe avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale (oggi l'assegno sociale). Questo ultimo criterio potrebbe trovare applicazione solo se il giudice di merito accertasse che la vittima, al momento del fatto, aveva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato.

Perdita della capacità lavorativa specifica in assenza di prova della misura del reddito perduto

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Quando sia certo che la vittima di lesioni personali abbia perduto la capacità di guadagno, il conseguente danno patrimoniale può essere liquidato dal giudice ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale anche quando il danneggiato non abbia provato l'entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento

Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2012, n. 7531 ; Cass. civ., sez. III, 6 agosto 2007, n. 17179

La liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137 c. ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti che la vittima al momento dell'infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato

Cass. civ., sez. III, ord. 12 ottobre 2018, n. 25370; Cass. civ., sez. VI-III, 4 maggio 2016, n. 8896; Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2006, n. 1120; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2004, n. 10026

Con riguardo all'incidenza della condotta lesiva su attività lavorative in corso, in sede nomofilattica è stato precisato che il danno patrimoniale futuro, derivante da lesioni personali, va valutato su base prognostica ed il danneggiato può avvalersi anche di presunzioni semplici, sicché, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere, salvo prova contraria, che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura - non necessariamente in modo proporzionale - qualora la vittima appunto già svolga un'attività lavorativa. Tale presunzione, peraltro, copre solo l'an dell'esistenza del danno, mentre, ai fini della sua quantificazione, è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo il sinistro, non potendo il giudice, in mancanza, esercitare il potere di cui all'art. 1226 c.c., perché esso riguarda solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando la vittima continui a lavorare e produrre reddito e, dunque, può dimostrare di quanto quest'ultimo sia diminuito (Cass. civ., sez. III, ord. 15 giugno 2018, n. 15737).

In ogni caso, il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano (Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017, n. 10499).

In giurisprudenza si registrano pronunce favorevoli alla liquidazione del danno patrimoniale da perdita o riduzione della capacità di lavoro specifico domestico. E ciò attraverso la semplice prova presuntiva circa la mutata idoneità ad attendere a quelle specifiche attività che, prima dell'inadempimento o dell'illecito, la vittima poteva compiere e che, dopo aver subito un danno alla persona, non può più espletare, quantomeno senza l'ausilio di terzi. Si ritiene, infatti, incongrua una liquidazione del danno da perdita di lavoro specifico solo in favore di chi riesca a fornire la prova delle spese sostenute e sostenende in conseguenza della limitazione de quo, posto che una tale restrittiva interpretazione frustrerebbe i diritti di chi abbia subito il medesimo danno, ma, per insufficienza di risorse, non abbia potuto sostenere le relative spese, ad esempio, di collaborazione domestica (Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24471; Cass. civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2005, n. 26080; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20324; Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2005, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 6 novembre 1997, n. 10923). Sicché, con riferimento al danno da perdita della capacità lavorativa specifica della casalinga, anche in favore esclusivo di sé stessa, non rileva il fatto che il danneggiato abbia o meno dimostrato di aver sopportato esborsi economici per far fronte alla sua limitata capacità di svolgere l'attività di casalinga prima svolta. Infatti, secondo l'indirizzo giurisprudenziale maggioritario, è sufficiente la prova (anche testimoniale) che prima del fatto la vittima si occupava di tutte le attività domestiche e dopo la sua verificazione non è più stata in grado di attendervi come prima, essendo stato, ad esempio, necessario ricorrere al supporto di familiari, oltre alla prova (risultante da c.t.u.) che le lesioni riportate nel sinistro oggetto di causa hanno inciso - e in che misura - sulla capacità di svolgere l'attività di casalinga (Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2010, n. 16392). Risultando, quindi, provato il danno da compromissione della capacità della vittima di svolgere l'attività di casalinga, tale danno va liquidato in misura pari al triplo della pensione sociale, moltiplicato per il coefficiente previsto in base all'età del danneggiato dalle tariffe per la costituzione di rendite vitalizie allegate al r.d. n. 1403 del 1922, sul cui risultato va calcolata l'entità della riduzione della capacità lavorativa di casalinga (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15823), ovvero avendo riguardo al reddito medio di una collaboratrice domestica, con gli opportuni adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla casalinga (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2003, n. 16832; Cass. civ., sez. III, 6 novembre 1997, n. 10923). Quale precipitato di tale ricostruzione, spetta negli stessi termini il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico svolto da un familiare deceduto per colpa altrui (Cass. civ.,sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22909; Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2005, n. 18092; Cass. civ., sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970).

