La responsabilità civile dell'advisor nel processo di regolazione della crisi

Danilo Galletti
06 Giugno 2019

La responsabilità dei soggetti implicati a vario titolo nel contesto della ristrutturazione dell'impresa in crisi è stata indagata a fondo sinora soltanto con riferimento agli organi sociali: il tema, da considerarsi invero pionieristico almeno sino alla fine della decade 2000-2009, è poi stato oggetto di studi assai approfonditi, che hanno messo in luce la necessità di adattare le clausole generali tipiche agli aspetti relativi alla pianificazione del superamento della crisi d'impresa.
Premessa

La responsabilità dei soggetti implicati a vario titolo nel contesto della ristrutturazione dell'impresa in crisi è stata indagata a fondo sinora soltanto con riferimento agli organi sociali: il tema, da considerarsi invero pionieristico almeno sino alla fine della decade 2000-2009, è poi stato oggetto di studi assai approfonditi, che hanno messo in luce la necessità di adattare le clausole generali tipiche agli aspetti relativi alla pianificazione del superamento della crisi d'impresa (lo sforzo necessario per formulare un apparato bibliografico completo sarebbe ultroneo: basti il rinvio ai principali lavori monografici: G. Bertolotti, Poteri e responsabilità nella gestione di società in crisi, Torino, 2017; F. Nieddu Arrica, I principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale nella prospettiva della tutela dei creditori, Torino, 2016; A. Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre- concorsuale, Milano, 2016; F. Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, 2015; S. Turelli, Gestione dell'impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012; A. Lolli, Situazione finanziaria e responsabilità nella governance delle s.p.a., Milano, 2009; v. anche i saggi di R. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell'impresa societaria, in Giur. comm., 2014, I, 304 ss.; N. Baccetti, La gestione delle società di capitali in crisi tra perdita della continuità aziendale ed eccessivo indebitamento, in Riv. soc., 2016, 568 ss.; V. Calandra Buonaura, La gestione societaria dell'impresa in crisi, e Buta, Tutela dei creditori e responsabilità gestoria all'approssimarsi dell'insolvenza, entrambi in Liber Amicorum Abbadessa, 3, Torino, 2014, 2542 ss. e 2593 ss.).

La giurisprudenza dedicata specificamente all'indagine sugli obblighi incombenti sull'amministratore o sul sindaco, che si avveda o debba avvedersi della crisi, è sorprendentemente assai meno copiosa (v. sul tema specifico della responsabilità per la inadeguatezza della soluzione regolatoria prescelta, Trib. Milano, 23 settembre 2015, Nuov@ Periodici Italia, e Trib. Torino, 21 dicembre 2012, Carrozzeria Bertone), trovandosi ancora il fuoco dell'attenzione catalizzato dalle “classiche” tecniche sanzionatorie dell'agire pregiudizievole, legate alla perdita del capitale, all'insolvenza, talvolta alla perdita della continuità aziendale.

Consistente è anche la letteratura sulla responsabilità, nelle medesime situazioni, delle banche (cfr. per tutti, soltanto di recente, L. Miotto, Il controllo creditorio difensivo, Torino, 2017; T. Tomasi, Impresa in crisi e creditore bancario, Milano, 2017; P. Ghionni Crivelli Visconti, Finanziamenti in pool e posizione delle banche, Torino, 2016); e così pure la giurisprudenza, che in questo settore non ha certo mancato di far mancare il suo apporto (cfr. anche infra).

Molto minore è stata tuttavia l'attenzione sino ad ora dedicata agli altri soggetti, per lo più persone fisiche, che, a vario titolo, intervengono nella crisi dell'impresa.

Così è per la figura dell'advisor, id est del professionista che sia incaricato dall'imprenditore di valutare la situazione di crisi dell'impresa, di individuare le soluzioni tecniche più acconce, e di predisporre concretamente lo strumento regolatorio della crisi prescelto, sia esso giudiziale o piuttosto stragiudiziale.

Una sia pur non troppo assidua attenzione è invece stata dedicata alla limitrofa figura dell'attestatore, ruolo tuttavia tipizzato dalla Legge, per il quale d'altro canto è stata altresì dettata, come è ben noto, una specifica norma incriminatrice penale (art. 236bis l.f.).

L'attestatore, tuttavia, richiama immediatamente le problematiche relative alla responsabilità per diffusione di giudizi e/o informazioni falsi od inesatti (cfr. per tutti C. Picciau, Diffusione di giudizi inesatti nel mercato finanziario e responsabilità delle agenzie di rating, Milano, 2018; Di Donna, La responsabilità civile delle agenzie di rating. Mercato finanziario, allocazione dei rischi e tutela dell'investitore, Padova, 2012; Sartori, Informazione economica e responsabilità civile, Padova, 2011; Facci, Il danno da informazione finanziaria inesatta, Bologna, 2009). Differente è la situazione dell'advisor, che non è chiamato per legge ad informare nessuno, e nemmeno a verificare quanto fatto da altri; l'advisor fa, non controlla.

Probabilmente proprio per tale motivo, ossia per il “vuoto anomico” che caratterizza l'advisor, i contributi dottrinali e giurisprudenziali sono stati, sino agli anni più recenti, molto scarsi.

Aleggia il preconcetto, in realtà del tutto destituito di fondamento (v. infra) per cui il regime di responsabilità dell'advisor sarebbe meno rigoroso di quello dell'attestatore; ma l'assunto sembra completamente apodittico: è vero che l'esperto che redige la relazione ex art. 161 l.f. svolge un ruolo, tipico del gatekeeper, regolato dalla Legge; ma sostenere che chi formula le linee del piano di ristrutturazione, e le implementa, sia meno responsabile delle conseguenze di tale operato di chi dovrebbe impedirle sarebbe come affermare che i sindaci di una società siano più responsabili degli amministratori, ove non vigilino efficacemente …

La giurisprudenza si è occupata in realtà, e copiosamente, di un aspetto specifico dell'attività dello advisor: quella della qualità prededucibile o meno del relativo diritto al compenso, nel fallimento consecutivo al tentativo concordatario abortito.

Probabilmente, una certa tendenza a “largheggiare” in subiecta materia da parte della giurisprudenza di legittimità, avvertita da più parti come eccessiva (ed anche dal legislatore delegante, colla l. n. 155/2017), ha successivamente concentrato l'attenzione degli interpreti sui profili relativi all'adempimento dell'incarico da parte del professionista.

Da un lato infatti la giurisprudenza del S.C., ai fini del riconoscimento del beneficio prededuttivo, si è incentrata, a partire dal 2012, sul concetto di “utilità” dell'attività del professionista concordatario (da valutarsi, nell'approdo finale di tale percorso, in una prospettiva ex ante, compatibile riterrei con quanto suggerivo in Prededuzione, revocatorie e tecniche basate sull'inefficacia e sul risarcimento del danno, in questo Portale, 2014: v. anche infra). Nozione che non poteva non misurarsi, prima o poi, con il concetto della idoneità della prestazione erogata dal debitore a soddisfare l'interesse del creditore.

Dall'altro si è inteso come la dimostrazione dell'inadempimento del professionista potesse essere idonea ad escludere in radice l'esistenza del credito, apprestando così la massima tutela possibile alla Massa creditoria, e rendendo al contempo quasi vane le discussioni sulla qualità prededucibile o meno dello stesso.

Ai profili implicanti la responsabilità di tale figura professionale sono dedicate le pagine che seguono.

Il contenuto degli obblighi: advisor legale e finanziario

Poiché il ruolo dell'advisor non corrisponde né ad un ruolo tipizzato dalla normativa, né all'oggetto di alcuna professione “regolamentata”, rectius non rientra in alcuna sfera di “esclusiva” professionale (con l'esclusione della redazione degli atti giudiziari, ove il patrocinio legale sia reso obbligatorio), la ricognizione dei tratti fisiognomici non può che attingere alla regolamentazione contrattuale “socialmente tipica”.

Strutturalmente il contratto appartiene certamente all'area delle prestazioni “professionali” (artt. 2230 ss. c.c.).

Ordinariamente la materia è appannaggio di professionisti iscritti negli albi dei dottori commercialisti e degli avvocati, ma esistono anche insolvency practitioners non forniti di tale abilitazione formale.

Non esiste nemmeno, peraltro, alcun obbligo di nominare uno o più advisors: si tratta infatti di un ruolo “non necessario”, atteso che se l'imprenditore, rectius l'amministratore della società debitrice, è in possesso delle competenze tecniche adeguate, egli non è in alcun modo tenuto ad assegnare tale incarico (come è noto, l'amministratore di società non è obbligato a possedere idonee conoscenze tecniche nemmeno in relazione alla vita ordinaria della società, potendo e dovendosi procurare tali competenze sul mercato al fine di dimostrare di aver agito in modo “informato”).

Ciononostante il possesso di tali competenze, relative alla peculiare situazione di distress dell'impresa, sfugge normalmente al bagaglio conoscitivo “medio” del manager.

Non rinvenendosi una disciplina legale di tale tipologia contrattuale, il cui oggetto rientra astrattamente nel dominio di diverse professioni “regolamentate”, la determinazione del contenuto della prestazione dell'advisor è sostanzialmente rimessa alla libera determinazione delle parti.

La prestazione può essere, e normalmente è, suddivisa fra più professionisti, in relazione alle loro specifiche e distinte competenze, oppure può anche essere erogata da un solo soggetto, che in ipotesi disponga di tutte le conoscenze necessarie. Non è nullo infatti il contratto col quale un prestatore di opera si impegni ad erogare uno sforzo per cui egli sia concretamente inidoneo; ma in tali casi il fallimento del risultato provocherà normalmente già di per sé la responsabilità del debitore, attesa la sua colpa “per assunzione”, con l'unica eccezione della prova della impossibilità comunque del risultato programmato, anche per un prestatore “professionale”.

Così pure, è possibile che più soggetti, in possesso delle medesime competenze tecniche, siano officiati insieme per tale incarico, di cui si assumano entrambi integralmente la responsabilità, oppure essi potranno suddividere fra di loro le rispettive aree di competenza.

Dall'oggetto, convenzionalmente individuato, della prestazione, unitamente ai principi generali, si ricaverà anche il regime della responsabilità.

La letteratura giuridica, e prima ancora la giurisprudenza, hanno ormai fatto strame di una cattiva manualistica, che aveva voluto introdurre nella vulgata una lezione, che si voleva far risalire a Luigi Mengoni, ma in realtà a ben guardare in larga misura apocrifa (v. infra), secondo la quale si sarebbero dovuto distinguere le obbligazioni a seconda se esse avessero ad oggetto una prestazione di mezzi oppure di risultato.

