Deontologia dell'avvocato

24 Giugno 2019

Con il termine deontologia («discorso intorno alle regole») si indica per convenzione il complesso delle norme di condotta applicate all'attività professionale, che per quanto riguarda l'attività legale, sono riferibili non soltanto al diritto, ma anche all'etica e alla prassi forense.
Inquadramento

Con il termine deontologia («discorso intorno alle regole») si indica per convenzione il complesso delle norme di condotta applicate all'attività professionale, che per quanto riguarda l'attività legale, sono riferibili non soltanto al diritto, ma anche all'etica e alla prassi forense.

In passato la deontologia è stata a lungo considerata espressione di precetti morali e la discussione, lungamente dibattuta, intorno alla natura morale o giuridica delle norme deontologiche si può ritener affondi le proprie radici nella tradizione giuridica occidentale di età medievale, in cui, da un alto, sapere teologico-morale e giuridico-disciplinare presentavano una evidente unità di fondo e, dall'altro lato, il diritto e l'etica si risolvevano in distinti aspetti di una medesima concezione antropologica.

È solo in età moderna che si concreta quella frattura tra culpa theologica e culpa iuridica destinata a trovare espressione nei tractatus de advocatura cinque e secenteschi, anche se i precetti in essi presenti continuarono ad attingere soprattutto alla riflessione dei teologi moralisti. Peraltro, fu grazie a quest'humus comune che i tractata finirono per descrivere una disciplina il cui corpo portante si presenta sostanzialmente uniforme nell'ambito dell'intero continente europeo e dei territori d'oltremanica.

Il dibattito ad oggi può considerarsi superato, alla luce delle chiare prese di posizione delle Sezioni Unite in favore della piena giuridicità delle regole di condotta (da ult., Cass. civ., Sez. Un., 12 settembre 2011, n. 18695, Cass. civ., Sez. Un., 18 novembre 2010, n. 23287; Cass. civ., Sez. Un., 30 aprile 2008, n. 10875), che distinguono il contenuto della norma dalla sua natura, evidenziando come il richiamo a precetti etici compiuto dalla norma non incide sul carattere della disposizione, che trae la sua forza precettiva dall'essere dettata in ragione di una specifica fonte normativa (la legge professionale) che la inserisce nell'ambito dell'ordinamento giuridico generale e di settore.

Il codice deontologico

La regolamentazione della professione, a lungo offerta dal R.d.l. n. 1578/1933, è oggi prevista dalla legge 31 dicembre 2012,n. 247, recante la Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense che, tuttavia, non ha alterato il disegno di una attività specialistica caratterizzata da personalità, professionalità e indipendenza, principi che sono da considerare patrimonio e tradizione storica dell'avvocatura italiana. Con l'entrata in vigore della novella tutto il sistema deontologico è stato ricostruito su base normativa, attribuendo al Consiglio nazionale forense la specifica potestà di emanare, nell'esercizio di un autonomo potere di regolamentazione, le norme deontologiche, prevedendone la diretta pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (artt. 3, 35 e 65 l.p.f.).

Il Codice deontologico, pertanto, rappresenta una normazione secondaria che contiene una particolareggiata regolamentazione delle linee guida dell'attività forense. Anche in ambito deontologico, il ricorso alla codificazione ha rappresentato un approdo decisivo, poiché in grado di salvaguardare il fondamentale principio di legalità e garantire la certezza delle norme e la loro conoscenza immediata, non soltanto ad opera della classe forense ma dell'intero consesso sociale e civile.

La nuova versione del Codice, approvata il 31 gennaio 2014, è stata emendata già due volte, con una prima modifica entra in vigore il 2 luglio 2016 e la più recente in vigore dal 12 giugno 2018. Per i procedimenti disciplinari già in corso all'entrata in vigore delle recenti novelle continuano ad applicarsi le norme vigenti al momento della commissione del fatto, salvo che le nuove norme siano più favorevoli per l'incolpato (art. 65, comma 5 l.p.f. e Cass. civ., Sez. Un. 16 febbraio 2015, n. 3023).

A livello europeo, il Consiglio degli Ordini Forensi Europei, in qualità di organo rappresentativo degli ordini e delle associazioni giuridiche dell'Unione europea, dello Spazio economico europeo e della Confederazione svizzera, ha adottato due testi fondamentali: la Carta dei Principi Fondamentali dell'Avvocato Europeo, adottata nel novembre 2006, dà espressione ai comuni denominatori delle discipline nazionali e internazionali che regolano l'avvocatura; il Codice Deontologico degli Avvocati Europei, adottato nel 1988 e modificato tre volte, l'ultima delle quali nel 2006, è un testo normativo vincolante per tutti gli avvocati iscritti agli ordini degli Stati membri.

Il Codice deontologico è diviso in sette titoli (artt. 1-73) e, fatta eccezione per i principi generali enunciati negli artt. da 1 a 19, per ogni singolo dovere e relativa violazione è indicata una specifica sanzione edittale (artt. 23-72), che potrà essere aumentata o diminuita, a fronte di circostanze aggravanti o attenuanti (art. 22, commi 2 e 3).

