Ancora sulle variazioni retributive: un'indagine concreta

20 Giugno 2019

Il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più sussistente, perché caducata da altra successiva, a meno che la clausola di fonte collettiva venga recepita nel contratto individuale, espressamente o anche per comportamento concludente...
Massima

Il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più sussistente, perché caducata da altra successiva, a meno che la clausola di fonte collettiva venga recepita nel contratto individuale, espressamente o anche per comportamento concludente.

Non può affatto escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva – pur dotato di ogni crisma di rappresentatività – possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”, tuttavia “non basta un qualsiasi sbilanciamento del sinallagma contrattuale isolatamente considerato a vincere la presunzione già vista di conformità all'art. 36, Cost., delle previsioni collettive in materia di retribuzione.

Il caso

Con ricorso proposto in appello, un lavoratore impiegato in un'azienda multiservizi censurava la decisione del Tribunale per avere quest'ultimo escluso che la condotta datoriale avesse violato, in primo luogo, gli artt. 2099 e 2103, c.c., in conseguenza dell'illegittimo aumento, unilateralmente disposto, dell'orario lavorativo settimanale da 36 a 38 ore, non seguito da alcun aumento della voce retributiva oraria né di tutti gli istituti retributivi diretti ed indiretti, (innovazione che, invero, era stata disposta dal datore di lavoro in applicazione della lett. b) dell'ipotesi di accordo del 10 luglio 2016 di rinnovo del CCNL dei servizi ambientali, scaduto il 13 dicembre 2013); dall'altro, sollevava la violazione dell'art. 1243, c.c. avendo il Tribunale riconosciuto la legittimità dell'accordo collettivo per avere quest'ultimo atecnicamente “compensato” la suddetta variazione oraria attraverso il riconoscimento di un monte orario di permessi retribuiti, pari a 30 ore, elevato a 34 a partire dal gennaio 2018 (sulla scorta della lett. b) dell'accordo di categoria) ed, inoltre, di un aumento a regime di 120 euro lordi al mese, da imputarsi a diverse componenti retributive, in applicazione del dettato di cui alla lett. h) del medesimo accordo de quo.

Le questioni

Con le prime due doglianze, il ricorrente ha sollevato la violazione del principio di irriducibilità della retribuzione, avendo il Giudice di primo grado, in primo luogo, escluso l'obbligo in capo al datore di lavoro di retribuire, secondo il modus concordato, le due ore settimanali in più richieste al prestatore di lavoro giusta il nuovo CCNL applicabile – contro quanto disposto dagli art. 2077 e 2099, c.c. - ed, in secondo luogo, per non aver ritenuto che l'aumento dell'orario lavorativo, non seguito da un immediato e proporzionale aumento della retribuzione, avesse comportato la violazione dell'art. 2103, c.c.

Si pone, dunque, la prima questione giuridica: la modificazione in peius del trattamento retributivo del lavoratore apportata dall'entrata in vigore di una clausola prevista all'interno di un nuovo accordo collettivo può estrinsecarsi nella violazione di un cd. diritto quesito?

Sulla scorta, inoltre, del terzo ordine di motivi sollevato dal ricorrente occorre domandarsi: l'aumento dell'orario di lavoro non seguito da alcun aumento diretto della retribuzione costituisce un comportamento datoriale suscettibile di ledere, di per sé, il principio di proporzionalità della retribuzione costituzionalmente protetto ex art. 36, Cost., oppure occorre valutare caso per caso l'equilibrio dell'intero assetto negoziale?

Le soluzioni giuridiche

Come si vedrà infra, la Corte d'appello, abbracciando appieno la giurisprudenza maggioritaria sul punto, ha ritenuto che nel caso di specie non si potesse parlare di un diritto quesito del lavoratore al riconoscimento della retribuzione oraria sino ad allora percepita né che potessero ritenersi violati i principi di irriducibilità e proporzionalità della retribuzione, atteso che la variazione retributiva determinata dalla – legittima - modificazione in peius dell'orario di lavoro era stata peraltro pienamente riequilibrata dagli ulteriori riconoscimenti retributivi riconosciuti dalla lettera dell'accordo di rinnovo.

Osservazioni

Dalla sentenza in commento si evince che la risposta ai quesiti posti deve essere data attraverso un'indagine concreta, da operarsi sull'intero impianto contrattuale, perché volta al raffronto dell'intero equilibrio negoziale; un equilibrio dato dal complesso delle clausole nella specie applicabili, siano esse di origine pattizia privata o figlie dell'autonomia collettiva.

Invero, nella controversia in esame è stato pacificamente riconosciuto che l'aumento dell'orario di lavoro, richiesto al lavoratore in applicazione della lett. b) dell'ipotesi di accordo in questione, senza il corrispondente aumento della retribuzione, avesse di fatto comportato la diminuzione della voce “retribuzione oraria”, e quindi un potenziale nocumento economico alla posizione giuridica del lavoratore, ma è stato ritenuto altrettanto vero che, trattandosi di una modificazione retributiva, seppure in peius, apportata da una fonte eteronoma di regolamentazione, non poteva ritenersi sussistente alcun diritto quesito in capo al lavoratore.