L'asserto, se confermato dal diritto vivente, avrebbe potuto assumere in subiecta materia un rilievo non trascurabile: l'obiettivo della regolazione della crisi è infatti quantomai incerto, rimesso all'incidenza di fattori concausali difficilmente controllabili (si pensi solo al voto dei creditori nel concordato).

Nella realtà il pensiero del Maestro (Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”, in Riv. dir. comm., 1954, 185 ss. e 280 ss.) non pare esser mai stato nella direzione che la nostra manualistica ha segnato per decenni: a qualsiasi obbligazione deve infatti corrispondere una prestazione, e così un risultato percepito in termini di idoneità della attività del debitore a soddisfare l'interesse del creditore dedotto nel contratto (conf. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577; più di recente Cass., 4 maggio 2018, n. 10752).

Nell'ambito delle obbligazioni c.d. di risultato normalmente l'erogazione da parte del debitore di uno sforzo adeguato consente al creditore di conseguire il risultato sperato: il prestatore dunque assume su di sé il rischio del mancato raggiungimento di tale obiettivo, salvo che non provi la causa che glielo ha reso impossibile (il c.d. casus).

Per talune prestazioni (definite “di mezzi”) invece, caratterizzate da un'elevata alea, per cui l'adempimento “diligente” non consente di escludere che il risultato finale sia comunque mancato, a causa dell'incidenza di fattori concausali esterni, il debitore non assume il rischio della mancata completa realizzazione del proprio interesse da parte del creditore; egli potrebbe nondimeno assumerlo in modo espresso e specifico, ciò che rientra nel fuoco del possibile impegno negoziale; ma in assenza di una tale pattuizione deve presumersi che le dimensioni dell'impegno assunto dal debitore corrispondano a ciò che risulta socialmente normale. Ciò non toglie tuttavia che il debitore assuma comunque l'impegno di erogare uno sforzo che sia almeno astrattamente idoneo a conseguire quell'interesse.

Dunque il debitore di una prestazione “di mezzi” non è scevro dall'aver garantito un “risultato”, ma quest'ultimo è percepibile in termini di scopo “mezzo”, la cui realizzazione consente almeno astrattamente di conseguire lo scopo “fine”.

E il prestatore può liberarsi, ove il risultato sia mancato, anche provando positivamente di aver erogato lo sforzo esigibile, siccome idoneo a conseguire quell'effetto; peraltro quella esigibilità va apprezzata, con riferimento alle prestazioni “professionali”, in relazione ad una diligenza “qualificata”, sanzionata nell'art. 1176, comma 2°, c.c. (ex multis cfr. Cass., 22 marzo 2017, n. 7309; Id., 10 giugno 2016, n. 11906).

Le scarne indicazioni della giurisprudenza, a proposito della limitrofa figura dell'attestatore, sono nella direzione di tratteggiare il profilo di un “professionista non comune, specialista della materia, specificamente ingaggiato per (e dunque attrezzato a) esplicare regole tecniche funzionali … a tutelare in modo efficace l'interesse del committente, secondo una misura di diligenza notevole” (Cass., 4 maggio 2018, n. 10752).

Il parallelo con l'attestatore non è sicuramente fuorviante, sotto il profilo della “particolare” diligenza e della “professionalità” richiesta, anche se la ricorrenza di specifici requisiti di abilitazione, per assumere il ruolo dell'attestatore (compendiati nell'art. 28 l.f.), pone enfasi sulla funzione legale di tale esperto, i cui compiti sono esplicitamente disegnati in modo da esternalizzare effetti vantaggiosi in favore anche dei creditori e del Tribunale (da qui la similitudine con il c.t.u. nella motivazione di Cass., Sez. Un., n. 1521/2013), oltre che del debitore; non a caso il Legislatore ha reso l'attestazione appannaggio riservato a sole professioni “protette”, mentre diversamente si è determinato quanto all'advisor.

La giurisprudenza di merito ha già enfatizzato la irrilevanza della natura “di mezzi” della prestazione dell'advisor, richiedendo comunque e quantomeno la idoneità della prestazione a conseguire il risultato programmato (cfr. Trib. Padova, 1 giugno 2017, Fall.to SiDi s.n.c.); e sanzionando la prestazione di tale professionista là dove “un'attività di controllo o, comunque, una più attenta considerazione della documentazione a disposizione, avrebbe dovuto portare a concludere per la impraticabilità della soluzione concordataria” (Trib. Vicenza, 26 settembre 2018, Fall.to Vimet).

D'altro canto la qualificazione del rapporto in termini di opera professionale rende sì teoricamente applicabile l'art. 2236 c.c., che come è noto limiterebbe la responsabilità quanto alla soluzione di problemi tecnici di “speciale difficoltà”, ma è altrettanto noto che il canone giurisprudenziale consolidato rende il disposto applicabile ai soli casi di imperizia (ex plurimis Cass., 10 marzo 2014, n. 5506), non a negligenza ed imprudenza, e con tendenza comunque ad un'interpretazione oltremodo restrittiva, che ben si armonizza del resto con le più moderne visioni della responsabilità civile (cfr. ex multis Cass., 15 giugno 2018, n. 15732, per cui “in caso di inesatta realizzazione dell'opera commissionata, grava sull'appaltatore sia l'onere di dimostrare la particolare difficoltà della prestazione, sia l'onere di provare che il risultato della stessa, non rispondente a quello convenuto, è dipeso da fatto a sé non imputabile in quanto non ascrivibile alla propria condotta conforme alla diligenza qualificata, dovuta in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto”).

Nella sostanza il contenuto della prestazione, e la diligenza esigibile, non potranno che essere ricostruiti facendo ricorso alle leges artis: vi sono come è ben noto apparati di regole tecniche che “codificano” come, secondo gli operatori del settore, debbono essere redatti determinati piani: così ad es. i “Principi per la redazione dei piani di risanamento” del settembre 2017, approvati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili; oppure la “Guida al piano industriale” di Borsa italiana.

L'accertamento di una condotta dell'advisor in difformità da tali best practices difficilmente consentirà a quest'ultimo di esonerarsi da responsabilità: la devianza dallo standard tecnico socialmente riconosciuto farà infatti quantomeno presumere la sussistenza della colpa “specifica”, lasciando al prestatore la difficile prova per cui il fallimento del tentativo regolatorio sarebbe avvenuto comunque, per l'operare di cause “esterne” alla propria condotta, anche qualora fosse stato posto in essere il comportamento corretto; oppure la ancor più impervia strada della disapplicazione della regola cautelare da parte del Giudice, peritus peritorum.

Di contro, la prova della conformità allo standard non potrà mai ritenersi sicuramente esaustivo di ogni obbligo di diligenza: il Giudice infatti potrà sempre rinvenire la obbligatorietà di condotte non codificate, e non adottate dall'agente, per riempire di contenuto il concetto di colpa “generica”.

Si tratta infatti di regole tecniche, non di norme di diritto: regole certo “autorevoli”, ma comunque mai esaustive.

Un corredo di regole tecniche assai utili, per valutare le condotte dell'advisor, ritengo con certezza possa essere recepito (ancora) nella letteratura che regola l'attività dell'attestatore: così si ricorderanno i “Principi di attestazione dei piani di risanamento”, emanati il 6 giugno 2014, ed esplicitamente riconosciuti dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti; vi sono del resto diversi altri documenti di contenuto simile: il primo documento del CNDEC del 2006, il documento divulgato sempre dal CNDCEC nel febbraio del 2009, e poi le c.d. “Linee Guida di Firenze”, nella versione in vigore del 2015, anch'esso riconosciuto dal CNDEC; senza dimenticare ovviamente l' ISAE 3400 (“The Examination of Prospective Financial Information”).

Tali documenti consolidano il sapere “tecnico” degli operatori, le leges artis relative alla “tecnica” di redazione delle attestazioni, codificando del resto prassi virtuose, ormai da tempo condivise dalla migliore pratica professionale.

Dunque essi non possono che finire per dettare regole valide anche per la stessa redazione dei piani, atteso che ciò che non è attestabile non corrisponde di certo al “tipo” legale del piano di risanamento; un piano non attestabile, insomma, è anche un piano non correttamente redatto dal suo estensore.

Non è forse casuale che le regole tecniche che guidano l'attività di chi è chiamato a verificare un documento “tecnico” siano state elaborate ed approfondite anche prima di quelle che governano la stessa redazione dell'oggetto della verifica: chi è investito di una “posizione di garanzia”, a tutela di interessi generali, è indotto ad approfondire il fuoco della propria attività in modo più specifico e “pressante”, anche al fine di non incorrere in responsabilità.

Le guidelines elaborate dal “controllore” diventano così inevitabilmente un benchmark irrinunciabile per giudicare della sua attività, e così anche di quella dei controllati.

Sempre non casualmente, d'altro canto, i principi contabili (OIC) sono stati elaborati e perfezionati dopo le procedure di revisione contabile.

Col risultato, che può sembrare quasi paradossale, per cui l'estensore del piano rischia di essere chiamato a rispondere delle conseguenze del fallimento dello stesso, ove non riesca a dimostrare di aver erogato uno sforzo almeno astrattamente idoneo a conseguire il risultato favorevole, ciò che può richiedere spesso la prova diabolica della causa specifica, estranea al suo operato, di quel fallimento. Mentre l'attestatore potrebbe essere mandato esente da responsabilità se solo provi di avere effettuato tutti i controlli che le consolidations tecnico- professionali individuano come doverose; perché chi fa risponde sempre delle conseguenze del proprio operato, mentre chi controlla risponde solo se non ha controllato ciò che doveva; ma quest'ultimo, se ha applicato le procedure universamente riconosciute, ed è stato tratto in inganno da chi era responsabile dell'impostazione del piano, non può essere ritenuto davvero in colpa (si pensi al rapporto fra dirigenti e organismo di vigilanza nel d. lgs. n. 231/2001).

(segue) Le responsabilità “in équipe"

Nell'eventualità, abbastanza inusuale (ma possibile e lecita, nell'assenza di attività “riservate”), in cui una sola persona assuma l'incarico di pianificare la soluzione regolatoria, l'applicazione di tali principi risulterà abbastanza agevole.

Più spesso tuttavia il ruolo dell'”advisor” risulterà frazionato nell'ambito di un team di lavoro, composto di più persone, ciascuna dotata di specifiche competenze tecniche (intese come background professionale), oppure comunque attributaria di una specifica “funzione” nel contesto della “équipe”.

