Truffa e bancarotta possono coesistere?

27 Giugno 2019

La questione posta con il ricorso investe il rapporto tra il reato di cui all'art. 640 c.p. e la bancarotta per distrazione delle utilità conseguite attraverso l'induzione in errore del soggetto passivo, alla luce del divieto del bis in idem, sancito dall'art. 649 c.p.p., così come costituzionalmente interpretato dalla Consulta con la sentenza n. 200 del 2016 e alla stregua dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Massima

La contestazione del delitto di truffa, avente a oggetto l'erogazione di finanziamenti bancari indotti mediante falsificazione dei bilanci e di altra documentazione relativa alla situazione economica – patrimoniale di una società non impedisce, in ragione del divieto di bis in idem, di giudicare l'imputato per il delitto di bancarotta per distrazione, contestato nel medesimo procedimento, in relazione alle somme successivamente sottratte, in presenza di una condotta complessivamente dolosa che avvince in sé anche il fallimento delle società finanziate, trattandosi di fatti illeciti naturalisticamente differenziati.

(fonte: IlPenalista)

Il caso

La vicenda da cui trae origine la sentenza qui commentata si riferisce ad un provvedimento di natura cautelare emesso dal Tribunale di Padova nei confronti dell'indagato, quale amministratore di fatto di due società dichiarate fallite, al quale venivano contestati plurimi episodi di truffa in danno di istituti bancari, diverse imputazioni di bancarotta nonché il reato di incendio.

Più in particolare, secondo l'ipotesi accusatoria l'indagato avrebbe tratto in errore gli istituti di credito che avevano erogato finanziamenti alle società dallo stesso amministrate, alla stregua della falsa documentazione prodotta sulle condizioni economiche e finanziarie delle predette società ed all'incendio doloso del capannone, sede di una delle società, finalizzato alla riscossione del premio assicurativo.

Il Tribunale del Riesame di Venezia, adito dall'indagato, ha parzialmente accolto il ricorso avverso il provvedimento cautelare, ritenendo che i fatti di bancarotta fossero da intendersi assorbiti nelle contestazioni di truffa, tenuto conto che le somme distratte coincidevano con il profitto di tale reato e che non vi erano altri creditori, al dì la degli istituti di credito.

Secondo l'interpretazione offerta dal Tribunale delle Libertà, infatti, la qualificazione della dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità, nonché le linee interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare dalla sentenza n. 25651 del 2018 (sul concorso tra i reati di bancarotta fraudolenta e appropriazione indebita), portavano ad escludere il concorso tra il delitto di truffa e la bancarotta per distrazione, allorquando esista coincidenza tra il profitto illecito acquisito dalla società e la sottrazione del medesimo alla garanzia dei creditori eroganti, unici soggetti lesi da entrambe le fattispecie apparentemente concorrenti.

Avverso tale decisione ricorreva il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Padova, con un unico motivo di ricorso, col quale lamentava che il Tribunale non aveva considerato la pluralità delle condotte illecite, ontologicamente e cronologicamente diverse, che ledono beni giuridici diversi.

La questione

La questione posta con il ricorso investe il rapporto tra il reato di cui all'art. 640 c.p. e la bancarotta per distrazione delle utilità conseguite attraverso l'induzione in errore del soggetto passivo, alla luce del divieto del bis in idem, sancito dall'art. 649 c.p.p., così come costituzionalmente interpretato dalla Consulta con la sentenza n. 200 del 2016 e alla stregua dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Le soluzioni giuridiche

Nel risolvere la questione posta al vaglio del Supremo Consesso, i giudici di legittimità richiamano alcuni precedenti giurisprudenziali che hanno affermato la possibilità, nell'ambito dell'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di truffa, che possano essere oggetto di distrazione anche quei beni provento dell'attività criminale stessa.

In tali casi, è stata ritenuta esistente una profonda divergenza, anche sul piano strutturale, tra le condotte materiali in oggetto, atteso che l'impresa criminale finalizzata alla realizzazione delle truffe «si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'impresa decotta, mentre la distrazione degli stessi beni, suscettibile di integrare la bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui alla l. fall.,

art. 216,

comma 1, n. 1, è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione», con la logica conseguenza che i due reati ben possono concorrere (cfr., Cass. pen., Sez. V, 27 settembre 2013, n. 8373, Rv. 259041).

Peraltro, i giudici ricordano altresì che è stato più volte stabilito, e di recente ribadito dalla Suprema Corte, che la provenienza illecita dei beni, in tema di reati fallimentari, non esclude il reato di bancarotta, considerato che, ai sensi dell'art. 216 l. fall., per beni del fallito si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, ivi compresi, quindi, quelli provento di reato.

A giudizio della Suprema Corte, tali dicta discendono dalle strutturali differenze che intercorrono tra le condotte di truffa e distrazione, nonché dalla diversità, sul piano cronologico, delle condotte, che si pongono in modo progressivo e logicamente consequenziale e che impediscono, pertanto, la riconduzione delle fattispecie ad un idem factum.