La potestà disciplinare è attribuita, nel nostro ordinamento, ai Consigli dell'ordine e al C.N.F., con il vaglio successivo, unicamente in punto di legittimità, delle Sezioni Unite della Cassazione. Peraltro, l'art. 20, rubricato “Responsabilità disciplinare”, prevede espressamente che ove le violazioni dei principi generali non siano riconducibili alle ipotesi tipizzate, le relative sanzioni andranno comunque individuate e determinate sulla base delle norme disciplinanti la “Potestà disciplinare” (art. 21) e le “Sanzioni” (art. 22).

La sanzione dovrà sempre essere adeguata e proporzionata alla violazione deontologica commessa e deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all'eventuale sussistenza del dolo e alla intensità di quest'ultimo, al comportamento dell'incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione. Nella determinazione della sanzione, inoltre, si dovrà tenere conto del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell'immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari.

Principi generali

Le regole dettate nel titolo I del codice trovano applicazione rispetto a tutti gli avvocati, inclusi gli avvocati stranieri, i praticanti e le società, con riferimento alle condotte e comportamenti inerenti la vita professionale nonché i comportamenti privati che divengano rilevanti all'esterno, incidendo sulla reputazione personale e di riflesso sulla dignità ed immagine della classe forense (art. 2 cod. deont.).

In evidenza

La responsabilità disciplinare si ricollega unicamente alla coscienza e volontà della condotta illecita (art. 4 cod. deont.) da intendersi come dominio anche solo potenziale dell'azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l'atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l'errore inevitabile, cioè non superabile con l'uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l'imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti» (Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 2017, n. 13456).

In ragione del combinato degli artt. 1 e 9 cod. deont. l'avvocato deve esercitare la propria attività in piena libertà e autonomia, con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. La sua attività dev'essere volta a tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e l'attuazione dell'ordinamento per i fini della giustizia, nonchè vigilando sulla conformità delle leggi ai principi costituzionali e alle norme dell'ordinamento dell'Unione Europea e operando per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Peraltro, nell'ambito dei rapporti cd. transfrontalieri, in cui l'avvocato sia chiamato ad esercitare la professione all' estero, egli dovrà rispettare non soltanto la deontologia del proprio paese di origine ma anche quella del paese ospitante (cd. doppia deontologia, ex art. 3 cod. deont.).

È dovere dell'avvocato evitare situazioni o attività incompatibili (art. 6 cod. deont.), e ciò sia in relazione alle condizioni prescritte per l'iscrizione all'albo sia in relazione comunque ad ogni attività che possa offendere i principi generali (indipendenza, dignità, decoro).

L'indipendenza dell'avvocato è un elemento essenziale che, tuttavia, dev'essere coniugata con la sua parzialità. Infatti, da un alto, l'avvocato deve agire in piena autonomia dai pubblici poteri, dai giudici, dagli altri operatori giudiziari, dal proprio interesse e da quello dei terzi, senza alcuna influenza esterna; dall'altro, egli deve offrire la garanzia che tutte le iniziative da lui assunte siano prese nel solo interesse del cliente, evitando qualunque rischio di conflitto di interessi. Il delicato equilibrio sopradescritto viene garantito mediante il ricorso ad una divieti strumentali: innanzitutto, le incompatibilità della professione di avvocato con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente (ad es. il notaio, mentre è consentita l'iscrizione negli albi e registri dei dottori commercialisti, degli esperti e revisori contabili, dei pubblicisti e dei consulenti del lavoro) con l'esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale svolta in nome proprio o in nome o per conto altrui, con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società, anche in forma cooperativa (a meno che l'oggetto della attività della società sia limitato esclusivamente all'amministrazione di beni, personali o familiari, ovvero si tratti di enti, consorzi e società pubbliche) e con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche part-time (art. 18, l. n. 247/2012). Gli stessi avvocati dello Stato, e quelli iscritti nell'albo speciale degli uffici legali istituiti presso enti pubblici (anche se costituiti in forma di società di capitali a partecipazione pubblica: Cass. civ., Sez. Un., n. 9096/2005), non costituiscono una deroga al principio dell'indipendenza, poiché pur essendo dipendenti, possono esercitare solo rispetto a cause ed affari inerenti all'ufficio cui sono addetti. Anche l'inserimento dell'avvocato in un ordine professionale autonomo costituisce, infine, una garanzia strumentale all'indipendenza del professionista.