Può ritenersi normale in questi casi che fra i membri del team vi sia una continua interazione, come che le scelte “strategiche” siano frutto di condivisione fra gli stessi, ma ciò non implica che tutti siano responsabili per l'operato di tutti, perché ciò avviene soltanto là dove la Legge impone tale risultato (cfr. l'art. 2392 c.c., ove si rendono sì tutti gli amministratori “solidalmente responsabili verso la società”, ma non per caso col limite che “si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno più amministratori”); e condividere l'operato altrui non vuol dire anche risponderne, perché ciascuno è obbligato in tali casi nell'ambito specifico delle proprie competenze.

Tutto ciò, beninteso, a condizione che le scelte altrui non appaiano palesemente o comunque riconoscibilmente irrazionali.

Questa è appunto la ratio decidendi giurisprudenziale che governa le responsabilità nell'ambito delle attività “in équipe”, ove ciascuno risponde nell'ambito delle proprie competenze, e non assume responsabilità per gli errori altrui, a meno che essi non appaiano frutto di scelte palesemente irrazionali, che tutti cioè possono percepire come tali, a prescindere dal possesso di specifiche conoscenze tecniche (si tratta del “principio del controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro in équipe, secondo il quale l'obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell'equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali”: cfr. ad es. Cass., 29 gennaio 2018, n. 2060).

La particolare “professionalità” richiesta a chi si occupa di ristrutturazioni aziendali, a prescindere dallo specifico settore di competenze tecniche, rende comunque a mio avviso più elevata del normale la “soglia di attenzione” rispetto al prodotto del lavoro altrui; dallo “esperto” del settore infatti ci si attende comunque uno spettro di conoscenze interdisciplinari, che lo rendano almeno capace di comprendere i semilavorati degli altri membri del team; dunque ad es. l'avvocato non potrà essere considerato di per sé capace di produrre i dati, soprattutto “simbolici”, che compongono il piano industriale (a meno che non risulti concretamente in possesso di tali competenze), ma certamente dovrà presumersi che egli possa comprendere quell'apparato numerico e simbolico, al fine di poterlo tradurre nel risultato del proprio specifico lavoro.

Ciò soprattutto ed a maggior ragione nel caso in cui uno dei membri del team si impegni contrattualmente, od assuma di fatto il ruolo di “coordinatore” dell'équipe (in tal senso v. ad es. Trib. Bolzano, 14 luglio 2017, Fallimento ZH: “appare evidente che l'avvocato non risponde in modo automatico del corretto adempimento degli altri professionisti (a meno che non siano suoi ausiliari, v. art. 2232 c.c.), tuttavia il suo ruolo di propulsore della procedura e di interlocutore tecnico fra l'imprenditore in crisi ed il Tribunale, impone una diligente opera di coordinazione e di controllo sia dal punto di vista temporale (assicurando il rispetti dei termini procedurali) che di quello contenutistico, nel senso di una verifica (quantomeno sommaria) della conformità dell'opera di terzi rispetto al modello legale richiesto … all'avvocato medio che si occupa di materia fallimentare e che di sua iniziativa propone di assistere il redattore dell'attestazione del piano, è richiesta una diligenza e perizia tale da poter valutare la conformità dell'attestazione al modello legale e di cogliere le criticità macroscopiche che non potevano che portare all'inammissibilità dell'istanza di concordato”).

Lo stesso è a dirsi quanto all'utilizzo di elaborati redatti da professionisti “terzi”, non facenti parte del team che assembla lo strumento regolatorio, cui siano richieste o dal professionista stesso, oppure dal debitore, oppure da terzi, specifiche expertises: il professionista della crisi non risponderà in modo automatico degli errori da questi commessi (a meno che egli non possa dirsi sufficientemente “qualificato”); ma non potrà esentarsi da responsabilità qualora non rilevi le difformità nel prodotto finale dallo standard di riferimento, secondo i parametri di una diligenza comunque “elevata” (cfr. Trib. Benevento, 23 aprile 2013: “in caso di ricorso a perizie rese da terzi, il professionista non può limitarsi ad assumere, in modo apodittico, le valutazioni rese da questi ultimi, ma deve enunciare i criteri ricognitivi, estimativi e prognostici seguiti e ripercorrere l'iter logico”; per un caso di “appiattimento” dell'attestatore sui valori delle perizie immobiliari, v. anche Cass., 9 marzo 2018, n. 5825).

Vi sono infatti di solito documenti “tecnici” che consolidano le prassi virtuose che altri professionisti, il cui operato è destinato ad interfacciarsi con quello dell'advisor al fine della confezione del tentativo regolatorio, debbono seguire: si pensi solo, quanto ad es. alle valutazioni, soprattutto immobiliari, al Codice delle valutazioni immobiliari di Tecnoborsa (per cui è ormai disponibile l'edizione 2018), alle Linee Guida ABI per la valutazione degli immobili in garanzia delle esposizioni creditizie, versione 14 dicembre 2015, ed il successivo documento del gennaio 2018; ai Principi di valutazione italiani – P.I.V., edizione 2015; con riferimento specifico alle valutazioni aziendali, oltre ovviamente ai P.I.V., la materia è caratterizzata dalla disponibilità del documento del CNDCEC contenente “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, del 2016, ed in misura minore anche de “La relazione giurata estimativa del professionista nel concordato preventivo e nel concordato fallimentare”, a proposito della perizia ex art. 161, comma 2°, l.f.

Qualsiasi professionista, attestatore come advisor, che si trovi ad utilizzare tali experties recependole come elemento base del proprio lavoro, non potrà evitare di sindacare preventivamente la aderenza di tali prodotti alle best practices riconosciute, quantomeno sotto il punto di vista della verifica circa la conformità ai “modelli” di riferimento.

Non si richiede dunque che l'advisor sia in grado autonomamente di porre in essere la valutazione, ma senz'altro di saper valutare se chi ha svolto tale opera abbia rispettato i canoni metodologici consolidati del settore, illuminando ed approcciando tutte le criticità, e svolgendo i controlli e gli approfondimenti normalmente richiesti.

Il tutto sempre in aderenza al caso concreto, con accurato accertamento dei confini e della natura specifici dell'incarico, e delle specifiche competenze del singolo professionista.

Figure professionali dotate di particolare reputazione e di peculiari competenze genereranno infatti un affidamento maggiorato, e richiederanno dunque anche metri valutatori più esigenti.

(segue) L'advisor “servo di due padroni”?

La giurisprudenza in materia di responsabilità “professionale” ha studiato in modo specifico l'esistenza di una serie di obblighi specifici del prestatore, che si ritengono insiti nell'accettazione dell'incarico (anche se più correttamente, essi sarebbero forse desumibili dall'obbligo generale integrativo di “buona fede” ex art. 1375 c.c.).

Così, ad es., la natura “professionale” del prestatore implica che questo sia in possesso di cognizioni e competenze, anche esperienziali, che il cliente normalmente non possiede; dunque è logico che “l'obbligo di svolgere l'incarico professionale con diligenza, ex artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c., impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi” (Cass., 13 settembre 2017, n. 21173); e così pure che sussista l'obbligo di “richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Incombe al professionista l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno di iniziare un processo” (Cass., 19 aprile 2016, n. 7708).

L'obbligo di informare il cliente circa i possibili profili di rischio è considerato pacificamente l'oggetto di una prestazione di risultato: di conseguenza l'omessa informazione, se poi il rischio si realizzi e sopravvenga un pregiudizio, è normalmente fonte di responsabilità, eventualmente con obblighi risarcitori informati alla fattispecie della perdita di “chances”.

Ma nel caso dei processi regolatori di crisi aziendali il “cliente” è normalmente rappresentato da una o più persone fisiche, diretta espressione del “soggetto economico” di riferimento dell'azienda, che sono terminali di incentivi fra di loro contrastanti, e che subiscono fortemente (avendo investito nell'azienda un consistente capitale di rischio) gli effetti dell'azzardo morale; dunque il processo decisionale di cui tali soggetti sono responsabili può risultare “inquinato” da una percezione alterata della relazione fra il proprio interesse, quello dell'impresa, e quello dei creditori.

Pare inevitabile che tale percezione “malata” rischi di trasferirsi anche in capo all'advisor.

L'oggetto della prestazione socialmente tipica è costituito solitamente (anche) dalla individuazione delle soluzioni regolatorie più acconce, in relazione alla situazione effettiva dell'impresa.

E' chiaro che in molti casi le soluzioni prospetticamente più “sicure” per i creditori potrebbero comportare una “quasi certezza” di perdita di ogni aspettativa in capo ai portatori del capitale di rischio.

Nel paradigma neoclassico la preferenza per l'interesse dei creditori dovrebbe suonare quasi ovvia: i residual claimants hanno infatti quasi sempre già perso tutto, e la titolarità del potere di decidere in ordine alla soluzione non dovrebbe più spettare a loro.

Ma la realtà ha altre prospettive: chi ha formalmente il potere di decidere non vi rinunzierà facilmente, se non è adeguatamente “incentivato”; e lo spauracchio della responsabilità non risulta spesso sufficiente a garantire comportamenti “responsabili”.

Dunque quid iuris se il professionista in questione fosse in grado di provare di avere somministrato al “cliente” una gamma di soluzioni possibili, e di avere altresì evidenziato quali di esse comportassero rischi maggiori per i creditori, e minori probabilità di riuscita? Se il cliente, così informato in modo esaustivo, avesse espressamente e “consapevolmente” fornito istruzioni al prestatore d'opera affinché quest'ultimo perseguisse una particolare soluzione, a dispetto delle sue palesi (e funeree) prospettive?

Potrebbe ciononostante sostenersi che il professionista fosse contrattualmente responsabile verso la società per aver strutturato un tentativo ristrutturatorio risultato deleterio per il patrimonio sociale, diminuito in conseguenza, e dunque anche per la Massa creditoria? Anche se il cliente, o meglio chi rappresenta il cliente, abbia consapevolmente optato per tale soluzione?

Nel diritto civile “classico” rispondere affermativamente sarebbe credo difficile: il prestatore d'opera assume l'obbligo contrattuale di curare l'interesse del cliente, non di interessi esterni allo stesso, in ipotesi conflittuali con lo stesso.

Ma nel diritto della crisi di impresa forse la situazione è un po' diversa: da un lato la prestazione del professionista, come abbiamo visto, ha un contenuto socialmente tipico; essa può dunque arricchirsi di obblighi normalmente insiti nell'affidamento dell'incarico rivolto alla regolazione della crisi; dall'altro il professionista esperto della crisi non può ignorare che gli obblighi che incombono sull'amministratore della società, in questa situazione, sono più complessi di quelli che caratterizzano la fase di vita “ordinaria” dell'impresa.