Difatti, poiché il trattamento retributivo del ricorrente era stato determinato attraverso il richiamo al CCNL di categoria inserito nella lettera di assunzione, la relativa previsione operava come fonte di regolamentazione promanante dall'esterno del rapporto e, dunque, il lavoratore non poteva pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più in vigore e poi sostituita da altra successiva.

Al contrario, la variazione retributiva peggiorativa subita dal ricorrente rappresentava il mero portato della nuova disciplina collettiva, incidente sulle prestazioni future, ed introdotta dal datore di lavoro unicamente in attuazione dell'ipotesi di accordo oggetto di censura, e quindi resa validamente applicabile al rapporto de quo in virtù del rinvio mobile specificamente contenuto nel contratto individuale di lavoro.

La violazione del diritto quesito del lavoratore alla retribuzione sarebbe, diversamente, potuta configurarsi solo ove la relativa clausola di fonte collettiva fosse stata inequivocamente recepita nel contratto individuale di lavoro, sia pure per facta concludentia, fatto che nella fattispecie non era accaduto.

La Corte d'appello ha, inoltre, sottolineato come il datore non avesse nemmeno violato il disposto di cui all'art. 2103, c.c., la quale, peraltro, è una norma che, vietando il ricorso a modifiche unilaterali della retribuzione in peius solamente nell'ipotesi di legittima variazione delle mansioni disposta unilateralmente dalla parte datoriale, regola una diversa fattispecie.

Non solo: anche il secondo quesito posto dal ricorrente è stato risolto negativamente, avendo la Corte ritenuto che nel caso in esame l'aumento dell'orario di lavoro, seppur oggettivamente avesse comportato una modificazione in peius della retribuzione oraria, non era stato idoneo ad incidere negativamente sulla posizione economica del lavoratore, che ben poteva dirsi certamente riequilibrata dalle ulteriori previsioni, ut supra richiamate, introdotte dalla lett. b) e dalla lett. h) dell'accordo censurato le quali, lungi dal rappresentare un'illegittima ipotesi di compensazione ex art. 1243, c.c., tra dati non omogenei, erano idonee a far ritenere pienamente rispettato quel “minimo costituzionale” di retribuzione costituzionalmente protetto ex art. 36, Cost.

Appare opportuno ricordare in tale sede che la commentata sentenza è tornata ad affrontare una problematica già diffusamente discussa sia in dottrina sia in giurisprudenza. Più entrambe si sono, infatti, interrogate sulla possibilità, per un atto dell'autonomia collettiva, di modificare o porre nel nulla i cd. diritti acquisiti del lavoratore; problematica che, nel caso affrontato, viene in luce con particolare riguardo al tema della retribuzione.

Sul punto, merita di essere citata Cass., 12 dicembre 2017, n. 29750, la quale ha recentemente chiarito che “la salvezza dei diritti quesiti riguarda solo le posizioni già acquisite al patrimonio del prestatore sotto il profilo economico e non riducibili a mere aspettative sotto il profilo giuridico” di talché, se “le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale” allora “le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, intendendosi per tali solo le situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come i corrispettivi per prestazioni già rese, e non anche quelle situazioni future o in via di consolidamento” (Cass., sez. lav., n. 3928 del 2014).

Ne deriva che ad essere intangibili non sono i diritti scaturenti da una data disciplina in vigore quanto, piuttosto, i diritti maturati da un lavoratore per effetto di una prestazione lavorativa già compiutamente posta in essere (Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro, 1, Diritto sindacale, Utet, 2016, 274).

Sulla scorta di tali principi, va ritenuto che il diritto a percepire una data retribuzione non può ritenersi per ciò solo un diritto quesito, a meno che un tale diritto non venga specificamente regolato all'interno del contratto di lavoro, mediante l'inequivocabile recepimento del contratto collettivo all'interno dell'accordo privato (come si è detto, anche per fatti concludenti). Di per sé, tuttavia, l'adeguamento del datore di lavoro al contratto collettivo non è idoneo a valere quale fatto concludente.

Ciò anche per il fatto che il principio del trattamento più favorevole sancito dall'art. 2077, c.c., riguarda solamente il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (Cass., sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13960).

Pertanto, occorre conclusivamente considerare che il limite posto dai diritti quesiti è un limite relativo. La sentenza in commento, richiamando le motivazioni già condivise e spiegate dalla giurisprudenza maggioritaria, permette di chiarire ancora una volta che non sussiste tale limite di protezione quando il lavoratore è titolare di una mera aspettativa; quest'ultima, dunque, al contrario del diritto quesito, può senza dubbio essere superata, anche in senso peggiorativo, dalle parti sociali della contrattazione collettiva sulla base del generale principio dell'autonomia negoziale dettato dall'art. 1322, c.c.

V. su questo portale anche la decisione di primo grado, Tribunale Torino, 14 aprile 2018, n. 297.

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