I vizi nelle rinunce e transazioni dei diritti dei lavoratori
24 Giugno 2019
Massime
Le rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore, derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo, devono contenere, quali elementi essenziali, l'espressione della comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, l'indicazione della res dubia, nonché il nuovo regolamento di interessi e, quando contenute in verbali di conciliazione sindacale, non sono impugnabili ove l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva.
Requisito indefettibile della violenza morale, quale vizio del consenso, è quello che la minaccia sia stata specificamente diretta al fine di estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l'annullabilità e risulti di natura tale da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di determinazione dell'autore di essa. Il caso
Un agente di commercio regolava gli effetti risolutivi del rapporto di agenzia con accordo transattivo sottoscritto in sede sindacale, sciogliendo consensualmente il rapporto, accettando il pagamento di un certo importo a saldo di ogni spettanza e concedendo una dilazione per il relativo pagamento.
Successivamente agiva per accertare l'invalidità dell'accordo, rivendicando il pagamento di ben maggiori somme, dovutegli per provvigioni, indennità di fine rapporto e indennità di preavviso.
A fondamento dell'azione l'agente poneva una serie di vizi del negozio, sostanziali e formali, relativi alla mancanza della bilateralità delle concessioni, alla rituale partecipazione del rappresentante sindacale, alla violenza morale subita da parte della preponente al momento della sottoscrizione.
La domanda giudiziale veniva respinta in primo e secondo grado, con conferma della piena validità dell'accordo transattivo sottoscritto.
Anche il giudizio di legittimità si risolve negativamente per il lavoratore. Le questioni
Il perno normativo attorno al quale ruota la vicenda in oggetto è costituito dall'art. 2113, c.c., il quale, com'è noto, disciplina le rinunce e transazioni del prestatore di lavoro aventi ad oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo.
L'ambito soggettivo di applicazione della norma non è limitato al lavoro subordinato, ma a tutti i rapporti riconducibili alla disciplina dell'art. 409, c.p.c. (disposizione che fissa la competenza per materia del giudice del lavoro), comprese quindi tutte quelle forme di collaborazione coordinata e continuativa, a carattere prevalentemente personale, tra le quali può annoverarsi anche il contratto di agenzia.
La validità (efficacia) dei predetti negozi abdicativi è condizionata alla loro mancata impugnazione, da parte del lavoratore, nel termine di sei mesi, decorrenti dalla cessazione del rapporto o dalla successiva data di sottoscrizione degli stessi, a meno che quest'ultima non venga effettuata, come si usa dire, in sede protetta: davanti al giudice; presso l'Ispettorato Territoriale del Lavoro, sia nelle forme della conciliazione monocratica (anche nell'ambito della procedura di diffida accertativa), che di fronte alla Commissione di conciliazione; di fronte alle Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro; con l'assistenza di un conciliatore sindacale e nelle forme regolate dalla contrattazione collettiva.
In queste ipotesi, tassativamente previste, le conciliazioni sono sottratte al regime di impugnabilità stabilito dall'art. 2113, c.c.: in poche parole, il lavoratore non gode di alcun diritto di ripensamento che gli consenta di revocare il consenso prestato al momento della sottoscrizione dell'accordo.
Resta tuttavia aperta la possibilità di agire con i normali mezzi di impugnazione previsti per i contratti e per gli atti unilaterali a termini degli artt. 1224, 1418 e 1441, c.c., ossia per la dichiarazione di nullità o per l'annullamento del negozio. Azioni sottratte allo speciale regime decadenziale di cui sopra.
Ed è proprio su questo piano che si muove la vicenda giudiziaria oggetto della sentenza in commento, laddove il lavoratore, a fronte di un accordo transattivo pacificamente sottoscritto in sede sindacale, mette in discussione, da una parte, l'esistenza di una delle condizioni qualificanti per la inoppugnabilità degli atti di cui all'art. 2113, c.c., ossia l'intervento protettivo/assistenziale del sindacato.
Privato dell'attributo “sindacale”, l'accordo conciliativo sarebbe quindi impugnabile nei termini di cui al comma 1 dell'art. 2113, c.c.