Non è questa la sede per prendere posizione in ordine al problema se la insufficienza del patrimonio sociale (arg. ex art. 2394 c.c.) renda l'amministratore obbligato a perseguire positivamente l'interesse dei creditori, oppure se quest'ultimo resto un semplice limite all'operato dei gestori; così pure non si deve qui prendere posizione in ordine al quesito se la perdita della continuità aziendale, o l'insorgere dell'insolvenza, od addirittura della mera crisi, attivi modificazioni negli obblighi di comportamento degli amministratori, in ipotesi simili a quelli previsti dall'art. 2486 c.c.

Chi scrive peraltro ritiene che difficilmente una scelta gestionale che possa prevedibilmente e ragionevolmente comportare l'insorgere di una condizione di insufficienza patrimoniale, a prescindere dalla situazione patrimoniale o finanziaria di partenza, possa legittimarsi, in un sistema imperniato sugli artt. 2394 e 2486 c.c.; si tratta infatti di decisioni che si collocano immancabilmente al di là della soglia di “rischio consentito”, e dunque anche della business judgement rule.

E' ormai assodato d'altro canto che non solo gli atti di gestione che deteriorano il patrimonio sociale, ossia non lo “conservano” dopo la perdita integrale del capitale sociale, ma altresì quelli che lo rendano prospetticamente insufficiente, anche in concorso con altri fattori concausali, si pongono in collisione con gli artt. 2394 e 2486 c.c.

Qualora tuttavia la situazione sia già deteriorata, e dunque l'impresa possa ritenersi in conclamata crisi, l'obbligo di prudenza in capo agli amministratori sembra destinato ad essere valutato con maggior rigore: la soglia di “rischio consentito” dunque sarà più bassa.

In situazione di insolvenza conclamata, e di insufficienza patrimoniale già emersa, qualsiasi soluzione che comporti un rischio per la Massa superiore all'aspettativa di conseguire un “maggior soddisfacimento”, sarà da considerare illegittima; non è certo un caso se il Legislatore ha dettato all'art. 186bis l.f. un criterio che condiziona la legittimità della prosecuzione d'impresa alla ragionevole prospettiva di poter così massimizzare l'aspettativa di realizzo del ceto creditorio.

Tale stato di diritto, e l'assetto degli incentivi “legali” che possono determinare le scelte gestorie, non può certo essere ignorato dall'advisor, che è un professionista, lo sappiamo, chiamato ad una diligenza “notevole”.

Di conseguenza ritengo che difficilmente l'advisor, ove agevoli l'operato dell'amministratore che pregiudichi l'interesse dei creditori, privilegiando la prospettiva dell'azzardo morale, possa liberarsi da responsabilità nei confronti di singoli creditori che siano risultati danneggiati da tale condotta; il titolo tuttavia dovrebbe essere costituito dall'art. 2043 c.c., e la legittimazione spettare appunto ai singoli danneggiati, non rinvenendosi senza dubbio un'azione “di massa” che la curatela possa esercitare in sostituzione del ceto creditorio (v. anche infra).

Analoga conclusione sembrerebbe predicabile quanto all'attestatore, ma in quel caso il contenuto della prestazione appare conformato diversamente dalla Legge: mentre per l'advisor non sussiste una disciplina specifica, sicché anche la definizione della prestazione è in astratto interamente rimessa all'autonomia privata (con i limiti che si vedranno: infra), il ruolo dell'esperto che rilascia la relazione è invece espressamente sancito dall'ordinamento; di conseguenza, benché anche tale professionista sia legato alla società, credo, da un rapporto contrattuale, mi pare pure innegabile che nel fuoco degli interessi tutelati debbano essere collocati anche quelli dei creditori, alla cui tutela l'attestatore, eletto dal Legislatore come gatekeeper, è (anche) preposto. La natura della relativa responsabilità tuttavia potrà essere qualificata come “contrattuale”, secondo il canone civilistico oramai consolidato, atteso il “contatto sociale” con i creditori, rilevante per il diritto, che si realizza e che la caratterizza.

Anche nell'ambito del rapporto contrattuale che lega l'advisor alla stessa, tuttavia, la conclusione pare poter essere diversa da quella “classica”, cui il diritto civile sembrerebbe dover condurre.

L'obbligazione del prestatore d'opera- advisor, infatti, non sembra possa essere valutata disgiuntamente dal suo contenuto socialmente tipico: e nello spettro del contenuto della prestazione di tale professionista rientra “normalmente” anche la tutela dell'interesse dei creditori.

La situazione sembrerebbe presentare interessanti omologie con talune applicazioni in tema di prestazioni sanitarie; il punto di contatto, assai suggestivo, è quello del “consenso informato” che si richiede in entrambi i mondi al cliente: il professionista è sempre chiamato a porre in essere un'attività tecnica, che presuppone nel destinatario un potere di scelta “consapevole” in ordine alle strategie.

Ciononostante una prima differenza appare evidente: nel caso dell'advisor l'esternalizzazione degli effetti negativi della relazione professionista – cliente avviene sul piano dei creditori, i quali pure debbono essere informati, e che detengono il vero potere di “scelta”. Quanto al medico invece gli eventuali effetti negativi possono riverberarsi su soggetti “terzi” rispetto alla relazione contrattuale (si pensi al contratto della gestante con la struttura sanitaria), ma il potere decisionale resta sempre in capo alla controparte negoziale diretta.

Vi è comunque pur sempre un essenziale punto di convergenza, in ultima analisi: anche il diritto delle prestazioni sanitarie conosce soggetti “terzi” rispetto alla relazione contrattuale che coinvolge il professionista, i cui interessi debbono essere tutelati: il nascituro nel contratto che la gestante stipula con la struttura sanitaria (Cass., 11 maggio 2009, n. 10741; Id., 29 luglio 2004, n. 14488, pur negandosi l'esistenza di un “diritto a non nascere”; più di recente nella giurisprudenza di merito Trib. Frosinone, 24 maggio 2016, in www.iusexplorer.it; altre applicazioni del principio si rinvengono nel rapporto fra genitori, istituzione scolastica ed alunno per i danni autoinflitti da quest'ultimo: cfr. Cass., Sez. Un., 27 giugni 2002, n. 9346; si v. anche, per un caso non relativo alle prestazioni sanitarie, in cui il compratore di un immobile agiva per il risarcimento dei danno cagionati da un professionista che, su incarico del venditore, aveva redatto un certificato attestante fatti non conformi alla realtà obiettiva, Trib. Avezzano, 2 gennaio 2017, in www.iusexplorer.it); tali soggetti non debbono essere necessariamente “informati” dal prestatore (ciò avviene nei confronti del cliente, cioè della controparte contrattuale del professionista), eppure i loro interessi pure entrano nello spettro degli interessi che devono essere “protetti” nell'esecuzione del contratto, e dunque debbono ritenersi implicitamente “dedotti” in esso.

Si discorre per questi casi di contratti con effetti “protettivi” rispetti a terzi, i quali dunque trovano nel vincolo negoziale (di cui non sono parti) la fonte di un'obbligazione (ex art. 1174 c.c.) che li tutela, e che possono azionare in giudizio verso il prestatore; non si tratta di un contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.), benché si intravveda una responsabilità, pur sempre contrattuale, che deriva dal “contatto sociale” qualificato fra il terzo ed il prestatore.

I termini della peculiare relazione, come ricostruiti dalla giurisprudenza, presuppongono che in tali situazioni “determinati” terzi (identificabili ex ante) si trovino “tipicamente” esposti ad un rischio di danno, in occasione dell'esecuzione di un contratto inter alios, contratto col quale tali terzi entrino in “contatto” non occasionale.

Lo stesso, com'è evidente, parrebbe avvenire per il diritto concorsuale, relativamente all'interesse della Massa creditoria, rispetto al dipanarsi della relazione contrattuale fra il debitore in crisi e l'advisor.

Allo schema del contratto con effetti protettivi per i terzi ha già fatto per la verità ricorso, in subiecta materia, con riferimento ai creditori concorsuali, un precedente di merito (Trib. Rovigo, 14 maggio 2015, in www.ilcaso.it), sia pur a proposito del problema limitrofo della spettanza della prededuzione al credito dell'advisor (sui cui rapporti con la tematica dell'inadempimento del prestatore v. anche infra).

Pertanto, nell'ipotesi in cui l'advisor riceva espresse istruzioni da parte del “cliente” che abbiano ad oggetto una soluzione regolatoria della crisi percepibilmente pregiudizievole per i creditori (e determinata dall'azzardo morale del debitore, rectius dal soggetto economico di riferimento dello stesso), questi ultimi godranno anche di una pretesa contrattuale verso il professionista.

Resta il problema se anche la società- cliente disponga di una pretesa in tal senso, che la curatela fallimentare possa esercitare in sostituzione del fallito, nonostante l'espresso assenso ricevuto dall'organo del cliente, la cui attività si imputa come è noto integralmente a quest'ultimo.

Se certamente la società in crisi, e per essa i suoi organi, non può disporre di diritti “terzi”, come quelli dei creditori, è facile ipotizzare la possibilità di disporre piuttosto dei propri interessi (secondo la “metafora penalistica” del consenso dell'avente diritto): l'affermazione di tale possibilità potrebbe allora “bloccare” qualsiasi pretesa risarcitoria, e financo impedire che siano sollevate efficacemente eccezioni paralizzanti rispetto alla pretesa del professionista avente ad oggetto il proprio compenso (v. infra).

Tuttavia, ancora una volta è probabile che l'osservazione della nostra realtà con le lenti “statiche” del diritto dei contratti “classico” risulti fuorviante.

L'applicazione alla fattispecie dei principi in materia di corresponsabilità nella causazione del fatto lesivo altrui (art. 2055 c.c.) e di lesione del credito (in specie, rispetto alla c.d. induzione all'inadempimento), portano alla luce qualche elemento eterogeneo rispetto alla ricostruzione più “statica”: non sembra affatto ovvio infatti che il danneggiante possa eccepire nei confronti della società il concorso, persino doloso, del fatto dei suoi organi (amministratori), se non al fine di far valere un eventuale “arduo” concorso, stavolta colposo ma della società, ex art. 1227 c.c., derivante dalla omessa vigilanza sull'operato dei propri gestori.