Il danno patrimoniale da perdita del rapporto parentale

Tale forma di danno patrimoniale consiste nella perdita di utilità economiche subita dai prossimi congiunti per effetto del decesso della vittima primaria, che elargiva tali contributi, a titolo di mantenimento ovvero indipendentemente da uno stato di bisogno, ove il decesso sia causato dall'inadempimento o dall'illecito. Siffatta conseguenza dannosa è qualificata in termini di lucro cessante quanto alla prospettiva futura di percezione di dette utilità. Segnatamente, il danno patrimoniale derivante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito collegata all'attività lavorativa della vittima assume natura di danno emergente con riguardo al periodo intercorrente tra la data del decesso e quella della liquidazione giudiziale mentre si configura come danno futuro e, dunque, come lucro cessante, con riguardo al periodo successivo alla liquidazione medesima; ne consegue che, ai fini della liquidazione, il giudice del merito può utilizzare il criterio di capitalizzazione di cui al r.d. n. 1403 del 1922 soltanto in ordine al danno successivo alla decisione, avuto riguardo al presumibile periodo di protrazione della capacità della vittima di produrre il reddito di cui trattasi, mentre, con riguardo al pregiudizio verificatosi sino al momento della decisione, deve operarsi il cumulo di rivalutazione ed interessi compensativi (Cass. civ., sez. III, 30 aprile 2018, n. 10321). In particolare, la scomparsa prematura del congiunto, a seguito di fatto illecito altrui, proiettata nel futuro, determina una presumibile perdita economica per i superstiti, determinabile alla stregua delle risorse reddituali che il defunto avrebbe loro destinato. Siffatta pretesa pecuniaria può trovare fondamento tanto in relazione ai precetti normativi(artt. 143,433 c.c.), quanto nella pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume. Sicché la risarcibilità del danno patrimoniale che il coniuge patisca, in conseguenza del fatto illecito altrui, concretatosi nell'evento mortale del congiunto, non necessita di una puntuale allegazione della posizione economica del defunto. La prova del danno, consistente nelle attribuzioni economiche di cui il superstite sarebbe stato destinatario, infatti, può essere raggiunta anche per mezzo di presunzioni, rapportate alla situazione concreta: tanto in punto di reddito presumibile del defunto, quanto in relazione alla volontà di destinazione dello stesso (Cass. civ., sez. III, ord. 6 dicembre 2018, n. 31549; Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205). La fonte di tali attribuzioni può essere, oltre che normativa, anche negoziale, ove, in base a puntuali convenzioni, la vittima versasse tali contributi. Al contrario, se le contribuzioni patrimoniali future della persona venuta a mancare trovassero ragion d'essere esclusivamente in un