La violazione del dovere di fedeltà (artt. 10 e 11 cod. deont.), su cui si fonda il rapporto con il cliente e che impone all'avvocato di svolgere la propria attività nell'interesse della parte assistita, integra una specifica fattispecie di reato (patrocinio infedele ex art. 380 c.p.). Tuttavia, tale vincolo di fedeltà è bilanciato dal rispetto e l'osservanza delle norme dell'ordinamento, la cui violazione non può mai essere ammessa o giustificata dalle esigenze di difesa. Pertanto, il corretto esercizio della professione e la salvaguardia dei valori su cui essa si fonda, portano ad escludere che la fedeltà nei confronti del cliente possa giustificare l commissione di illeciti disciplinari a pretesa tutela del proprio assistito (Cass. civ., Sez. Un., n. 27200/2017).

Molteplici sono i doveri al cui rispetto l'avvocato è chiamato per poter assicurare la propria professionalità e la qualità della prestazione da svolgere in favore della parte assistita: si tratta di doveri che abbracciano l'obbligo di diligenza (art. 12 cod. deont.) e competenza (art. 14 cod. deont.), unitamente all'onere di aggiornamento professionale e di formazione continua. Tali doveri sono strettamente connessi perché hanno la finalità di porre l'avvocato nella condizione di assicurare un adeguato livello di competenza e di cognizione tecniche, debitamente aggiornate, a tutela tanto del singolo cliente che della collettività.

L'avvocato è tenuto alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo sui fatti e circostanze comunque appresi nell'attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale, del cliente (art. 13 cod. deont.). Tale dovere permane anche nell'ambito delle attività d'informazione sulla propria attività professionale, che l'avvocato ha facoltà di svolgere, a tutela dell'affidamento della collettività, a condizione che le informazioni – che possono essere diffuse con qualunque mezzo – siano trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative (art. 17 cod. deont.).

Tutti i doveri enunciati nei principi generali (artt. 1-22), trovano ulteriore e più ampia specificazione nei successivi titoli del codice, con indicazione delle sanzioni relative alle singole violazioni commesse.

I rapporti con il cliente e con la parte assistita

Nel titolo II, artt. 23-37, sono disciplinati i rapporti con il cliente (il soggetto che provvede al pagamento del compenso) e la parte assistita, a cui favore è prestata l'attività professionale nel giudizio.

Il rapporto con la parte assistita si basa sulla fiducia ed esige lealtà di comportamenti e chiarezza da entrambe le parti. Devono quindi essere evitati rapporti di carattere economico o commerciale, estranei al mandato professionale, che possono alterare il vincolo fiduciario e lo stesso equilibrio dell'attività dell'avvocato (art. 23 cod. deont.). Rispetto alla lite, infatti, l'avvocato deve mantenere un rapporto di estraneità per tutto il corso del giudizio e dell'espletamento dell'incarico, evitando il proprio coinvolgimento in responsabilità e limitandosi ad assicura la difesa tecnica più efficace con la massima professionalità.

Al contempo, l'avvocato deve assicurare l'autonomia del rapporto professionale, rivendicando il diritto di definire, rispetto all'attività che gli viene richiesta, la condotta più rispondente agli interessi del suo rappresentato, senza compiere atti che importino disposizione dei diritti e senza assecondare iniziative pretestuose, consigliare azioni inutilmente gravose, né accettare incarichi finalizzati a operazioni illecite, né suggerire comportamenti o negozi illeciti (Cass. civ., Sez. Un., n. 12798/2017), fraudolenti o nulli.L'avvocato ha anche il dovere di aiutare il cliente ad evitare azioni inutili o a risolvere diversamente controversie legate a questioni di microconflittualità (Cass. civ., sez. VI, 12 maggio 2016, n. 9695).

A tutela della fedeltà e lealtà nei rapporti, l'avvocato deve altresì astenersi dal prestare l'attività professionale quando questa determini un conflitto di interesse tra i propri assistiti (art. 24 cod. deont.), anche solo potenziale, e deve sempre comunicare alla parte assistita l'esistenza di circostanze che siano di ostacolo al corretto svolgimento del mandato, tenuto conto che la prestazione di attività in favore di parti contrapposte non dà garanzia di una sostanziale ed effettiva difesa e può realizzare un'ipotesi di patrocinio infedele.

All' atto del conferimento dell'incarico l'avvocato è tenuto a informare il cliente e la parte assistita della caratteristica e dell'importanza della controversia, precisando l'attività richiesta, la prevedibile durata, le ipotesi di soluzione, il prevedibile costo (con distinzione dell'importo tra oneri, spese forfetarie e compenso professionale), la possibilità di utilizzare il procedimento di mediazione o di negoziazione assistita o il patrocinio a spese dello Stato, gli estremi della polizza assicurativa e ogni ulteriore informazione utile o richiesta (art. 27 cod. deont.).

L'avvocato deve anche comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di atti per evitare prescrizioni, decadenze o ogni altra circostanza che ossa incidere negativamente o pregiudicare l'adempimento del mandato, a cui l'avvocato deve provvedere con diligenza, tempestività e la specifica competenza richiesta.