Per altro verso, l'agente contesta la natura stessa di transazione del negozio sottoscritto, in quanto mancante degli elementi essenziali propri di tale tipologia di atti e, comunque, frutto di un consenso viziato per violenza morale.
Mancherebbero cioè, secondo la prospettazione del ricorrente, sia le “reciprocità” delle concessioni, sia l'incertezza sulla sussistenza dei diritti oggetto dell'accordo.
Perdipiù il consenso alla sottoscrizione sarebbe stato estorto dalla preponente con la minaccia di un recesso unilaterale, con (l'apodittica) conseguente necessità per l'agente di avviare una defatigante iniziativa di recupero dei propri crediti. Le soluzioni giuridiche
Nel decidere la controversia la Corte fornisce un argomentato vademecum sulle caratteristiche essenziali e sui requisiti contenutistici e formali degli atti transattivi, senza alcun dubbio prezioso per il giurista/operatore, anche al fine di evitare di commettere pericolosi errori nella elaborazione di tali atti, i quali, paradossalmente, potrebbero dar luogo a liti future, proprio nel momento in cui si intendeva prevenirle.
Elementi essenziali del negozio transattivo, la cui presenza, ci ricorda la Corte, deve risultare dallo scritto contenente l'accordo, sono dunque: la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o potenziale; la cosiddetta res dubia, ossia la questione rispetto alla quale sussistono diverse e opposte posizioni delle parti; il nuovo regolamento di interessi, che mediante reciproche concessioni, elimina la materia del contendere dando luogo ad un nuovo rapporto obbligatorio.
Con la transazione, pertanto, non solo si può definire una controversia pendente, ma può anche darsi un apposito regolamento in relazione ad un mero pericolo di lite (Cass. 4 maggio 2016, n. 8917).
Rispetto a tale condizione è quindi centrale la chiara ed inequivocabile espressione di volontà delle parti, piuttosto che l'attualità di una res litigiosa, ben potendo quest'ultima rimanere solo allo stato potenziale.
Ciò che tuttavia rileva e deve necessariamente essere attuale, al momento dell'accordo, è l'incertezza sul rapporto giuridico intercorrente tra le parti e sui rispettivi diritti o pretese. Pretese che, peraltro, non devono necessariamente essere palesate (Cass. 6 giugno 2011, n. 12211).
Ciò che dunque deve risultare dalla transazione è la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, ossia la "res dubia", vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti ed il nuovo regolamento di interessi (Cass. 4 maggio 2016, n. 8917), identificandosi l'oggetto della transazione stessa "non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all'oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni" (Cass. 9 ottobre 2017, n. 23482).
L'incertezza nasce così dalla contrapposizione delle due “visioni”, le quali vengono a costituire la base di partenza ed anche il metro di valutazione di quelle “reciproche concessioni” destinate infine a costituire il nuovo terreno di relazione tra le parti.
Da tale stretta relazione e, si potrebbe dire, concatenazione tra i diversi elementi costitutivi del negozio transattivo discendono importanti considerazioni, ormai consolidate nella giurisprudenza di legittimità.
La prima attiene all'indagine sulla effettiva volontà espressa, in particolare dal lavoratore (incontestabilmente parte debole del negozio ed in quanto tale destinataria della norma protettiva contenuta nell'art. 2113, c.c.) ed alla conseguente distinzione tra la mera dichiarazione di scienza e la rinuncia o transazione vera e propria.
A tale proposito la giurisprudenza insegna come non possa ritenersi avere natura transattiva la semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti (che trova espressione nell'usuale formula dichiarativa “di non avere altro a pretendere”), essendo piuttosto necessario che per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti (Cass.n.729 del 2003; Cass. 6 maggio 2015, n. 9120; Cass. 15 settembre 2015, n. 18094).
Per altro verso, per poter qualificare come atto di transazione l'accordo tra lavoratore e datore è necessario che esso contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l'elemento dell' aliquid datum,aliquid retentum, essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile (Cass. n.20780 del 2007).