reciproco rapporto affettivo e di solidarietà, non tipizzabile nei tradizionali rapporti familiari, la situazione tutelata sarebbe di mero fatto. Nondimeno, secondo la giurisprudenza, tale aspettativa si configura come legittima, non quindi di mero fatto, qualora i destinatari dei benefici economici del familiare prematuramente scomparso rientrino nella categoria dei successori necessari (Cass. civ., sez. III, 25 giugno 1981, n. 4137). Vengono, infatti, ritenuti meritevoli di tutela sia la situazione del convivente more uxorio, sia l'interesse del coniuge all'ottenimento di provvidenze diverse da quelle di mera contribuzione, nonché quello dei figli per benefici differenti da quelli di mantenimento, qualora questi siano economicamente indipendenti. La distinzione fra le posizioni soggettive che l'ordinamento intende tutelare non ha una mera finalità ordinatoria, ma importa un differente regime probatorio. Dar prova dei fatti costitutivi della precipua situazione di credito, fondata su un obbligo di matrice legale o negoziale, non incontra particolari ostacoli, dovendo il soggetto legittimato soltanto dimostrare il proprio status familiare (ad esempio, coniuge, coniuge separato/divorziato, figlio) o il particolare regolamento pattizio, mentre altrettanto non può dirsi per le altre categorie di legittimati. Per l'effetto, pur essendo riconosciuta un'aspettativa risarcitoria anche ai componenti di una famiglia di fatto, tuttavia il presupposto per il riconoscimento della corrispondente pretesa riparatoria è rappresentato dalla prova del rapporto di affezione fuori dal matrimonio. In tal senso si è espresso un arresto di legittimità (Cass. civ., sez. III, 28 marzo1994, n. 2988), secondo cui non è sufficiente, perché si possa ritenere integrata una famiglia di fatto, la semplice coabitazione, dovendosi far riferimento ad una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare che, come nell'ambito di una qualsiasi famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale (nello stesso senso Cass. civ., sez. III, ord. 13 aprile 2018, n. 9178; Cass. civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725). Posizione ancora differente in ambito probatorio, circa la lesione di una posizione di interesse giuridicamente rilevante, viene riconosciuta in capo agli altri componenti del nucleo familiare rispetto alla perdita di un'entrata che ragionevolmente si sarebbe potuta presumere come duraturo vantaggio economico proveniente dall'attività lavorativa del congiunto (Cass. civ., 1 agosto 1987, n. 6672). In tali ipotesi, occorrerà fornire la prova dello stretto vincolo di solidarietà familiare, dal quale possa presumersi che il superstite sarebbe stato il destinatario di determinate attribuzioni patrimoniali da parte del defunto, ovvero che, avendole già ricevute in passato, ne avrebbe probabilmente beneficiato anche in futuro.