L'iscrizione all'albo costituisce presupposto per l'esercizio dell'attività giudiziale e stragiudiziale di assistenza e consulenza in materia legale e per l'utilizzo del relativo titolo, costituendo illecito disciplinare sia l'uso di un titolo professionale non conseguito, sia lo svolgimento di attività in mancanza di titolo o in periodo di sospensione (art. 36 cod. deont.), o anche il comportamento dell'avvocato che agevoli o renda possibile a soggetti non abilitati o sospesi l'esercizio abusivo della professione o consenta che tali soggetti ne possano ricavare benefici economici. Cass. civ., Sez. Un., n. 27996/2013, ha confermato la responsabilità disciplinare dell'avvocato che si dichiarava disponibile a sottoscrivere ricorsi in Cassazione redatti da colleghi non abilitati.

Il codice ribadisce l'onere di rigorosa osservanza del segreto professionale, con riferimento ai fatti e circostanze apprese nello svolgimento dell'attività, tutela assicurata anche dalla legge penale (art. 622 c.p.) e la cui violazione costituisce illecito disciplinare (art. 28 cod. deont.). Il rispetto del segreto professionale legittima l'avvocato e i suoi collaboratori ad astenersi dal deporre sulle circostanze conosciute nell'ambito dell'attività svolta, salvo che non sia necessario nell'ambito dell'attività di difesa ovvero quando la controversia sussista tra avvocato e la parte assistita. Parimenti, l'avvocato non è tenuto al segreto qualora la parte assistita gli riveli l'intenzione di commettere in futuro un reato contro una persona, prevalendo l'esigenza di tutela di quest'ultima.

L'avvocato ha facoltà di rinunciare al mandato ma senza arrecare pregiudizi alla parte assistita. Deve, quindi, adoperarsi per rendere nota la propria rinuncia secondo le modalità più opportune a non pregiudicarne la difesa, offrendo alla parte un congruo preavviso e comunicando gli adempimenti processuali previsti o prevedibili (art. 32 cod. deont.), oltre a tutti gli atti che dovessero pervenire all'avvocato dopo la rinuncia.

L'avvocato è obbligato a restituire senza ritardo alla parte assistita la documentazione dalla stessa ricevuta per l'espletamento del mandato, quando questa ne faccia richiesta (art. 33 cod. deont.), analogamente a quanto previsto per qualsiasi prestazione di opera intellettuale (art. 2235 c.c.), non avendo egli alcun diritto a trattenere il fascicolo né la facoltà di subordinare la restituzione al pagamento del proprio onorario. L'obbligo di restituzione soggiace alla prescrizione ordinaria di dieci anni ex art. 2946 c.c. Tuttavia, ex art. 2961 c.c. è anche prevista una prescrizione presuntiva decorsi tre anni dalla decisione della controversia o dal termine della lite, in ragione della quale gli avvocati sono esonerati dal rendere conto dei relativi incartamenti, con la facoltà per la parte di deferire un giuramento affinché l'avvocato dichiari se ritiene o sa dove si trovino gli atti e i documenti in questione.

Compenso, pagamento e gestione somme di danaro

L'avvocato deve richiedere il compenso nelle forme previste dalla legge (art. 25 cod. deont.), computato e proporzionato alla reale consistenza e all'effettiva valenza professionale espletata, redigendo un preventivo scritto, se richiesto dal cliente (art. 29 cod. deont.).Tradizionalmente, nel nostro sistema, i compensi di avvocato venivano definiti in base ad una tariffa, abolita con l. n. 35/2012, che fissava dei minimi e massimi per ogni attività espletata dal professionista, mentre oggi la determinazione degli onorari è rimessa alla libera contrattazione tra cliente e professionista, sulla base di parametri (da aggiornare ogni due anni con decreto ministeriale: da ultimo il d.m. n. 37/2018) che, a differenza delle tariffe, determinano un compenso unico del difensore per ognuna delle cinque macro-fasi in cui viene diviso il giudizio (fase di studio, di introduzione della causa, dell'istruttoria, della decisione, dell'esecuzione). Anche se non vincolati, la giurisprudenza attribuisce loro carattere retroattivo (Cass. civ., Sez. Un., n. 17405/2012).

Nei sistemi di common law la determinazione del compenso è operata, di norma, sulla base di una tariffa oraria che varia a seconda dell'anzianità professionale e del prestigio dell'avvocato. Inoltre, la concezione privatistica spesso favorisce la stipula di patti di quota lite, largamente diffusi, soprattutto in USA, in materia di class action e di infortunistica. Nel nostro ordinamento, e più in generale nei sistemi di civil law, la cessione al difensore di una quota del risultato utile della causa, è vista come una possibile origine di conflitto fra l'interesse del cliente e quello personale del difensore, che verrebbe meno alla sua immagine di estraneità rispetto all'esito della controversia, con pregiudizio della propria indipendenza e dignità professionale. Ferma restando la nullità dei patti di quota lite, la l. n. 248/2006 ha riformulato il comma 3 dell'art. 2233 c.c., ammettendo la possibilità di stipulare con il cliente, purché per iscritto, un compenso parametrato al raggiungimento degli obbiettivi perseguiti. Tale pattuizione non può comunque derogare al divieto deontologico di richiedere compensi manifestamente sproporzionati (art. 29 cod. deont.; si veda Cass. civ., Sez. Un., n. 25012/2014) ed è da ritenere nulla se si risolve nella cessione del credito o del diritto dedotto in giudizio.