D'altro canto, anche in materia di rappresentanza “legale” deve escludersi che il concorso, in danno del rappresentato, del fatto illecito doloso del rappresentante legale e del terzo possa escludere la responsabilità di quest'ultimo, posto che diversamente verrebbe meno la stessa esigenza di tutelare l'interesse del rappresentato.

Ed è difficile non condividere l'osservazione per cui, essendo l'advisor un soggetto dotato di specifica e “qualificata” professionalità, e quindi destinatario di puntuali obblighi di “cura” dell'interesse altrui, la questione del contributo causale del danneggiato alla verificazione del danno non può essere riguardata allo stesso modo di come avverrebbe nell'ambito dei rapporti fra soggetti posti in posizione paritaria, soprattutto sotto il profilo informativo (cfr. ad es. Inzitari, L'abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, in www.ilcaso.it, 19 marzo 2007; più in generale, sul piano del diritto civile, per l'analisi del concorso fra art. 1227 c.c. e attività del rappresentante dannosa per il rappresentato, Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, 2, in Commentario del c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1979, sub art. 1227).

Ancora, la osservazione delle norme come l'art. 2497 c.c., ove il danno alla società controllata scaturisce da un comportamento sicuramente (nella maggior parte dei casi) “collusivo” fra la società controllante e gli amministratori della società controllata, dimostra che è ben possibile l'operare del concorso nei termini che abbiamo illustrato (sul ruolo dell'art. 2497 c.c., anche sotto se un profilo in parte differente, v. per tutti Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004, p. 104 nota 11; cfr. anche Bonfatti, La responsabilità civile della banca locale nell'erogazione del credito alle imprese di rete, in La crisi d'impresa nelle reti e nei gruppi, a cura di Cafaggi e Galletti, Padova, 2005, 137 ss.).

Un'altra osservazione di stampo “civilistico” aiuterà forse a comprendere esattamente i reali termini della situazione: immaginiamo che le parti del contratto di advisoring abbiano consapevolmente inteso deviare dal contenuto “socialmente tipico” del contratto (che prevede, come abbiamo creduto di dimostrare, anche la considerazione dell'interesse dei creditori), esonerando esplicitamente il prestatore da qualsiasi tutela, valutazione o financo “ponderazione” dell'interesse della Massa concorsuale; che cioè le parti abbiano scientemente voluto assumere il rischio del pregiudizio al ceto creditorio, facendo prevalere quello del debitore, anche al limite di fronte al dilemma della “scommessa” (tipica dell'azzardo morale) fra bassa probabilità di recuperare l'investimento in capitale di rischio ed elevata probabilità di compromettere le ragioni dei creditori.

Ritengo che difficilmente tale pattuizione possa superare il vaglio di compatibilità con l'art. 1322, comma 2°, c.c., e forse ancor prima non collidere con l'art. 1418 c.c., generando un caso di nullità virtuale (nullità direi parziale: arg. ex art. 1419 c.c.): la materia è connotata, come è noto, da norme di certa imperatività, in particolare da quelle che sanzionano penalmente le condotte di aggravamento del dissesto, anche in modo solo colposo (artt. 216- 217 l.f.).

Potrebbe d'altro canto la gestante liberare preventivamente da responsabilità la struttura sanitaria per le condotte consapevolmente dannose per la salute del nascituro (e non già scriminate dallo “stato di necessità”)? Non lo crediamo, proprio in forza della natura indisponibile di quell'interesse (arg. ex art. 32 Cost).

Il tema è già stato dibattuto in subiecta materia a proposito di problemi limitrofi, ove l'affermazione della natura “imperativa” del diritto concorsuale ha sempre costituito l'approdo finale di tutte le digressioni interpretative: si pensi, a mero titolo di esempio, al trust “liquidatorio”; ma anche alle pattuizioni che prevedono l'estensione dei privilegi da un creditore ad un altro, al fine di “comprare” l'astensione di questo dall'instare per il fallimento.

Dunque la deduzione dell'interesse della Massa, nell'oggetto del negozio di advisoring, deve ritenersi non solo socialmente tipica, ma altresì “necessaria”, e la prestazione del professionista che, sia pur col consenso del “cliente”, ponga in essere tale condotta, non potrà considerarsi né “diligente” né “esatta”, potendo essa fondare la responsabilità dello stesso.

Il concorso nella responsabilità dell'advisor: l'attestatore e gli organi sociali

L'accenno formulato nel paragrafo che precede consente di affrontare un'altra problematica, anch'essa solitamente assai negletta, ed intessuta di affermazioni dal sapore preconcettuale: quello del concorso dell'advisor nel fatto illecito altrui.

Ovviamente il principale “concorrente” non può che essere l'organo amministrativo della società in crisi.

Spesso dalle opinioni dei pratici si ricava la sensazione che, almeno nei casi in cui non si realizzino gli estremi della “istigazione” di cui sopra, la responsabilità dell'advisor sia quella “primaria”, laddove l'amministratore in qualche modo “subirebbe” la condotta “tecnica” del professionista, e semmai potrebbe rispondere per non aver sufficientemente vigilato sull'operato di questi.

In realtà l'impostazione deve essere invertita: le decisioni relative alla regolazione della crisi sono decisioni strategiche, che spettano agli amministratori, non ai professionisti.

Ora, non vi è dubbio che l'amministratore debba agire in modo “informato” (art. 2381 c.c.), il che vuole dire che, se egli non è in possesso di talune competenze, come frequentemente capita per le conoscenze in tema di ristrutturazioni aziendali, debba munirsene, anche se del caso ricorrendo all'opera di professionisti esperti della materia.

L'advisor è pertanto un consulente dell'organo amministrativo, non un soggetto cui siano in ipotesi delegate funzioni amministrative (cosa che nemmeno potrebbe avvenire validamente), a meno che egli non sia nominato appositamente come membro del c.d.a.

La scelta dello strumento regolatorio pertanto spetterà e non potrà che essere imputata all'organo di gestione, il quale certo la adotterà sulla base delle informazioni, ed anche dei consigli, ricevuti dal professionista della crisi (la circostanza per cui l'adozione piano è atto dell'amministratore è puntualizzata ad es. nei già citati “Principi per la redazione dei piani di risanamento”, del settembre 2017).

Se la soluzione adottata risulti poi pregiudizievole, per la Società come per i creditori, si dovrà indagare in ordine allo sviluppo del rapporto fra consulente e organo amministrativo; solo nell'eventualità in cui l'opera dell'advisor manifesti dei deficit sotto il profilo informativo (v. supra), e la natura pregiudizievole della scelta non sia concretamente ed altrimenti percepibile da parte dell'amministratore, quest'ultimo potrà andare esente da responsabilità (ravvisandosi quasi un caso di “autoria mediata”).

In tutte le altre evenienze, l'amministratore sarà responsabile ai sensi degli artt. 2476, 2392 ss. c.c., e l'advisor concorrerà con lo stesso, ai sensi degli artt. 1218- 2055 c.c. (come è ben noto, la diversità del titolo non osta all'applicazione dell'art. 2055 c.c.: ex multis, Cass., 6 dicembre 2017, n. 29218).

Un ragionamento analogo va condotto per i membri del collegio sindacale, benché le vigenti Norme di comportamento del collegio sindacale nelle società non quotate (versione 2015; inspiegabilmente il profilo non è affrontato, in modo consapevole, nelle Norme per i collegi delle società quotate, versione 2018), capitolo 11, sembrino limitare il ruolo del collegio alla verifica dei requisiti professionali dell'attestatore, alla conformità della attestazione allo standard legale (peraltro solo sotto il profilo “formale”, ossia della esistenza di un giudizio di veridicità e di fattibilità), e poi al monitoraggio circa la esecuzione del piano adottato, con la sola cautela aggiuntiva contenuta nell'invito ad “intensificare la vigilanza”.

Le stesse Norme affermano poi, in modo che pare ingiustificabile, che il collegio non sarebbe tenuto ad “esprimersi sul merito” del piano adottando ed adottato.

In realtà tali affermazioni sembrano del tutto destituite di fondamento, risultano incompatibili col modello legale di responsabilità del collegio, e rischiano di creare perversi effetti deresponsabilizzanti; sul punto le Norme di comportamento dovrebbero essere semplicemente ignorate dal Giudice, che farà applicazione solo della Legge.

Il piano di ristrutturazione è infatti un piano strategico, rientrante nel fuoco dell'art. 2381 c.c., e del resto costituisce anche un fondamentale assetto organizzativo della società, da valutare per la sua adeguatezza, e dunque anche quanto al contenuto, tanto da parte dell'organo amministrativo, nella sua collegialità, quanto da parte di quello di controllo.

Ancora una volta aleggia il preconcetto per cui la nomina dell'advisor (addirittura a prescindere dalla sussistenza di specifici prerequisiti professionali abilitativi, a differenza dell'attestatore) costituirebbe condotta idonea ad escludere la responsabilità.

Ma la teoria del “parafulmine” professionale ha scarse speranze, credo, di essere accolta da parte della giurisprudenza.

Pertanto nel fatto illecito dell'advisor concorreranno tanto gli amministratori, la cui responsabilità sarà commissiva, quanto i sindaci, per responsabilità omissiva; ed il fulcro sarà ancora una volta l'art. 2055 c.c.

La trattazione della tematica del concorso consente forse di “sfatare” altri miti: non di rado si rinviene nei pratici la convinzione che il mancato rilievo dei profili critici del piano di ristrutturazione adottato da parte dei gatekeepers “istituzionali”, attestatore, Commissario giudiziale, Giudice, costituirebbe pure un fattore “esimente” per l'advisor.

In realtà, l'omesso impedimento di un evento dannoso da parte di chi sia titolare di uno specifico obbligo di garanzia, per omesso controllo sull'operato altrui, difficilmente può rivestire efficacia “assorbente” della responsabilità di chi abbia “innescato il processo causale”, ponendo in essere la condotta pregiudizievole.

Se l'advisor fosse del tutto incolpevole, per non aver potuto percepire, sulla base delle informazioni a lui disponibili, la dannosità del progetto per la società o per i creditori, nulla quaestio: si potrà porre semmai un problema di responsabilità del Commissario giudiziale (difficilmente dell'attestatore, che in genere gode delle medesime informazioni di cui dispone l'advisor), qualora egli si avvantaggi di un bagaglio informativo sopravvenuto o comunque migliore (ad in forza della collaborazione di terzi depositari di informazioni “privilegiate”, che riesca a procacciarsi in forza del suo ruolo “istituzionale”), e non rilevi quanto potrebbe e dovrebbe. Ma si tratterà allora di una responsabilità diretta ed autonoma.