Inoltre, ove non ricorra un preesistente obbligo normativo o contrattuale, la differente situazione tutelata comporta un eterogeneo onus probandi circa l'esistenza in concreto del danno patrimoniale subito. Infatti, è pacifico in giurisprudenza che la prova della sussistenza dell'an del danno futuro subito dal coniuge, a seguito della morte dell'altro, limitatamente alle presumibili dazioni pecuniarie che avrebbe ricevuto per il proprio mantenimento, non necessita di una puntuale allegazione. La prova del danno si fonda, infatti, su un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge. La presunzione può basarsi anche su dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto. L'indagine, quindi, circa l'esistenza del danno patrimoniale in tale ipotesi si risolve in una ricostruzione della volontà ipotetica del defunto, attraverso un giudizio prognostico dal quale emerga che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno, in base ad un criterio di normalità (Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205).

Criteri affatto distinti governano, invece, la prova circa le conseguenze patrimoniali ristorabili qualora la pretesa sia avanzata dal convivente more uxorio, o dai congiunti che richiedano la condanna al pagamento di una perdita economica non corrispondente al mantenimento. Nella prima ipotesi, infatti, il componente della famiglia di fatto, secondo un indirizzo univoco, dovrebbe dare la prova del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere di stabilità, dal convivente, e che è venuto a mancare in conseguenza della sua morte (così in motivazione Cass. civ., sez. III, 28 marzo 1994, n. 2988). È richiesta, quindi, in sede giudiziale un'allegazione puntuale dei contributi che il convivente destinava alla cura delle esigenze del superstite, non riconoscendosi, peraltro, rilevanza a quegli aiuti pecuniari che il defunto versava solo occasionalmente o sporadicamente. Si osserva, in proposito, che la discriminazione dell'onere probatorio in capo al coniuge e al convivente di fatto trova oggi un limite nell'equiparazione normativa stabilita dalla legge c.d. Cirinnà 20 maggio 2016, n. 76 sulle unioni civili. Il suo art. 1, comma 49, dispone, infatti, che, in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite, si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Peraltro, la medesima normativa riconosce ora ai conviventi di fatto la possibilità di concludere dei contratti di convivenza; segnatamente, l'art. 1, comma 50, prevede che i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza, per mezzo dei quali, in particolare, i soggetti legati da una relazione di stabile affezione e assistenza morale e materiale possono regolamentare le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 1, comma 53, lett. b). Sicché, in tale ipotesi si concretizza un vero e proprio diritto di credito reciproco e non una mera aspettativa di fatto, il che semplifica ulteriormente la dimostrazione dei danni che il convivente subirà in futuro per la precoce scomparsa dell'altro, in seguito al fatto illecito altrui. Non rimane esclusa, d'altronde, la possibilità che la pretesa risarcitoria abbia ad oggetto anche attribuzioni patrimoniali ulteriori rispetto a quelle attinenti al contenuto di tale negozio; invero, tale situazione si potrebbe presentare, come già sopra descritto, qualora il superstite sia in grado di far fronte autonomamente alle esigenze della famiglia di fatto.

Allo stesso modo, il sistema di presunzioni non si ritiene sufficiente a dimostrare la fondatezza della domanda di risarcimento del lucro cessante, quando la richiesta riparatoria attenga a benefici economici estranei alle esigenze di mantenimento (in presenza, ad esempio, di una situazione reddituale di totale autonomia dei destinatari). Anche in tal caso, infatti, si ritiene accertato il danno futuro, in termini probabilistici, soltanto qualora i richiedenti siano in grado di dimostrare la percezione di utilità economiche nel periodo precedente alla scomparsa del congiunto (Cass. civ., sez.III, 8 ottobre 2008, n. 24802; Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003).

La casistica giurisprudenziale esaminata, peraltro, sembrerebbe far emergere una distonia di opinioni circa il criterio probatorio da adottare in ordine alle situazioni in cui gli stretti congiunti richiedano il risarcimento per la perdita delle risorse economiche che il defunto avrebbe apportato, pur in assenza di una situazione di necessità di far fronte ai loro bisogni. Sul punto, le sentenze più recenti sanciscono il principio secondo cui la prova del danno al congiunto può essere valutata in via inferenziale anche nell'ipotesi in cui il defunto avrebbe apportato al medesimo utilità economiche senza che ne avesse bisogno. Di contro, in passato i giudici di legittimità avevano richiesto che anche per il coniuge, come per i figli economicamente indipendenti, in siffatte ipotesi, l'onere probatorio dovesse consistere in una prova piena e non meramente presuntiva dei futuri apporti economici del defunto.

Prova del danno agli stretti congiunti che non versino in stato di bisogno

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

La prova delle utilità economiche può essere fornita in via presuntiva, in base ad un criterio di normalità fondato su tutte le circostanze del caso concreto (in particolare, età, grado d'istruzione, capacità di lavoro e possibilità effettivamente offerte dal mercato del lavoro nel territorio)

Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2018, n. 29830 ; Cass. civ., sez. III, 25 agosto 2006, n. 18490 ; Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2005, n. 11189 ; Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124 ; Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205

La prova degli apporti economici elargiti dal defunto deve essere piena, dovendo emergere in concreto che gli stretti congiunti siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a beneficiare in futuro

Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2007, n. 18177; Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2318; Cass. civ., sez. Lav., 8 marzo 2006, n. 4980; Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549