In evidenza

Si potrà pervenire alla valutazione di sproporzione o eccessività del compenso solo al termine di un giudizio di relazione condotto con riferimento all'attività espletata e alla misura della sua remunerazione da ritenersi equa; solo una volta che sia stato quantificato l'importo ritenuto proporzionato, può essere formulato il successivo giudizio di sproporzione o di eccessività, che presuppone che la somma richiesta superi notevolmente l'ammontare di quella ritenuta equa (Cons. naz. for., 3 luglio 2017, n. 79)

Per altro verso, esigenze di adeguata tutela dell'importanza dell'opera e del decoro della professione, hanno portato alla modifica, ad opera della legge n. 172/2017 della legge professionale, inserendo l'art. 13-bis, in vigore dal 6 dicembre 2017, che assicura agli avvocati una ampia tutela rispetto all'eventuale iniquità delle pattuizioni contrattuali, prevedendo la nullità di tutte le clausole imposte dal cd. contraente forte che determinino squilibri contrattuali e non siano conformi ai parametri, le quali non potranno essere fatte salve attraverso il meccanismo dell'approvazione specifica ex art. 1341 c.c.

In caso di mancato pagamento, l'avvocato può agire giudizialmente nei confronti del cliente, ovviamente rinunciando agli incarichi in corso (art. 34 cod. deont.), ma non potrà chiedere un compenso maggiore rispetto a quello indicato, se non ha fatto specifica riserva (art. 29, comma 5 cod. deont.).

L'avvocato deve gestire con diligenza il denaro ricevuto in relazione all'incarico da espletare, e deve farne rimessa alla parte assistita tempestivamente, potendo trattenere a titolo di compensazione unicamente le somme che gli sono pervenute: a rimborso delle spese sostenute, dandone avviso al cliente; a titolo di pagamento del proprio compenso o quando abbia formulato una richiesta di pagamento espressamente accettata dalla parte assistita; quando si tratti di somme liquidate in sentenza a carico della controparte e l'avvocato non le abbia ancora ricevute dalla parte assistita (artt. 30 e 31 cod. deont.). Per il Cons. naz. for., 13 luglio 2017, n. 100, il diritto alla compensazione non può ritenersi integrato dalla generica «facoltà di sottoscrivere quietanze e riscuotere somme», eventualmente contenuta nella procura alle liti. Inogni caso l'avvocato è onerato da un dovere di rendiconto, che deve essere sempre puntuale e dettagliato.

Informazione, pubblicità e accaparramento di clientela

Conformemente a quanto disposto nei principi generali (art. 17 cod. deont.), l'avvocato può dare informazioni sulla propria attività professionale, ma deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell'obbligazione professionale (art. 35 cod. deont.), essendogli impedita un'attività di informazione con finalità pubblicitarie. L'avvocato, infatti, non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimento a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all'attività professionale. Onde evitare di creare indirette interferenze con l'attività processuale svolta a difesa dei clienti, non è mai possibile indicarne il nominativo a fini pubblicitari, neppure con il loro consenso (Cass. civ., Sez. Un., n. 9861/ 2017).

Il titolo accademico di professore può essere utilizzato solo se si è docenti universitari di materie giuridiche, mentre l'iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso il titolo di «praticante avvocato», con l'eventuale indicazione di abilitazione al patrocinio ove conseguita. Il nome di un professionista defunto può essere mantenuto nella denominazione dello studio, solo se il medesimo lo abbia espressamente previsto o disposto per testamento, ovvero vi sia il consenso unanime degli eredi.

È altresì vietata qualsiasi forma di accaparramento, che a differenza della pubblicità non rappresenta una manifestazione esteriorizzata e pubblica delle qualità personali e della propria attività, ma costituisce un'attività volta in maniera immediata e diretta ad acquisire clientela, con conseguente offesa della dignità e del decoro della professione. Ne consegue che, l'avvocato non può acquisire clientela a mezzo di agenzie o procacciatori, né gli è consentito offrire a colleghi o a terzi, provvigioni, omaggi o altre prestazioni per ottenere difese o incarichi. È, inoltre, vietato offrire prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico, o comunque prestazioni personalizzate non richieste (art. 37 cod. deont.).

I rapporti con i colleghi

I rapporti e gli obblighi di colleganza sono disciplinati nel titolo terzo del codice (artt. 38-45) descrivendo un contegno e una modalità di comportamento a cui l'avvocato deve attenersi nei rapporti con colleghi, pur senza mai subordinarvi gli interessi e i diritti del proprio assistito.

