L'eccezione di inadempimento del dipendente e gli obblighi di salute e sicurezza del datore di lavoro

10 Giugno 2019

L'accertamento di un arretramento di tutela non integra di per sé un inadempimento ai sensi dell'art. 2087, c.c., per il quale non può prescindersi dall'individuazione delle misure innominate e delle regole di condotta in concreto non adottate per tutelare l'integrità fisica, la personalità del prestatore, né dalla dimostrazione della nocività dell'ambiente di lavoro sotto il profilo dell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza...
Abstract

L'accertamento di un arretramento di tutela non integra di per sé un inadempimento ai sensi dell'art. 2087, c.c., per il quale non può prescindersi dall'individuazione delle misure innominate e delle regole di condotta in concreto non adottate per tutelare l'integrità fisica, la personalità del prestatore, né dalla dimostrazione della nocività dell'ambiente di lavoro sotto il profilo dell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza. Ove poi sia accertato l'inadempimento datoriale con riferimento all'inosservanza delle misure di sicurezza, una giustificazione del comportamento inadempiente del lavoratore deve necessariamente passare attraverso una comparazione tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo rifiuto della prestazione da parte del dipendente.

Il caso

Tizio impugnava con ricorso ex l. n. 92 del 2012 (cosiddetto procedimento Fornero), i due licenziamenti irrogati dalla Società per motivi disciplinari (dapprima per giustificato motivo soggettivo ed il secondo per giusta causa), a fronte del rifiuto da parte dello stesso Tizio di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo dipendente abilitato alla condotta.

Il Tribunale annullava i licenziamenti ritenendo che il rifiuto della prestazione fosse giustificato dall'inadempimento da parte della società rispetto alle obbligazioni di sicurezza (art. 2087, c.c.). Veniva quindi accolta la prospettazione del ricorrente secondo cui il rifiuto di rendere la prestazione configurava, nel caso di specie, una legittima eccezione di inadempimento (art. 1460, c.c.).

Tale decisione era confermata in sede di opposizione. La società appellava la suddetta decisione, ma l'appello veniva rigettato dalla Corte d'appello di Genova.

Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per Cassazione.

La questione

La questione in esame è la seguente: quando il dipendente può rifiutarsi di rendere la propria prestazione eccependo, ex art. 1460, c.c., l'inadempimento datoriale nei confronti degli obblighi di salute e sicurezza, ex art. 2087, c.c.?

Le soluzioni giuridiche

Occorre premettere che, ai sensi dell'art. 1460, c.c., ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. Tuttavia, lo stesso articolo precisa che il contraente non può rifiutarsi di adempiere alla propria obbligazione, se – avuto riguardo alle circostanze – il rifiuto è contrario alla buona fede.

Nell'ambito del rapporto di lavoro, che rientra nel novero dei rapporti a prestazioni corrispettive, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell'art. 2087, c.c., ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni nonché ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il dipendente, pertanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di determinati presupposti può eccepire l'inadempimento del suddetto obbligo datoriale e rifiutare la prestazione pericolosa (cfr. Cass., sez. lav., 19 gennaio 2016, n.836; Cass., sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10553).

La sentenza in commento, si sofferma in primo luogo sulla natura dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. Da un lato, è ribadito il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, volta a sanzionare l'omessa predisposizione non solo delle norme d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma anche – in virtù dei principi costituzionali che tutelano il lavoratore – di quelle misure e cautele idonee a tutelare l'integrità psicofisica dei dipendenti (Cass., sez. lav., 14 gennaio 2005, n.644; Cass., sez lav. 3 agosto 2012, n. 13956).

D'altro lato, la Suprema Corte precisa come tale norma non configuri un'ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr. Cass., sez. lav., 8 ottobre 2018, n. 24742), laddove la colpa, ossia il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica dei dipendenti, ne rappresenti un elemento fondante.

Si aggiunga che, sul piano della ripartizione dell'onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza. Tale onere si configura in modo differente a seconda se si considerino le misure nominate, cioè quelle definite da specifici provvedimenti normativi o le misure “innominate”, ossia tutte le prescrizioni ricavabili genericamente dallo stesso art. 2087, c.c.

Tale distinzione è stata tuttavia ignorata dalla Corte di appello, che ha erroneamente considerato adempiuto l'onere della prova da parte del dipendente, non avendo invece tenuto conto dell'adempimento da parte della società di tutte le misure implementate al fine di garantire la sicurezza dei propri dipendenti, sulla base anche degli ultimi regolamenti interni approvati in merito dall'apposita Commissione.