Inoltre, la Suprema Corte identifica i criteri di stima equitativa del danno ristorabile in tali casi, ossia la rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale, dall'altro. L'indicazione non è esaustiva, dovendosi tenere conto del valore negativo della quota sibi, ovvero della parte di reddito che il defunto avrebbe destinato alle proprie esigenze (Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186). Peraltro, nelle ipotesi in cui la richiesta risarcitoria attenga al ripristino delle condizioni economiche atte a permettere il mantenimento dei congiunti, la quantificazione dovrebbe essere collegata esclusivamente al tenore di vita goduto precedentemente alla morte del familiare. Invece, il legame di solidarietà familiare potrebbe risultare di maggiore utilità nelle ipotesi relative alla famiglia di fatto o alle richieste risarcitorie consistenti in provvidenze ulteriori rispetto a quelle di mero mantenimento.

La perdita di chance

La giurisprudenza oramai include pacificamente la perdita di chance di natura patrimoniale quale ipotesi di danno risarcibile. E ciò sebbene resti controverso se si tratti di ipotesi riconducibile al danno emergente (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19604; Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2007, n. 12243; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11322) ovvero al lucro cessante (Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2015, n. 7193; Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2011, n. 15385; Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353). La fattispecie deve essere distinta dalla perdita di chance di carattere non patrimoniale, contemplata da ultimo dalla giurisprudenza di legittimità in termini di incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta), risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta, se sia provato il nesso causale, secondo la formula del “più probabile che non”, tra la condotta e l'evento incerto (ossia la possibilità perduta del risultato sperato) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza (Cass. civ., sez. III, 27 giugno 2018, n. 16919; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641). Per converso, la chance patrimoniale presenta i connotati dell'interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un quid su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa.

Secondo gli arresti più recenti, il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui l'inadempimento o il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente con valutazione equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2737; Cass. civ., sez. III, 17 aprile 2008, n. 10111). Inoltre, il danneggiato deve provare tale danno, anche in via presuntiva, appunto in termini di possibilità perduta, la quale, oltre a rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza, va accertata nell'an dal giudice di merito sulla base del criterio del “più probabile che non” (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2018, n. 29829).

E, infatti, la perdita di chance, intesa quale forma di danno patrimoniale autonoma e giuridicamente rilevante, ricomprende le aspettative di natura patrimoniale, purché si tratti di legittime aspettative e non di aspettative semplici. È necessario, dunque, che essa presenti i caratteri di un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice di merito (Cass. civ., sez. Lav., 25 agosto 2014, n. 18207). Essa va intesa, quindi, non come la mera perdita del risultato utile, ma come l'effettiva perdita della possibilità di conseguire tale risultato, una concreta occasione favorevole di acquisire un determinato vantaggio economico. In conseguenza, il danneggiato ha l'onere di provare, benché solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta inadempiente o illecita, della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2017, n. 6488; Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2005, n. 1752). Pertanto, a differenza del danno futuro derivante dalla perdita del bene riconducibile al danno da lucro cessante, il danno da perdita di chance si configura come danno emergente, inteso come la lesione della possibilità di raggiungere il risultato sperato.

Anche la perdita di chance deve essere attuale e certa, ai fini di garantire l'effettività del risarcimento. Sotto il primo profilo, si tratta di un danno patrimoniale attuale in proiezione futura, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e piuttosto derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12211). Quanto al secondo aspetto, la perdita di chance costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare), consistente nella perdita di una possibilità attuale (Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19604).

Così un'invalidità tale da non consentire alla vittima di aspirare nemmeno allo svolgimento di lavori anche differenti da quello prestato al momento del sinistro, ma confacenti alle sue attitudini e o aspirazioni, integra la fattispecie di danno patrimoniale attuale da futura perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017, n. 26850), diverso dunque dalla lesione di un modo di essere del soggetto, configurabile nel danno non patrimoniale biologico. La Corte chiarisce che la liquidazione di tale danno può avvenire mediante la prova presuntiva qualora sia possibile ritenere che la vittima conseguirà in futuro un reddito inferiore a quello che avrebbe, invece, percepito nel caso in cui l'infortunio non si fosse verificato (Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2011, n. 17514). Secondo la Cassazione, con precipuo riguardo al danno patito in conseguenza di un sinistro stradale da un minore in età scolare, i giudici di merito avevano errato nell'escludere l'esistenza del danno patrimoniale per il solo fatto che non fosse stata provata l'esistenza di un'attività lavorativa. Ne discende che l'accertamento prognostico in ordine alla riduzione della perdita di guadagno nella sua proiezione futura, anche come perdita di chance, può concernere pure le vittime che non siano ancora nello stadio lavorativo, purché si rifugga da qualsiasi automatismo.