Altrimenti la responsabilità dell'advisor normalmente concorrerà con quella eventuale dell'attestatore, del Commissario giudiziale, al limite anche del Giudice; ancora in forza dell'art. 2055 c.c., ciascuno per la parte di danno che lo stesso ha concorso a creare (per l'advisor il danno futuro potrebbe comprendere anche il pregiudizio scaturito dopo che ha cessato la propria condotta, e non può più intervenire sul processo causale, nella misura in cui tale aggravamento fosse prevedibile al momento in cui ha agito; per gli altri soggetti le conseguenze risarcibili saranno solo quelle verificatesi dopo il loro “ingresso in campo”).

In ogni caso è da escludere che l'omesso rilievo da parte dell'attestatore (cfr. in tal senso la già citata Trib. Vicenza, 26 settembre 2018, Fall.to Vimet: ”tale compito non può essere interamente rimesso all'attestatore quale soggetto terzo ed imparziale, il cui compito di controllo è da considerarsi aggiuntivo e non sostitutivo rispetto al dovere gravante sulla società – per mezzo del consulente da essa incaricato – di esporre in modo rispondente al vero i valori in gioco”), oppure peggio ancora da parte del Tribunale (esclude espressamente che l'ammissione del debitore al concordato possa influire sulla responsabilità del professionista, nel frangente dell'attestatore, Cass., 25 settembre 2018, n. 22785) possa diminuire od addirittura escludere il fatto illecito dell'advisor (per un caso in cui la motivazione del Tribunale sembra muovere dal presupposto che l'omesso rilievo dell'attestatore esima l'advisor cfr. apparentemente Trib. Milano, 18 ottobre 2018, Fall.to SCT s.r.l., in www.ilcaso.it, ove tuttavia il Collegio ha piuttosto voluto selezionare e differenziare la responsabilità dell'advisor legale, nel caso concreto, da quella inerente ai profili di carattere economico e finanziario).

L'inerzia dei gatekeepers potrà al massimo costituire un indizio della difficile riconoscibilità delle criticità, per non essere state rilevate da soggetti qualificati e professionalizzati; ovviamente col limite del dolo del professionista, che abbia inteso occultare i fatti rilevanti, posto che tale situazione rende all'evidenza l'omesso rilievo del controllore del tutto irrilevante, rispetto alla responsabilità di chi abbia predisposto il piano.

Strumenti di tutela: la Massa in difesa

Le problematiche appena esplorate vengono in evidenza tipicamente in esito all'aborto del tentativo regolatorio, allorquando sopravviene il fallimento del debitore, e gli advisors chiedono di essere ammessi allo stato passivo.

In questa situazione la Massa creditoria, rappresentata dalla Curatela fallimentare, si trova in posizione “difensiva”, a contrastare la pretesa del professionista avente ad oggetto la partecipazione al concorso.

Nei primi anni di esperienza dopo la riforma del 2005-2006 l'attenzione si è concentrata sulle pretese prededuttive degli instanti.

Se da un lato la giurisprudenza di merito, quella più vicina al caso concreto, ha manifestato una decisa tendenza restrittiva, negando per lo più accesso al beneficio nei casi in cui il tentativo regolatorio non aveva prodotto alcun vantaggio per la Massa (ed anzi aveva deteriorato l'attivo disponibile), la S.C. si è distinta di contro per una tendenza espansiva della prededuzione, al punto tale da suscitare la “reazione” del Legislatore della Riforma (l. n. 155/2017).

Alla fine un punto di equilibrio sembra esser stato rinvenuto in una giurisprudenza di legittimità, forse finalmente “stabile”, per cui la prededuzione spetterebbe nei casi in cui l'attività del professionista si manifesti come utile ai creditori, ma in una prospettiva ex ante, senza possibilità di negare il beneficio esclusivamente in ordine ad un esame ex post della vantaggiosità della prestazione per la Massa (Cass., 5 dicembre 2016, n. 24791; Id., 10 gennaio 2017, n. 280; le pronunzie successive della S.C. debbono essere intese nel solco di tale orientamento, al di là dell'impressione fuorviante che può trarsi dall'esame delle sole massime: v. Cass., 30 marzo 2018, n. 7974; Id. 16 maggio 2018, n. 12017; Id., 21 novembre 2018, n. 30114; se tuttavia il concordato sia revocato per scoperta di atti di frode che fossero noti all'advisor, il beneficio non spetta comunque; evidentemente viene così rivelata successivamente una “inutilità” che tuttavia già sussisteva ab origine: cfr. Cass., 7 febbraio 2017, n. 3218).

Mi era d'altro canto sembrato, in altra sede, che proprio questa prospettiva si armonizzasse bene con una ricostruzione della prededuzione come categoria sostanziale, tesa ad incentivare negli attori della crisi un comportamento efficiente (cfr., se si crede, Prededuzione, revocatorie e tecniche basate sull'inefficacia e sul risarcimento del danno. Modelli di incentivazione per gli attori del diritto concorsuale, cit.).

La sensazione per cui la giurisprudenza di legittimità avrebbe così “aperto troppo i cancelli” in ordine alle pretese professionali, ha determinato una rapida concentrazione delle risorse sulla dimensione dell'inadempimento contrattuale (v., fra i primi, Trib. Monza, 23 ottobre 2014, in www.ilcaso.it); in tal modo infatti può essere rimosso alla radice il credito dell'advisor, a prescindere dal suo rango.

La Curatela in tali casi può dunque eccepire al creditore instante l'inadempimento alla prestazione dedotta in contratto.

Quello fondato sull'art. 1460 c.c. è infatti un rimedio di notevole efficacia ed elasticità; la dottrina tende ad escludere che l'eccezione possa essere sollevata quando il creditore non può più ricevere la controprestazione (ed è chiaro che la curatela si trova per definizione in tale condizione), perché si tratterebbe di un istituto che ha (solo) la funzione di indurre la controparte all'adempimento, ma la giurisprudenza non è di quest'avviso, ed interpreta la ratio della norma come diretta a preservare l'equilibrio del sinallagma, e dunque la corrispettività fra le prestazioni; di conseguenza il creditore può rifiutare il proprio adempimento persino se la controprestazione sia divenuta impossibile, e dunque l'obbligazione si sia estinta (Cass., 19 ottobre 2007, n. 21973).

Di fronte poi all'allegazione dell'inadempimento, od anche dell'inesatto adempimento, incombe come è noto sul debitore la prova di aver correttamente adempiuto (ex plurimis v. Cass., 15 dicembre 2016, n. 25894).

D'altro canto si considera sufficiente che il debitore si riferisca in qualsiasi modo all'inadempimento correlato, a prescindere da ogni formalismo, e dunque anche se non venga citato espressamente l'art. 1460 c.c.; massima questa di particolare utilità, atteso che normalmente il curatore non si avvale di assistenza legale nella formazione dello stato passivo avanti il Giudice Delegato (mentre appare di difficile comprensione la recente pronunzia di Cass., 9 ottobre 2018, n. 24794, la quale da un lato grava la curatela di oneri allegatori assai impegnativi, necessariamente specifici ed estesi ai singoli fatti oggetto di inadempimento, sembrando a tratti dimenticare il criterio legale sul riparto degli oneri probatori, e dall'altro addirittura ricava dalla genericità delle allegazioni una nullità del provvedimento reiettivo del Giudice Delegato, che non potrebbe, pare, nemmeno essere rimediata per effetto di nuove eccezioni svolte dalla curatela in sede di opposizione allo stato passivo, così apparentemente volendo “scardinare” una giurisprudenza consolidata di segno contrario).

Non occorre nemmeno che l'eccezione sia stata sollevata preventivamente, in via stragiudiziale, potendo la stessa essere svolta per la prima volta in giudizio, di fronte alla pretesa creditoria (ex multis Cass., 24 settembre 2009, n. 20614); regula iuris questa che si armonizza bene anch'essa con la situazione peculiare dell'accertamento del passivo, ove la Curatela subentra al debitore a tutela della Massa, e quindi potrebbe essere gravemente pregiudicata, qualora dovesse subire gli effetti preclusivi legati a contegni, addirittura omissivi, assunti dal debitore in bonis (il quale non di rado non si trova nemmeno nelle condizioni più agevoli per contestare l'operato dell'advisor).

D'altro canto una certa “vischiosità” residua della giurisprudenza civilistica consiglia di eccepire l'inadempimento, di “non scarsa importanza” (art. 1455 c.c.), altresì come motivo fondante per ottenere la risoluzione del contratto intercorso con l'advisor.

Infatti la mera eccezione di inadempimento potrebbe, a detta di talune pronunzie, non essere sufficiente per paralizzare la pretesa creditoria, qualora l'opera posta in essere sia pur gravata da difetti, ma non tali da renderla del tutto “inutile” per il committente; in tali casi il creditore potrebbe essere sì tenuto a risarcire il danno cagionato col proprio inadempimento, ma avrebbe comunque diritto a ricevere il pagamento del corrispettivo (Cass., 24 ottobre 2017, n. 25112).

Nel diritto dei concordati, dunque, non è irrilevante la prospettiva per cui il mero blocco degli interessi, e la retrodatazione degli effetti alla data della pubblicazione della domanda concordataria (art. 169 l.f.), potrebbero essere considerati come elementi di per sé sufficienti al fine di conservare una residua “utilità” alla prestazione.

Per conseguire comunque il rigetto della domanda dunque la Curatela sarà interessata a svolgere altresì l'eccezione di risoluzione per inadempimento; può darsi infatti che l'inesatto adempimento sia sufficiente a farlo considerare di “non scarsa importanza”, ma non a giustificare il rimedio di cui all'art. 1460 c.c.; col beneficio ulteriore, potenziale, in caso di delibazione positiva dell'eccezione, di poter agire in sede ordinaria al fine di ottenere la condanna dell'advisor a restituire gli acconti eventualmente già ricevuti, “alla luce del sole” o meno.

Come è noto, infatti, il giudicato conseguito in sede di accertamento del passivo, a prescindere dal grado in cui esso si forma, ha sì efficacia “endofallimentare”, ma nei rapporti fra Massa e creditore mantiene la sua “autorità” anche nei giudizi civili ove essi siano parti, fintantoché il concorso è aperto (sulla base del principio espresso da Cass., Sez. Un., 14 luglio 2010, n. 16508; e v. più di recente in tal senso Trib. Milano, 16 marzo e 12 giugno 2018, in questo Portale).

