Condanna per lite temeraria: disciplina incostituzionale?

11 Giugno 2019

La somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa per lite temeraria ha sufficiente base legale: la prescrizione della riserva relativa di legge prevista dalla Costituzione è, quindi, rispettata.

Lite temeraria: il giudice ha troppa discrezionalità? La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c. nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l'entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna.

Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare né un massimo né un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall'art. 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all'art. 25, comma 2, Cost.

La riserva di legge in materia penale non vale per la condanna per lite temeraria. La questione sollevata dal giudice a quo con riferimento al principio di legalità di cui all'art. 25, comma 2, Cost., recante la più stringente prescrizione della riserva di legge, che è assoluta, è inammissibile. Tale parametro, infatti, è stato evocato impropriamente dal momento che riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative “di natura sostanzialmente punitiva” (cfr. Corte cost., n. 223/2018) e non già prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l'art. 23 Cost.

L'obbligazione di corrispondere la somma prevista dall'art. 96 c.p.c., pur perseguendo una finalità punitiva, costituendo un “peculiare strumento sanzionatorio” con una “concorrente finalità indennitaria” (così Corte cost., n. 152/2016), non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio.

Si tratta, invece, di un'attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente; prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell'ambito dell'altro parametro evocato dal rimettente, l'art. 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che è solo relativa (Corte cost., n. 269/2017, n. 69/2017 e n. 83/2015).

La Consulta ricostruisce il contesto normativo. L'art. 91 c.p.c. prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquidi l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l'art. 96, comma 1, c.p.c. – il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.

Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su questo doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria.

Con la legge n. 69/2009, è stato introdotto il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. che – come già ricordato – prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». La funzione di questa somma è quella di sanzionare l'abuso del processo ad opera della parte soccombente mediante la condanna di quest'ultima, anche d'ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria.

Danno da lite temeraria: come opera l'equità? L'equità, alla quale fa riferimento la disposizione censurata, non è assimilabile al parametro di valutazione, previsto in generale dall'art. 1226 c.c., come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima disposizione, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con “valutazione equitativa”. Si tratta di un criterio di misurazione di qualcosa (il danno contrattuale o aquiliano) che esiste nell'an, ma che il danneggiato non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo il canone legale degli artt. 1223 e 2056 c.c. Può supplire allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale grandezza predata, quale oggetto di un'obbligazione civile che trova la sua fonte nella generale disciplina della responsabilità contrattuale o extracontrattuale: la valutazione equitativa. Ciò che peraltro può occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno da lite temeraria, ai sensi dell'art. 96, comma 1, c.p.c.

Il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., invece, prevede che è il giudice a determinare l'an e il quantum della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al risarcimento (integrale) del danno da lite temeraria. La valutazione equitativa del giudice, quindi, non si limita a quantificare una grandezza predata, ma dà vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una prestazione patrimoniale ulteriore e distinta.

Valutazione equitativa del giudice e riserva di legge. Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall'art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (cfr. Corte cost., n. 83/2015 e n. 115/2011).

Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, anche recente, il terzo comma dell'art. 96 c.p.c., rinviando all'equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e, quindi, la somma prevista da tale disposizione va rapportata alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa (Cass. civ., n. 25177/2018 e n. 25176/2018).

Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è, peraltro, coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell'art. 385 c.p.c. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari), sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell'art. 26 cod. proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali).

Pertanto, si può concludere che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost.

*Fonte:

www.dirittoegiustizia.it

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