La liquidazione del danno patrimoniale in forma di capitale o di rendita

A fronte di un danno alla persona di carattere permanente, la liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, patito dagli stretti congiunti (moglie e figlio) di persona deceduta per colpa altrui, e consistente nella perdita delle elargizioni erogate loro dal defunto, se avviene in forma di capitale e non di rendita, va compiuta, per la moglie, moltiplicando il reddito perduto dalla vittima per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie corrispondente all'età del più giovane tra i due; per il figlio, in base a un coefficiente di capitalizzazione di una rendita temporanea corrispondente al numero presumibile di anni per i quali si sarebbe protratto il sussidio paterno; nell'uno e nell'altro caso il reddito da porre a base del calcolo deve comunque essere equitativamente aumentato per tenere conto dei presumibili incrementi reddituali che il lavoratore avrebbe ottenuto se fosse rimasto in vita e contemporaneamente ridotto dell'importo pari alla quota di reddito che la vittima avrebbe presumibilmente destinato a sé, al carico fiscale e alle spese per la produzione del reddito (Cass. civ., sez. VI-III, ord.16 marzo 2018, n. 6619).

In base alla prassi prevalente, la liquidazione avviene in tali casi mediante la capitalizzazione di una rendita, sistema che si presta plasticamente ad adattarsi alla tipologia dei danni permanenti, destinati a proiettarsi nel futuro. Infatti, in queste ipotesi si stima, alla data del pagamento, una perdita destinata a ripercuotersi in futuro. A tale scopo si impiegano i dati delle tariffe previsti per la Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (approvate con r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403). Il metodo di calcolo segue, pertanto, il seguente percorso: reddito annuo x coefficiente di capitalizzazione x percentuale di invalidità permanente (a tutto questo si sottrae lo scarto tra vita fisica e lavorativa). Il sistema di capitalizzazione pone rimedio all'incertezza della durata della vita, con il ricorso al criterio statistico desunto dalle tavole di mortalità (Cass. civ., sez. III, 18 agosto 1989, n. 3723).

Una soluzione alternativa, rimessa alla scelta insindacabile del giudice (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 1971, n. 1437), può essere quella della costituzione di una rendita vitaliziaex art. 2057 c.c., chiaramente non capitalizzata. Tale forma di liquidazione trova la propria origine nel BGB (artt. 843 e 844), ma anche nell'art. 43 del codice delle obbligazioni svizzero.

Segnatamente, l'art. 2057 c.c. prevede che “quando il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno, sotto forma di una rendita vitalizia. In tal caso il giudice dispone le opportune cautele”. La disposizione si fonda, dunque, su due presupposti:

1) il danno deve riguardare la persona;

2) il danno deve avere carattere permanente (e non temporaneo).

Non è richiesta l'istanza di parte, potendo il giudice provvedere d'ufficio a valutare la ricorrenza dei citati presupposti (Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24451). A tale proposito, il giudice deve tenere conto delle condizioni delle parti (al momento della scelta tra capitale e rendita) e della natura del danno.

Sotto l'aspetto relativo alle condizioni delle parti, la liquidazione in forma di rendita è preferibile quando esista un concreto rischio di dispersione del capitale erogato in un'unica soluzione, ossia: a) quando la vittima è legalmente o naturalmente incapace; b) quando la vittima, pur capace, non ha la possibilità di gestire il capitale liquidato; c) quando, per le condizioni di salute, è difficile stimare “normali” aspettative di vita; d) quando l'entità del capitale potrebbe esporre il danneggiato a rischi di approfittamento da parte di terzi.