Si vede bene come, in un sistema in cui la inidoneità ex ante della prestazione offerta dall'advisor a far conseguire ai titolari degli interessi tutelati, configura normalmente inadempimento contrattuale, con effetti estintivi del diritto di credito, difficilmente vi sia spazio per un diritto del creditore ad ottenere il corrispettivo pattuito, privato del beneficio prededuttivo, e dunque che goda del solo privilegio “professionale” ex art. 2751bis, n. 2, c.c.: qualora infatti la prestazione non si configuri come utile in prospettiva ex ante, essa sarà anche verosimilmente ritenuta difettosa, con effetti parimenti paralizzanti del diritto al compenso.

L'ultimo componente del “trittico” di eccezioni che la Curatela ha solitamente interesse a sollevare in tali situazioni è costituito da quella di compensazione con il controcredito risarcitorio correlato causalmente con gli effetti dell'inadempimento (il nesso causale peraltro, anche per le prestazioni professionali, va inteso nel senso del “più probabile che non”, ed a proposito delle condotte omissive occorre distinguere fra omesso impedimento di eventi dannosi, ed impedito conseguimento di vantaggi, nel qual ultimo caso l'evento materiale non si è realizzato, e l'accertamento ha dunque natura schiettamente “ipotetica”, sicché “non può richiedersi una prova rigorosa e certa”: cfr. Cass., 24 ottobre 2017, n. 25112).

Si tratta a ben vedere di eccezione svolta in via subordinata, poiché primariamente la pretesa dell'instante dovrebbe essere rigettata sulla base dell'accoglimento dell'eccezione di inadempimento o di quella di risoluzione.

Nel caso dell'advisor peraltro tale compensazione ha quasi sempre natura “impropria”, atteso che il credito di cui il professionista chiede l'ammissione si riferisce allo stesso rapporto; sicché non vi è motivo di fare applicazione dell'art. 1243 c.c., poiché credito e controcredito risarcitorio si riferiscono in realtà all'accertamento del dare e dell'avere di un rapporto unitario.

Il Giudice dunque è legittimato ad accertare il controcredito (peraltro anche d'ufficio, operando la compensazione “impropria” come mero aspetto dell'accertamento del credito), anche nella sola misura in cui ciò sia necessario per paralizzare la pretesa insinuata; poiché peraltro quasi sempre il danno cagionato è largamente ed evidentemente superiore al credito di cui si domanda l'ammissione, taluni Tribunali pragmaticamente si limitano a rigettare la pretesa dell'instante, senza alcuna necessità di determinare la differenza fra i due (cfr. Trib. Vicenza, 6 ottobre 2017, Fallimento Magazzini Generali e Derrate).

La qualificazione dell'eccezione in termini di compensazione “propria” invece creerebbe anche rilevanti problematiche di ordine processuale, poiché la Suprema Corte ha recentemente risolto, all'esito di un tormentato percorso ermeneutico, un annoso contrasto giurisprudenziale, statuendo nel senso che la compensazione giudiziale opera solo ove il controcredito sia certo, e soltanto illiquido, mentre in caso contrario, se la contestazione sia svolta nello stesso giudizio, od anche in un giudizio esterno, il Giudice dovrebbe decidere sulla pretesa principale, senza poter nemmeno sospendere il giudizio oppure l'accertamento del credito insinuato (Cass., Sez. Un., 15 novembre 2016, n. 23225).

(segue) La Massa all'attacco: profili di ordine processuale

Non è invece possibile per la Curatela, come è ben noto, svolgere nell'ambito dell'accertamento del passivo una vera e propria domanda riconvenzionale, avente ad oggetto la condanna ad adempiere al maggior credito risarcitorio, né nella fase apud judicem delegatum, né in quella successiva di opposizione.

Tali pretese debbono dunque essere azionate a parte, in sede ordinaria.

La contemporanea pendenza del giudizio di opposizione a stato passivo sulla pretesa principale, e del giudizio civile ove la Curatela chiede il risarcimento del danno, è peraltro idonea a creare non pochi problemi di ordine processuale: i due processi non possono infatti essere riuniti, e perché ciò sarebbe incompatibile con le esigenze di celerità nella definizione dello stato passivo, che hanno determinato la scelta di “cameralizzare” il rito, rendendo al contempo non introducibile, in quella sede, una domanda riconvenzionale della Massa verso l'instante; e comunque perché la S.C. ritiene che i due riti, ordinario e camerale, siano incompatibili, e che ciò impedisca ogni prospettiva di riunione.

Di conseguenza o i due giudizi proseguiranno ciascuno il proprio cammino, con rischio di accertamenti divergenti, oppure il giudizio di opposizione dovrà essere sospeso in attesa della definizione dell'altro: ma questo, come si è già visto, sarà possibile solo se la compensazione ivi dedotta sarà qualificata come “impropria”, perché allora identico sarà l'oggetto dell'accertamento per entrambi i processi, in ordine al medesimo rapporto dedotto, non certo in via incidentale, nel processo di verifica dello stato passivo.

Diversamente, ove cioè la compensazione dovesse ritenersi “propria”, la sistemazione data alla materia dalla già vista Cass., Sez. Un., n. 23225/2016, renderà la riunione impossibile, imponendo l'autonomia dei giudizi.

Anche la scelta del Tribunale competente può dare luogo a problematiche peculiari, quando sono implicate queste fattispecie.

E' noto che il Tribunale delle Imprese è competente, in via “funzionale”, per tutte le azioni di responsabilità che riguardano organi sociali; tale competenza è espressamente estesa anche alle fattispecie “che presentano ragioni di connessione” (art. 3 d. lgs. n. 168/2003) con quelle attribuite per legge alle sezioni specializzate.

Qualora il giudizio di responsabilità ex art. 146 l.f. sia già pendente, presso il Tribunale delle Imprese competente, sarà giocoforza instaurare anche il processo avente ad oggetto la pretesa risarcitoria verso l'advisor nella stessa sede; come si è giù visto infatti è assai probabile che il fatto illecito del professionista e dei componenti degli organi sociali concorrano ai sensi dell'art. 2055 c.c., dando luogo ad un tipico fenomeno di connessione.

Sarà poi possibile la riunione ai sensi del codice di rito.

Qualora tuttavia il giudizio ex art. 146 l.f. non sia pendente, e la Curatela si risolva a procedere prima contro l'advisor per il ristoro dei danni subiti, l'individuazione del Tribunale competente non sembra comunque del tutto agevole: la sede giudiziaria che sarebbe competente secondo i normali canoni contrattuali (art. 20 c.p.c.) oppure con riferimento al domicilio del convenuto, potrebbe infatti dover cedere ugualmente il passo di fronte ancora al Tribunale delle Imprese: è diffusa infatti l'opinione per cui la “connessione” di cui all'art. 3 d. lgs. n. 168/2003 sarebbe più ampia di quella tradizionale, così da estendersi anche a quelle fattispecie che presentino ragioni di connessione solo sotto il profilo sostanziale, benché non vi siano ancora esigenze di trattazione unitaria con processi già pendenti (cfr. in argomento Ghidini, Il Tribunale delle Imprese fra “ragioni di connessione”, in www.dirittodegliaffari.it, 2016).

La soluzione della questione non è affatto semplice, perché se da un lato una nozione “estensiva” della sfera di competenza delle sezioni specializzate può evitare contrasti di giudicato e favorire uniformità di giudizio, dall'altro una eccessiva espansione può limitare la efficienza delle medesime sezioni, nonché diminuire il loro tasso di “specializzazione”.

Dunque è forse raccomandabile che sia valutata preventivamente la opportunità di instaurare entrambi i processi cumulativamente, anche perché parte degli accertamenti, di natura tecnica, coinciderà, e dunque vi sarebbe comunque modo di realizzare economie di scala anche in ordine alle spese di consulenza tecnica, oltre che di patrocinio legale.

Non può essere sottaciuto tuttavia che sinora tali giudizi sono stati piuttosto rari.

Una ragione pratica risiede nel fatto che molto spesso l'instaurazione del contraddittorio in sede di verifica del passivo consente di avviare un percorso transattivo che frequentemente sfocia in un accordo: in tal modo la Massa limita al minimo le spese per assistenza legale e tecnica, e si previene l'instaurazione del giudizio ordinario per il ristoro del danno.

L'accordo poi può essere sanzionato direttamente dal Giudice Delegato, con ammissione parziale del credito su proposta condivisa (soluzione che richiede una tempistica di soluzione assai “accelerata”, ma ha il vantaggio di economizzare i costi, anche di natura fiscale, atteso che l'ammissione non comporta in questo caso nessun onere di registro), oppure in sede di opposizione ex art. 99 l.f., sempre con provvedimento giurisdizionale che modifica lo stato passivo, ammettendo parzialmente il credito, su conclusioni precisate congiuntamente dalle parti (ma in tal caso con aggravio dell'1% sull'importo accertato, per imposta di registro).

Ma la “cautela” nello instaurare tali giudizi discendeva anche da due diverse ragioni, di ordine processuale, che rendevano “problematica” la fattispecie.

Il primo aspetto concerneva la carenza di legittimazione in capo alla Curatela ad agire a tutela del danno subito dalla creditoria, per l'assenza di una azione “di massa” tipizzata; e ciò a differenza delle normali azioni di responsabilità, ove operavano ed operano invece gli artt. 2394bis – 146 l.f.

L'acquisizione in ordine alla tassatività delle azioni c.d. di massa è infatti ancora dominante nella letteratura, e quasi incontrastata nella giurisprudenza; e la proposta di estendere la legittimazione processuale della curatela in ordine a tutte le azioni di responsabilità verso terzi è stata espressamente accantonata in sede di riforma delle procedure concorsuali.

Il problema presenta evidenti collegamenti con quello limitrofo della legittimazione ad azionare la pretesa risarcitoria verso la banca, per “abusiva concessione di credito” (come è noto infatti la curatela non potrebbe, secondo un orientamento sino a poco tempo fa dominante, avanzare pretese in rappresentanza della Massa, difettando una norma legittimativa specifica: Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, nn. 7029-7030-7031; successivamente Cass., 9 luglio 2008, n. 18832, e soprattutto Cass., Sez. Un., 18 maggio 2009, n. 11396, quest'ultima anche per una ricostruzione analitica del concetto di “azione di massa”, con conferma e specifico richiamo del precedente del 2006, sia pur a proposito dell'azionabilità delle garanzie prestate da terzi nel concordato preventivo; v. anche, più di recente, Cass., 3 giugno 2010, n. 13465 (a proposito di azione di responsabilità dei creditori sociali nei consorzi); nella giurisprudenza di merito cfr. App. Bari, 17 giugno e 2 luglio 2002, in Fall., 2002, 1159; Trib. Monza, 31 luglio 2007; l'azione era stata respinta anche dalla giurisprudenza delle Corti di Appello di Bologna (sent. 17 marzo 2015, caso Parmalat) e di Milano (sent. 20 marzo 2015); cfr. anche Trib. Lucca, 10 marzo 2017; in termini più favorevoli tuttavia Trib. Milano, 22 maggio 2017, caso “Neon”, e 26 febbraio 2016, caso “Ventaglio”, entrambe in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Prato, 15 febbraio 2017).

