I “punitive damages” si nascondono anche nel nostro ordinamento

Redazione Scientifica
26 Giugno 2019

Partendo dal presupposto per cui «non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei “risarcimenti punitivi”», la Suprema Corte riconosce alla previsione di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c. una funzione sanzionatoria e di deterrenza contro le ipotesi di abuso del processo.

Così la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 16898/2019, depositata il 25 giugno, decidendo sul ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d'Appello de l'Aquila che, confermando la decisione di prime cure, aveva respinto la domanda del ricorrente volta ad ottenere il risarcimento dei danni per diffamazione a mezzo stampa, proposta nei confronti di un quotidiano nazionale e di un giornalista.

INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO. Il ricorrente deduce la manifesta violazione e falsa applicazione delle norme di diritto richiamate nel ricorso invocando l'efficacia di giudicato di una precedente sentenza di conclusioni opposte. I Giudici evidenziano però l'assoluto difetto di specificità delle censure proposte. Il giudizio di cassazione si caratterizza infatti come giudizio a critica vincolata, delimitata e cristallizzata dai motivi di ricorso che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica. I motivi devono dunque caratterizzarsi per tassatività e specificità, esigono una precisa enunciazione con critiche mirate e comprensibili rispetto al percorso argomentativo della motivazione censurata. Nel caso di specie, il ricorso ripropone «la mescolanza di tutti i fatti già esaminati» e le censure proposte costituiscono un «incomprensibile intreccio delle argomentazioni prospettate che si concludono, in punto di liquidazione delle spese, anche con l'erroneo riferimento al triplo grado di giudizio che disvela l'intento di ottenere una rivisitazione di merito della controversia».

LITE TEMERARIA. Accertata dunque l'inammissibilità del ricorso, la Suprema Corte dichiara sussistenti i presupposti per l'applicazione dell'art. 96, ultimo comma, c.p.c.
Con specifico riferimento alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria, la giurisprudenza ha recentemente sottolineato la necessità di contenere il fenomeno dell'abuso del processo ma anche l'evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi”.
E' stato infatti affermato che «la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente» (Cass. civ., n. 27623/2017).
Ricorda infine la Corte che può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione «basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamento privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia». In tali casi risulta infatti integrato un «ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale».
Per questi motivi, dichiarando inammissibile il ricorso, la Corte condanna il ricorrente al risarcimento del danno alla controparte ex art. 96, ultimo comma, c.p.c. liquidato in 2.500 euro, oltre alle spese processuali.

(FONTE: Dirittoegiustizia.it)

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