Con riferimento alla natura del danno, deve trattarsi di danni patrimoniali futuri, come: il danno da perdita della capacità lavorativa specifica; le spese di cura e di assistenza; le spese mediche. Non è esclusa la possibilità di costituire una rendita vitalizia anche per i danni non patrimoniali.

La rendita costituita ex art. 2057 c.c. è disciplinata dalle disposizioni di cui all'art. 1872 c.c. e ss.: in proposito, la rendita è un contratto aleatorio, di durata, bilaterale. In punto di disciplina, il debitore non può liberarsi dell'obbligazione offrendo il pagamento di un capitale; non può invocare l'eccessiva onerosità sopravvenuta; in caso di inadempimento, il creditore può far sequestrare e vendere i beni del debitore.

Con riferimento alla fase istruttoria, occorre richiedere al consulente tecnico d'ufficio di valutare i supporti terapeutici, quelli riabilitativi e quelli assistenziali di cui usufruisce l'avente diritto; il medico legale deve dare indicazioni anche in ordine alla necessità, o meno, di abbattere le barriere architettoniche. In caso di risposta affermativa, è necessario disporre una indagine tecnica volta a determinare e quantificare i costi per tale abbattimento. Con riferimento alle aspettative di vita, gli studi che utilizzano i medici legali sono studi prospettici (ad eccezione di uno studio del 2017 che è retrospettivo), con i conseguenti limiti impliciti nell'utilizzazione di tali studi prospettici.

Le cautele adottabili sono le seguenti: fideiussione bancaria, assicurazione a premio unico sulla vita del beneficiario È, inoltre, necessario chiarire se il pagamento debba avvenire in via anticipata. In ultimo, è necessario prevedere l'aggiornamento della rendita. A tal riguardo, possono essere utilizzati diversi indici (ad esempio il FOI, il tasso di crescita dei salari, o l'IPCA – indice armonizzato dei prezzi al consumo per i paesi dell'Unione Europea).

Casistica

CASISTICA

Danno patrimoniale per indebito sfruttamento dell'immagine

Dall'espressa volontà di vietare la pubblicazione di foto relative alla propria vita privata, riferita ad un soggetto molto conosciuto (nella specie un notissimo attore) non discende l'abbandono del diritto all'immagine che ben può essere esercitato, per un verso, mediante la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinate fotografie, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo e, per altro verso, mediante la scelta di non sfruttare economicamente i propri dati personali, perché lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto. Ne consegue che, nell'ipotesi di plurime violazioni di legge dovute alla pubblicazione e divulgazione di fotografie in dispregio del divieto, non può escludersi il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che ben può essere determinato in via equitativa (Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1875).

Danno patrimoniale da perdita di chance di disinvestimento che l'OPA avrebbe assicurato agli azionisti di società per azioni quotate in borsa

In tema di società per azioni quotate in mercati regolamentati, qualora sia inadempiuto l'obbligo di offerta pubblica di acquisto totalitaria, ai sensi dell'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, gravante a carico dell'acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30 per cento, compete agli azionisti, cui l'offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il risarcimento del danno patrimoniale che dimostrino di avere sofferto in conseguenza della perdita di chance di disinvestimento che l'OPA avrebbe assicurato loro; detto danno va determinato raffrontando il prezzo di rimborso delle azioni in caso di OPA con il loro valore effettivo, ritratto dalle risultanze di borsa, secondo il successivo andamento del titolo nell'arco temporale intercorrente tra il giorno in cui si è consumato l'inadempimento dell'obbligo e quello del disinvestimento, se vi è stato, o, in caso contrario, della proposizione della domanda risarcitoria (Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2018, n. 19741).