Vi si riconduce l'obbligo di dare comunicazione per iscritto al collega della volontà di promuovere un'azione giudiziaria nei suoi confronti per fatti attinenti all' esercizio della professione, salvo che tale avviso possa pregiudicare il diritto da tutelare (art. 38 cod. deont.), avendo cura di palesare le ragioni dell'iniziativa, onde consentire al collega di rimuoverle ed evitare di essere convenuto in giudizio (Cons. naz. for., 3 luglio 2017, n. 77). Parimenti, è fatto divieto all'avvocato di registrare una conversazione telefonica con il collega – ovvero di porre il telefono in modalità viva-voce, al fine di consentire a terzi presenti di ascoltare la conversazione (Cons. naz. for., 17 febbraio 2016, n. 7) – di riferire in giudizio il contenuto di colloqui riservati, nonché di esprimere apprezzamenti denigratori sull'attività professionale di un collega (art. 42 cod. deont.) o di utilizzare notizie relative alla sua persona.

Nei rapporti con la controparte assistita da un altro avvocato, il rispetto dell'obbligo di colleganza impone di dialogare direttamente con il collega, riconoscendoli la funzione di esclusivo referente del proprio assistito (Cons. naz. for., 29 dicembre 2015, n. 241) che diversamente potrebbe sentirsi esposto a comportamenti inappropriati ovvero interpretabili come intimidatori o sleali. Non esime l'impegno della controparte ad avvisare il proprio difensore o, addirittura, la garanzia di averlo già avvertito.

Anche nei casi specifici in cui l'intimazione di determinati comportamenti (messe in mora, prescrizioni o decadenza) può essere rivolta direttamente alla controparte, l'avvocato dovrà sempre porre in copia per conoscenza il collega avversario (art. 41 cod. deont.).

L'avvocato che incarichi direttamente un collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza deve provvedere a compensarlo, ove non adempia il cliente, mentre ove venga chiamato a sostituire un collega per revoca dell'incarico o rinuncia, il nuovo difensore deve adoperarsi affinché siano soddisfatte le legittime richieste del sostituito per le prestazioni svolte (artt. 43 e 45 cod. deont.). Infine, l'avvocato che abbia raggiunto con il collega avversario un accordo transattivo, accettato dalle parti, deve astenersi dal proporne impugnazione, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti o dei quali dimostri di non avere avuto conoscenza.

Nel medesimo titolo sono anche previste le regole tese a disciplinare i rapporti con i collaboratori e praticanti (artt. 39 e 40 cod. deont.), la cui adeguata formazione e crescita professionale deve essere favorita dall'avvocato (fermo restando il divieto assoluto di conferire incarichi per attività difensiva ai praticanti), che a loro volta dovranno garantire l'impegno a migliorare la propria preparazione e ad acquisire le conoscenze utili a svolgere con crescente autonomia gli incarichi loro affidati. Inoltre, l'avvocato è tenuto anche a dare al praticante un idoneo ambiente di lavoro, un compenso adeguato e deve (controllare e) attestare la veridicità delle annotazioni contenute nel libretto della pratica.

I doveri dell'avvocato nel processo

I doveri individuati nel titolo IV del codice deontologico (artt. 46-62) sono molto ampi poiché riguardano tutta l'attività processuale e molte di essi avrebbero potuto essere collocate nel titolo che riguarda i rapporti con i colleghi. L'avvocato, infatti, è innanzitutto tenuto al dovere di difesa, connaturato alla stessa attività professionale, che dev'essere attuato salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza, sia rispetto aglialtri difensori della parte assistita, con cui è tenuto a collaborare nell'interesse del cliente, sia nei confronti degli avvocati della parte avversaria.

All'avvocato è fatto espresso divieto di produrre né riferire in giudizio la corrispondenza scambiata con il collega che sia dichiarata riservata e quella che contenga proposte transattive (art. 48 cod. deont.), a tutela della più ampia libertà di esercizio del proprio officio di difesa, salvo che con essa sia stato perfezionato un accordo, di cui la stessa corrispondenza costituisca attuazione ovvero assicuri l'adempimento delle prestazioni richieste.

Il dovere di verità (art. 50 cod. deont.) impone all'avvocato di non introdurre nel processo intenzionalmente atti o documenti falsi e impone allo stesso di non utilizzare nel processo atti o documenti provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi (ovvero deve rinunciare al mandato), oltre che di menzionare i provvedimenti già ottenuti o il rigetto dei provvedimenti richiesti, nella presentazione di istanze o richieste sul presupposto della medesima situazione di fatto. Inoltre, ha il dovere di dire la verità l'avvocato che chieda un provvedimento particolare all'autorità giudiziaria, sulla base di fatti specifici che siano presupposto di tale provvedimento e di cui l'avvocato abbia diretta conoscenza.