La Suprema Corte, pertanto, ha accolto la censura della società, rilevando in primo luogo che fosse incontestato che la società avesse posto in essere tutte le misure di sicurezza “nominate”, ossia, nel caso di specie, tutte le previsioni richieste dalla legge nell'ipotesi in cui si stato adottato il modello di condotta ad equipaggio misto, costituito da un solo agente abilitato alla condotta del treno e da un tecnico polifunzionale non presente in cabina.

Inoltre, la Suprema Corte precisa che non è stato dimostrato dal dipendente l'inadempimento della società delle misure genericamente derivanti dall'obbligo di cui all'art. 2087, c.c. (misure “innominate”), ossia la “nocività dell'ambiente di lavoro sotto il profilo dell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza”. La sentenza in commento infatti precisa che da tale norma non deriva l'obbligo di rispettare ogni cautela diretta ad evitare qualsiasi danno astrattamente verificabile (cfr. negli stessi termini, Cass., sez. lav., 17 aprile 2012, n. 6002).

Inoltre, anche laddove fosse stato accertato l'inadempimento datoriale con riferimento all'inosservanza delle misure di sicurezza, al fine di verificare la legittimità dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460, c.c., la Corte di appello avrebbe dovuto effettuare una valutazione comparativa tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo rifiuto della prestazione da rendersi in un contesto di pericolosità ambientale (cfr. negli stessi termini, Cass., sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10553).

Non avendo effettuato tale comparazione, la Corte d'Appello ha omesso di valutare in concreto se il rifiuto del dipendente di adempiere alla propria prestazione sia stato conforme a buona fede e proporzionato al comportamento del datore di lavoro.

Osservazioni

La sentenza in commento affronta a latere il delicato tema della salute e sicurezza dei dipendenti nel luogo di lavoro. Se da una parte la giurisprudenza ha costantemente ritenuto legittimo il rifiuto del dipendente di rendere una prestazione lavorativa che si configuri come pericolosa in caso di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di cui all'art. 2087, c.c., dall'altro è stato anche precisato che il dipendente può invocare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460, c.c., solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass., sez. lav., 20 luglio 2012, n.12696).

Occorre tener presente che, sebbene la sicurezza dei dipendenti sia preminente – ed infatti tutelata e garantita proprio dall'art. 2087, c.c. – non può ritenersi automatica la responsabilità del datore di lavoro tutte le volte che un danno possa astrattamente verificarsi, in quanto è comunque necessario che il pericolo sia riferibile ad una colpa del datore di lavoro per violazione delle suddette norme di sicurezza.

Invero, nella sentenza in commento, la Suprema Corte ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali in materia, cassando la sentenza della Corte di appello, la quale aveva ritenuto che le misure di sicurezza poste in essere dalla Società non fossero idonee a salvaguardare l'incolumità del dipendente. Pertanto la Suprema Corte non ritenendo esistente nel caso arretratezza di tutela di sicurezza e di salute rispetto a quella prevista dalla società nella costituzione dell'equipaggio misto che prevede la conduzione del treno da parte di un singolo soggetto, ha giustamente giudicato pretestuoso il rifiuto della prestazione e quindi legittimo il conseguente licenziamento.

La sentenza della Corte di appello rischiava, infatti, di inibire del tutto il modello di equipaggio misto, laddove, invece, specifiche normative - richiamate anche dalla sentenza in commento - stabiliscono le ipotesi in cui tale modello possa essere adottato, mediante l'attuazione di determinate cautele, le quali, nel caso di specie, erano state integralmente implementate.

La Suprema Corte è quindi intervenuta cassando la sentenza della Corte d'appello, la quale, rischiava di creare una norma “nominata”, senza per altro specificarne contenuti e limiti, sostituendosi di fatto al Legislatore, il quale invece ha delineato tutti i presupposti che, ove rispettati, rendono il modello ad equipaggio misto idoneo a tutelare la sicurezza dei lavoratori e dei passeggeri.

Infine - posto che il dipendente è contrattualmente tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dal datore di lavoro - non deve mai considerarsi automaticamente legittima l'eccezione di inadempimento exart. 1460, c.c., poiché il rifiuto del dipendente non solo deve essere determinato da un inadempimento grave del datore di lavoro, ma anche valutato nell'ottica dei doveri di correttezza, buona fede e diligenza che contraddistinguono ogni rapporto di lavoro. È sempre necessaria dunque la valutazione comparativa tra l'asserito inadempimento del datore di lavoro ed il rifiuto del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

In assenza di tale concreta valutazione, si rischia di rendere legittima la decisione arbitraria del dipendente di non adempiere alla prestazione, ogni volta che lo stesso ritiene sussistente un pericolo di qualsivoglia natura.