Danno patrimoniale da impedimento dell'uso della cosa comune in favore degli altri condomini

In tema di condominio negli edifici, ove l'uso della cosa comune da parte di uno dei condomini avvenga in modo da impedire quello, anche solo potenziale, degli altri partecipanti, il danno patrimoniale per il lucro interrotto è da ritenere in re ipsa (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 4 luglio 2018, n. 17460).

Danno patrimoniale da perdita di chance per illegittima cancellazione dalla lista degli invalidi

In materia di collocamento obbligatorio, all'illegittima cancellazione dell'invalido dalle liste consegue un danno patrimoniale da perdita di chance, perché il comportamento illegittimo della P.A. incide sulla possibilità di ottenere un nuovo avviamento al lavoro; il danno in questione, che non coincide con le retribuzioni perse, va commisurato alla probabilità di ottenere il risultato utile sperato, con onere della prova - anche tramite presunzioni - a carico dell'interessato e liquidazione da compiersi in via equitativa (Cass. civ., sez. Lav., 29 maggio 2018, n. 13483).

Danno patrimoniale per durata irragionevole del processo

In tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, in forza del principio della causalità adeguata, il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l'effetto immediato di tale eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove lo stato di incapienza o il fallimento del debitore, sopravvenuti nel corso del procedimento rivolto all'accertamento del diritto del creditore, con la conseguente difficoltà di quest'ultimo di ottenere il soddisfacimento, interrompono detta sequenza assumendo - quali fattori idonei a produrre, da soli, l'evento - rilevanza esclusiva ed assorbente nella causazione del danno lamentato, trattandosi di fatti autonomi, eccezionali ed atipici rispetto alla serie causale già in atto, che comportano la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni (Cass. civ., sez. II, ord. 2 ottobre 2017, n. 22973).

Danno patrimoniale da rimborso delle spese di riparazione del veicolo nei limiti dei prezzi correnti

In materia di risarcimento del danno patrimoniale, poiché esso ha la funzione di reintegrare il patrimonio del danneggiato nella esatta misura della sua lesione, le spese sostenute per le riparazioni dell'autoveicolo, che abbia subito danni in un incidente stradale, sono rimborsabili solo per la parte che corrisponde ai correnti prezzi di mercato, a meno che il maggiore esborso non sia giustificato da particolari circostanze oggettive (quale l'esistenza nella zona di una sola autofficina qualificata) e queste siano state provate dall'interessato, che non può di conseguenza, a fondamento della sua pretesa risarcitoria, limitarsi a produrre la documentazione di spese, da lui sostenute, non corrispondenti ai costi correnti, secondo una valutazione del giudice di merito, fondata su nozioni di comune esperienza o su dati acquisiti con consulenza tecnica di ufficio (Cass. civ., sez. VI-III, 13 maggio 2016, n. 9942).

Guida all'approfondimento

V. CECCARELLI, E. OCCHIPINTI, Il danno patrimoniale: danno emergente e lucro cessante dal punto di vista sostanziale e processuale, in Danno e Resp., 2011, 6 - Allegato 1, 45;

G. IORIO, I l danno risarcibile derivante dal decesso del convivente di fatto, in Resp. civ. e prev., 2017, 1092 e ss.;

C. MAZZANTI, D anno permanente alla persona e risarcimento sotto forma di rendita vitalizia, in Nuova giur. civ., 2015, 7-8, 10621;

E. MENGA, D anno futuro da perdita della capacità lavorativa del minore: le difficoltà di una valutazione probabilistica e prognostica - Il commento, in Danno e Resp., 2016, 2, 145;

M. STRONATI, R isarcimento del danno patrimoniale da perdita del congiunto: consistenza del relativo onere probatorio, in Ridare.it, giurisprudenza commentata del 18 febbraio 2019;

C. TRAPUZZANO, Costituzione di una rendita vitalizia, in Ridare.it, bussola del 9 novembre 2016.

Sommario