L'avvocato ha diritto di astenersi dal partecipare alle udienze e alle altre attività giudiziarie e questo diritto è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale come espressione del favor libertatis, da contemperare, pertanto, con il contrapposto diritto di ogni collega di non aderire all'astensione, purché ne dia tempestiva comunicazione agli altri difensori costituiti, al fine di consentire loro ogni più opportuna determinazione. Nel rispetto della buona fede, l'astensione non può mai essere parziale, limitata ad alcune soltanto delle udienze o delle attività previste.

Il divieto di utilizzare espressioni offensive o sconvenienti nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi (art. 52 cod. deont.), previsto anche dal codice di rito all'art. 89 c.p.c., è fattispecie caratterizzata da una casistica amplissima e variegata, nel costante tentativo di stigmatizzare il ricorso a quelle espressioni che eccedono il rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Peraltro, il CNF ha chiarito che nel conflitto tra diritto a svolgere la difesa giudiziale in maniera ampia e insindacabile e il diritto della controparte al decoro e all'onore, a prevalere sarà il primo, purché le espressioni offensive cui si è fatto ricorso non risultino gratuite, ovvero non abbiano relazione con l'esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose (Cons. naz. for. 6 giugno 2015, n. 74; si veda, anche Cass. civ.,Sez. Un., n. 15873/2013). Anche eventuali provocazioni o la reciprocità delle offese non escludono l'infrazione della regola deontologica, rilevando soltanto ai fini della determinazione della sanzione.

Sempre nell'ambito del processo, l'avvocato è tenuto al rispetto di specifici doveri, come ad esempio quello di astenersi dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell'esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti (art. 51 cod. deont.), dovendo egli salvaguardare gli interessi della parte assistita, il dovere di riservatezza e segretezza, nonché, soprattutto, evitare impropri conflitti a protezione della funzione difensiva (Cass. civ., Sez. Un., n. 2223/2017). Pertanto, ove l'avvocato intenda deporre, dovrà dismettere il mandato e non potrà riassumerlo

Qualora, invece, l'avvocato abbia assunto la funzione di arbitro, per garantire il rispetto dei doveri d'indipendenza e imparzialità e la propria immunità da condizionamenti, non dovrà avere, o aver avuto negli ultimi due anni, rapporti professionali con una delle parti ovvero non devono sussistere motivi di ricusazione. L'astensione e il rifiuto della nomina si estende anche alle ipotesi in cui una delle parti sia assistita (o sia stata assistita negli ultimi due anni) da un avvocato che sia socio, associato o eserciti negli stessi locali. Analogamente, dismesse le veste di arbitro, l'avvocato è tenuto al rispetto della riservatezza e non può assistere le parti prima che siano decorsi due anni e comunque può farlo soltanto per fatti diversi da quelli oggetto del procedimento arbitrale. Analoghe previsioni sono previste per l'espletamento della funzione di mediatore, cui si aggiungono l'obbligo di formazione e il divieto di commistione tra lo studio professionale e la sede della mediazione (art. 62 cod. deont.).

Infine, per quanto concerne gli altri rapporti dell'avvocatodisciplinati dal codice, meritano attenzione l'art. 53 cod. deont. che prevede come l'avvocato debba intrattenere i rapporti con i magistrati nel rispetto reciproco e nell'interesse della giustizia – in particolare, l'avvocato non può interloquire con il giudice in merito ad un procedimento in corso senza la presenza del legale avversario, né deve approfittare di eventuali rapporti di amicizia, familiarità o confidenza per richiedere e ottenere favori o preferenze – e l'art. 57 cod. deont., in forza del quale, nei rapporti con gli organi di informazione (stampa, radio, tv) e in ogni attività di comunicazione, l'avvocato non deve fornire notizie coperte dal segreto di indagine, spendere il nome dei propri clienti ed enfatizzare la propria capacità professionale ovvero sollecitare articoli, interviste e conferenze stampa, fatte salve le esigenze di difesa.

I rapporti con terzi, controparti e istituzioni forensi

Il codice dedica gli ultimi titoli (V e VI, artt. 63-72) ai rapporti con i soggetti terzi, intendendo ogni persona con cui l'avvocato venga a contatto nell'esercizio della professione (es. personale ausiliario giustizia), con la controparte e le istituzioni forensi.

Le regole a cui il professionista deve attenersi sono ispirate a canoni di decoro, rispetto e correttezza, che andranno osservati anche nella vita privata, per non compromettere l'immagine e la dignità della professione e l'affidamento dei terzi. In tale prospettiva, l'eventuale inadempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio della professione forense configura sempre un illecito disciplinare, mentre l'inadempimento delle obbligazioni ad essa estranee rilevano ai fini disciplinari solo quando, per modalità o gravità, siano tali da compromettere la fiducia dei terzi nella capacità dell'avvocato di assolvere ai propri doveri professionali.