L'altro problema, collegato al precedete, atteneva al profilo del danno concretamente liquidabile e risarcibile, atteso che, pareva ai più, diversi erano i connotati del pregiudizio riportato rispettivamente dalla Massa creditoria e dal patrimonio della stessa società decotta (sul punto mi si conceda il rinvio, per meri motivi di concentrazione espositiva, al mio recente lavoro Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti, § 7, in www.ilFallimentarista.it, 2018).

La Curatela, si sarebbe detto, dispone di legittimazione solo al fine di esercitare in giudizio la pretesa del fallito, inerente alla lesione subita dal suo patrimonio, come sostituto del medesimo, ma non anche relativamente al credito risarcitorio della Massa.

Due innovazioni giurisprudenziali recentemente acquisite, tuttavia, entrambe nel corso del 2017, hanno mutato probabilmente i termini della questione, almeno dal punto di vista pratico- operativo.

La S.C. aveva già enfatizzato il profilo del concorso della banca nel fatto illecito degli amministratori (v. per l'affermazione della possibilità astratta del concorso della banca ex art. 2055 c.c. nel fatto dell'amministratore della società, riconoscibilmente pregiudizievole per quest'ultima, Cass., 31 marzo 2010, n. 7956, ove la S.C. ha ritenuto sanzionabile la condotta della banca che non sollevi obiezioni a fronte del comportamento dell'amministratore che versi un assegno sul c/c intrattenuto con la società, e poi prelevi la provvista per versarla su c/c “proprio”, ad estinzione della propria esposizione personale verso l'istituto (ma l'azione era stata intentata nell'interesse della stessa società, non dei creditori); v. anche Cass., 1 giugno 2010, n. 13413, la quale ha giudicato possibile un'azione di responsabilità esercitata da una Curatela fallimentare, a tutela del patrimonio della società fallita, esercitata nei confronti di una banca, sulla base del concorso dannoso del funzionario di quest'ultima e dell'amministratore della società decotta, sanzionato dalla condanna penale per bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito).

Più di recente tuttavia la S.C. ha affermato risolutamente la legittimazione della curatela, fondandosi ancora sull'idea del concorso della banca nel fatto illecito degli amministratori ai sensi dell'art. 2394 c.c.: v. Cass., 20 aprile 2017, n. 9983 (la quale fra l'altro per liquidare il dannoafferma altrettanto decisamente che “il giudice può ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all'incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali); di poco successiva alla pronunzia n. 9983 è la sentenza del Tribunale delle Imprese di Bologna, del 13 luglio 2017, caso “Carim” (in www.ilcaso.it), la quale peraltro rigetta nel merito la domanda, richiedendo un concorso qualificato della banca in uno specifico fatto illecito degli amministratori, non ritenendo così sufficiente la prosecuzione dell'attività in termini non “conservativi” (e così di fatto, mi pare, trasformando la condotta della banca in un illecito a struttura necessariamente dolosa); in argomento la S.C. si è poi pronunziata ancora con la sent. 2 maggio 2017, n. 11798 (caso “Seleco”), la cui motivazione non appare in contrasto con la decisione di aprile dello stesso anno (il ricorso è rigettato per motivi processuali); infine v. Cass., 14 maggio 2018, n. 11695, in una fattispecie ove l'attore non era la curatela del fallimento, ma un terzo.

In realtà l'argomentazione impiegata non sembra proprio cristallina: la circostanza per cui un medesimo fatto illecito, posto in essere da due soggetti “in concorso” fra di loro, possa pregiudicare due sfere giuridiche, risultando così pluri- offensiva, non implica anche, mi pare, in un sistema imperniato sul principio di cui all'art. 81 c.p.c., che la sfera della legittimazione possa divenire “promiscua”, sicché chi è legittimato a far valere (peraltro in via esclusiva) entrambe le lesioni verso un corresponsabile, lo divenga sempre per entrambi i danni anche verso l'altro concorrente.

L'art. 2055 c.c., infatti, opera in modo differente rispetto all'art. 110 c.p.: l'effetto della corresponsabilità nella causazione del danno non è l'omogeneizzazione anche dei titoli di responsabilità, ma solo l'instaurazione del vincolo solidaristico; ma gli amministratori continueranno a rispondere ai sensi degli artt. 2392 ss. l.f., con applicazione dunque dell'art. 146 l.f.; laddove la banca (e così l'advisor) risponderà verso la società decotta ai sensi dell'art. 1218 c.c., e verso i creditori per titolo contrattuale (da “contatto” sociale) od extracontrattuale; ma senza possibilità per la Curatela di azionare in giudizio quest'ultimo titolo risarcitorio, che resta nella sfera di disponibilità dei singoli creditori.

E' vero tuttavia che la giurisprudenza industrialistica è solita predicare l'estensione delle norme sulla concorrenza sleale ai terzi non imprenditori che concorrano ex art. 2055 c.c. con il concorrente avvantaggiato; terzi che vengono così sottoposti all'art. 2598 c.c. (cfr. ad es. Cass., 6 giugno 2012, n. 9117). L'assunto tuttavia (che peraltro conosce dei raffinati distinguo, a seconda che il terzo agisca “per conto” o comunque “in collegamento con il” concorrente, oppure soltanto “a vantaggio” di quest'ultimo) ha sempre incontrato una decisa resistenza da parte della dottrina, sulla base di argomentazioni simili a quelle che abbiamo addotto sopra.

Ciononostante, sempre nel 2017 la S.C. è sembrata volere altresì superare la distinzione fra danno al patrimonio e danno alla Massa creditoria, risolvendo il contrasto giurisprudenziale insorto a proposito del danno “da pagamento preferenziale” (sul quale vedasi amplius il mio Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti, § 4, cit.).

E così Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2017, n. 1641 (vedila in Fall., 2017, 660, con nota di Balestra; in Società, 2017, p. 595, con nota di Fauceglia; in Corr. giur., 2018, p. 667, con nota di Fanciaresi; cfr anche N. De Luca, Pagamenti preferenziali e azioni di responsabilità. Spunti di riflessione, in Fallimento, 2018, 945 ss.), ha statuito, con affermazioni forse fin troppo “lapidarie” nella motivazione, che: “in definitiva il disconoscimento della legittimazione attiva del curatore fallimentare da parte dei giudici del merito si fonda sull'assunto che il pagamento preferenziale possa arrecare un danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, perché si tratta di operazione neutra per il patrimonio sociale, che vede diminuire l'attivo in misura esattamente pari alla diminuzione del passivo conseguente all'estinzione del debito. Si tratta tuttavia di assunto palesemente erroneo, perché il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori. Infatti la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare. Tanto che, secondo la giurisprudenza di questa corte, in tema di revocatoria fallimentare, la legge in nessun caso richiede l'accertamento di un'effettiva incidenza dell'atto che ne è oggetto sulla par condicio creditorum, sicché è evidente che la funzione dell'azione revocatoria fallimentare è esclusivamente quella di ricondurre al concorso chi se ne sia sottratto… del resto, anche dal punto di vista strettamente contabile, il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata appunto dall'inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori … essendo evidentemente il depauperamento del patrimonio sociale conseguenza necessaria del riconosciuto aggravamento del dissesto, la sentenza d'appello è palesemente contraddittoria. Infatti l'aggravamento del dissesto, per cui i C. hanno ammesso la propria responsabilità, non può esservi senza il depauperamento del patrimonio sociale”.

La problematica, pur se forse ormai “risolta” sul piano applicativo specifico dalla pronunzia delle Sezioni Unite, mette in realtà in evidenza uno dei limiti della concezione “tradizionale” del patrimonio sociale.

Non v'è dubbio infatti che da un punto di vista contabile il patrimonio sociale non diminuisca, né per effetto del pagamento, né della “trasformazione” di un debito chirografario in uno privilegiato: ciò che muta è soltanto una “qualità” dello stesso, soprattutto nel secondo caso, in cui addirittura i saldi dell'attivo e del passivo restano numericamente invariati. L'accoglimento nella teoria del danno civile della c.d. teoria della differenza (cfr. per tutti Tolone Azzariti, Danno emergente e lucro cessante, in Il danno contrattuale, a cura di M. Costanza, Bologna, 2014, 101 ss.; Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario c.c. a cura di Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1993, 826 ss.) non sembrerebbe dunque lasciare scampo alle ragioni delle curatele.

E non v'è parimenti dubbio, come si è già detto, che il Curatore non sia istituzionalmente legittimato ad intraprendere azioni nell'interesse di singoli creditori, od anche di gruppi omogenei di essi, al di fuori dei casi regolati. Uno di questi casi è rappresentato dall'art. 2394 c.c., in forza del rinvio contenuto negli artt. 2394bis- 146 l.f. (strumento giuridico non a caso percepito come “necessario” anche in tema di s.r.l.); ma nel caso dell'atto “preferenziale”, come si è visto, non è l'intera Massa creditoria a rivendicare un danno, bensì tutt'al più una partizione della stessa.

Il sistema vigente dunque non sembrerebbe poter tutelare queste posizioni, almeno non attraverso l'operato del curatore del fallimento.

Resterebbero invece azionabili le relative pretese da parte dei singoli creditori, posto che in realtà la lesione si materializza proprio nei loro rispettivi patrimoni, come avviene nei casi più classici di lesione del credito, secondo criteri di “regolarità causale”.

Eppure, tale conclusione non è sembrata evidentemente del tutto tranquillizzante, né tantomeno appagante. Il che non vuol dire però che la soluzione data al problema dalle Sezioni Unite, che pare invero abbastanza semplicistica, sia sempre valida.

Le uniche fattispecie di danno “certe” pertanto saranno quelle tipiche del “danno emergente”, costituite nelle ipotesi tipiche dell'advisor dalle spese erogate a causa della pendenza della procedura: compensi del Commissario giudiziale e dei periti, eventuali compensi professionali non suscettibili di essere elisi o ridotti a causa della non imputabilità ai relativi professionisti degli inadempimenti addebitabili ad altri soggetti, perdite di gestione maturate durante il tentativo regolatorio sintantoché il patrimonio sia addivenuto al livello “zero”, etc.

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