Attenzione però: come ci ricorda la sentenza in commento, è privo di rilievo l'eventuale squilibrio tra il datum ed il retentum, sul quale deve ritenersi esclusa ogni possibile valutazione giudiziale, anche alla luce di quanto previsto dall'art. 1970, c.c..
L'esclusione della possibilità di rescissione del negozio transattivo per causa di lesione (ossia per sproporzione tra le reciproche concessioni) enfatizza, così come altre disposizioni che regolano l'istituto, il particolare valore che l'autonomia negoziale delle parti assume in tali atti dispositivi ove ciò che più conta, come detto, è la consapevolezza del sacrificio sopportato, nel dubbio di doverne potenzialmente sopportare uno superiore.
Ecco dunque che anche una semplice dilazione di pagamento del debito pecuniario (per retribuzioni o altro) da onorarsi ordinariamente in unica soluzione, accordata dal lavoratore nel contesto di una vicenda definitoria di contrastanti posizioni giuridiche circa i rispettivi obblighi e diritti, può venire ad integrare una specifica “concessione”, sufficiente a qualificare il negozio come transazione (Cass. n. 20160 del 2013).
Come detto, nel caso in esame il ricorrente lamentava anche un vizio del consenso, per essere stata la sua volontà abdicativa in qualche modo coartata con la minaccia di un recesso unilaterale.
Sul punto non ci si può esimere, in prima battuta, dall'osservare come la minaccia del preponente di esercitare il diritto di recesso (ipotesi del tutto fisiologica nei contratti di durata) non pare, di per sé, connotata dal carattere della “ingiustizia”, necessario a qualificare la violenza morale come causa di annullamento del contratto.
Tant'è che la Corte, nella sentenza in commento, segnala come la coazione debba comunque manifestarsi in un comportamento, non necessariamente esplicito, ma oggettivamente ingiusto.
Comportamento minaccioso finalizzato a forzare la volontà negoziale e di intensità tale da incidere sulla libertà di autodeterminazione del soggetto, elementi tutti da provare a cura di chi intende far valere l'invalidità dell'atto (Cass. n. 11107 del 2002).
Trattandosi, nel caso, di valutazione di merito, la Corte non procede con l'esame della questione, ritenendo la pronuncia impugnata congruamente motivata.
Certo è che il possibile configurarsi di una violenza morale nelle transazioni in materia di lavoro dovrebbe potersi scongiurare proprio grazie alle particolari “protezioni” assicurate dall'art. 2113, c.c.
Il che ci porta ad esaminare un ultima questione affrontata dalla sentenza in commento: quella, cioè, della effettività dell'assistenza prestata al lavoratore dai rappresentanti sindacali.
In linea di principio va detto che la sede sindacale stessa depone, anche a livello presuntivo, per l'esistenza di una effettiva assistenza e dunque per una volontà non coartata del lavoratore (Cass. 18 agosto 2017,n. 20201). Tale sarebbe infatti la funzioni propria delle sedi “protette”.
Utile, in proposito, la seguente citazione: "Con riferimento alla conciliazione in sede sindacale ex art. 411, terzo comma, cod. proc. civ., al fine di verificare che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa” (Cass. n. 4730 del 2002)
Funzione di supporto che deve concretizzarsi nella corretta e completa rappresentazione, al lavoratore assistito, della questione controversa e delle reciproche concessioni, di modo che questi sia pienamente consapevole dei diritti rinunciati e della misura delle rinunce stesse.
Sarà quindi certamente opportuno che, nel testo degli accordi conciliativi da sottoscrivere in sede sindacale, sia dia specifico conto del mandato di assistenza conferito dal lavoratore e della specifica attività svolta dal rappresentante sindacale per la conciliazione della lite.
Ove peraltro dovesse mancare l'effettiva assistenza sindacale del lavoratore al momento della stipula dell'atto transattivo o della dichiarazione unilaterale abdicativa, la dichiarazione negoziale non verrebbe tuttavia privata della sua natura, sicché - pur risultando non inoppugnabile ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 2113, c.c. - dovrebbe sempre essere impugnata nel termine semestrale di cui al comma 2, pena la sua definitiva validità (Cass. 5 maggio 2016, n. 9064). |