Più dettagliate le regole che disciplinano il rapporto con la controparte a cui l'avvocato può intimare il pagamento di una somma di denaro o altri adempimenti, con l'avvertenza che in difetto potranno essere avviate azioni giudiziarie a tutela dei diritti della parte assistita, ma senza che tale intimazione possa trasformarsi nella minaccia dell'avvio di azioni del tutto sproporzionate e vessatorie, ovvero si concreti in richieste o pretese esorbitanti, mosse facendo uso di termini ingiuriosi, calunniosi o estorsivi (art. 65 cod. deont.).

Peraltro, le iniziative giudiziali che s'intendono proporre nei confronti della controparte devono corrispondere a effettive ragioni di tutela della parte assistita, e non devono essere moltiplicate in assenza di effettiva necessità (si pensi all'illegittimo frazionamento del credito), né devono essere inutilmente onerose o vessatorie (art. 66 cod. deont.).

Inoltre, l'avvocato che si relazioni ad una controparte non assistita da un collega potrà: invitarla ad un incontro ma precisandole che potrà essere accompagnata da un legale di fiducia; addebitarle le spese per l'attività prestata in via stragiudiziale, purché la richiesta di pagamento sia fatta a favore del proprio cliente. Il pagamento del proprio compenso professione può essere richiesto alla controparte solo in presenza di una specifica pattuizione con il cliente (art. 67 cod. deont.) o l'intervenuta definizione della lite (art. 13 l.p.f.).

Infine, è previsto che l'avvocato possa agire contro una parte già assistita in precedenza, quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e l'oggetto del nuovo mandato sia estraneo a quello espletato in precedenza (art. 68 cod. deont.); diversamente ha l'obbligo di astenersi. In ogni caso è fatto divieto all'avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto professionale già esaurito, anche se per il Cons. naz. for., 10 giugno 2017, n. 6 non è deontologicamente rilevante il comportamento dell'avvocato che, sulla base delle informazioni assunte nell'espletamento di un precedente mandato, notifichi atto di pignoramento presso terzi a plurimi presunti debitori dell'esecutato, tra cui genitori, parenti e altri familiari della controparte, ove ciò si giustifichi in ragione dell'esigenza di tutela della parte assistita.

È sempre vietata, invece, l'assunzione di un incarico nei confronti di un coniuge, quando l'avvocato abbia in precedenza assistito entrambi i coniugi ovvero un minore in controversie familiari, onde evitare improvvide confusioni di ruoli e il pericolo di conflitti di interesse (art. 68 cod. deont. e Cons. naz. for., 17 febbraio 2016, n. 10).

Quanto ai rapporti con le Istituzioni forensi, vale a dire tutti gli organismi rappresentativi dell'Avvocatura, gli avvocati hanno il dovere di attendervi con diligenza, correttezza e imparzialità, siano essi consiglieri nominati nei vari Consigli dell'Ordine (e, ancor prima, i candidati agli stessi) ovvero sostenitori di candidati e avvocati in genere. Peraltro, molti degli obblighi relativi al rapporto con i Consigli dell'Ordine richiamano analoghe disposizioni contenute nella legge professionale, prevedendo l'obbligo di comunicare ogni evento che riguardi l'esercizio dell'attività professionale, di assolvere gli obblighi previdenziali e contributivi previsti dalla legge e nei confronti delle Istituzioni forensi, di comunicare gli estremi della polizza di assicurazione per la responsabilità civile e della polizza contro gli infortuni, etc. (art. 70 cod. deont.).

L'avvocato ha il dovere di collaborare con le Istituzioni forensi per l'attuazione delle finalità istituzionali, osservando scrupolosamente il dovere di verità e dando sollecita risposta a tutti i chiarimenti notizie o adempimenti richiesti in relazione a situazioni segnalate da terzi (art. 71 cod. deont.), laddove un diverso contegno varrà sempre ad integrare una lesione del prestigio formale e delle funzioni collettive dei Consigli dell'ordine. Al contrario, quando il procedimento disciplinare sia già in corso la mancata risposta dell'avvocato agli addebiti formulati a suo carico, così come la mancata comparizione o presentazione di osservazioni e memorie, è sempre consentita, trattandosi di libere scelte di strategia difensiva e ferma restando la facoltà dell'organo giudicante di valutare tali comportamenti nella formazione del proprio libero convincimento.

Riferimenti
  • Bianchi Riva, La coscienza dell'avvocato. La deontologia forense fra diritto e etica in età moderna, Milano, 2015;
  • Bonelli, Il conflitto di interessi nella assunzione di incarichi da parte di avvocati, in Dir. Comm. Internaz. 2009, 3;
  • Danovi, La tipizzazione degli illeciti disciplinari (la storia e il codice deontologico forense), in Prev. for., 2017, 233;
  • Danovi, Il nuovo codice deontologico e le violazioni previdenziali, in Prev. Forense, 2015, 49;
  • Danovi, Nuovo codice deontologico forense, successione di norme, tipizzazione degli illeciti e sanzioni disciplinari, in Foro it., 2015, I, 1594;
  • Stumpo, Marketing, comunicazione e pubblicità dell'avvocato, Rimini 2016.

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