Fatta questa premessa, la Corte affronta il secondo tema che pone il ricorrente, segnatamente l'impatto di siffatta impostazione sull'applicazione del principio del ne bis in idem, come interpretato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Edu.

Ricorda la Corte che, in adesione ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla mera qualificazione giuridica della fattispecie, il Giudice delle leggi ha declarato, con la sentenza n. 200 del 31 maggio 2016, l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile ed il reato per cui è iniziato un nuovo procedimento penale.

La Corte Costituzionale ha, però, ulteriormente precisato che l'

art. 4 Cedu

impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem non solo avendo riguardo alla medesimezza dell'azione od omissione, ma ricomprendendo anche l'oggetto fisico su cui si estrinseca la condotta, nonché l'evento naturalistico che a essa ne consegue ovvero la modificazione della realtà fenomenologica indotta dal comportamento dell'agente.

Solo in tal modo, a giudizio della Corte, la garanzia del ne bis in idem opererebbe nella sua massima espansione, senza compromissione di altri principi di rilevo costituzionale.

Proprio sulla scorta di tali principi, ricordano i giudici del Supremo Consesso, è stato recentemente affermato che il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisce, in ragione del divieto espresso dall'art. 649 c.p.p., di avviare un procedimento per il delitto di bancarotta, nei confronti dello stesso imputato, per aver distratto gli stessi beni oggetto del reato di cui all'art. 646 c.p.; in quanto «la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, non è elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso» (cfr., Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2018, n. 25651, Rv. 273468).

Tali principi, tuttavia, secondo i giudici di legittimità, non si attagliano affatto al caso di specie in quanto le condotte contestate all'imputato devono ritenersi ontologicamente distinte, considerato che l'evento della truffa (segnatamente il conseguimento di un ingiusto profitto con danno delle banche erogatrici tratte in errore) costituisce il «prius logico e temporalmente antecedente della posteriore consumazione» della distrazione.

La condotta del ricorrente si è articolata, invero, in due fasi: la prima, rappresentata dall'induzione in errore delle banche, attraverso la presentazione di documentazione artefatta, e il relativo conseguimento dei finanziamenti bancari; la seconda, costituita dalla distrazione degli importi, a titolo di finanziamenti, accreditati sui conti correnti della società, prelevati ed utilizzati per fini extra sociali.

Di talché, precisano i giudici, la dichiarazione di fallimento non ha solo reso punibile una condotta che, in assenza della predetta dichiarazione, avrebbe costituito un post factum non punibile rispetto all'apprensione dell'ingiusto profitto, ma ha rappresentato una conseguenza prevista e voluta dal ricorrente.

Del resto, nel caso in esame, la diversità investe non solo la condotta, ma anche il danno, costituito, nella truffa, dall'entità dell'indebito finanziamento erogato e, nella bancarotta, dalla conformazione del credito secondo la partecipazione al riparto, in virtù delle regole concorsuali.

In conclusione, la Corte rileva che il Tribunale delle Libertà ha adottato un'interpretazione errata, trasponendo i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, in un caso di concorso tra reati di appropriazione indebita e bancarotta per distrazione, al diverso caso di una truffa con successiva distrazione del profitto del reato dalle casse della società.

Per tali motivi, i giudici hanno annullato l'ordinanza impugnata con rinvio, affinché il Tribunale proceda, nel rispetto dei principi sopra enunciati, ad una nuova valutazione.

Osservazioni

Con la sentenza in commento, la Cassazione interviene a correggere l'eccessiva estensione di un principio in materia di ne bis in idem con riferimento alle fattispecie incriminatrici di bancarotta.

La decisione dei Giudici di legittimità coglie il nucleo del problema nella identificazione dell'idem factum, che il giudice del merito aveva erroneamente ritenuto, applicando l'esatto canone ermeneutico già fissato dai Giudici della legge a un caso estraneo alla disciplina di detto canone.

Una diversa interpretazione, che avesse accolto l'apprezzamento del giudice del merito (qui il Tribunale delle Libertà), del resto, avrebbe finito con l'applicare il corretto principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 25651 del 2018 ad un caso diverso e non sussumibile alla disciplina di detto canone.

Non si nutre alcun dubbio, infatti, sulla correttezza dell'approdo ermeneutico raggiunto dai giudici di legittimità nella sentenza in commento, che, giustamente, hanno evidenziato la differenza dei fatti riconducibili alle due fattispecie incriminatrici di cui di discute, dando conto di come l'identità del fatto, quale parametro essenziale nella valutazione del bis in idem, non possa essere ricondotta alla sua mera descrizione, bensì debba cogliere le differenze naturalistiche che il fatto, scomposto in modo analitico e in un'ottica giuridica, appalesa.

In questo senso, per utilizzare le parole del Giudice delle Leggi, che ha fatto propria l'impostazione della Corte Edu adottando il criterio dell'idem storico – naturalistico, nella valutazione della medesimezza del fatto operano dei criteri normativi, attraverso i quali l'interprete seleziona e prende in considerazione i segmenti dell'accadimento naturalistico.

La decisione della Corte qui in commento, dunque, sembra applicare i principi sopra espressi, laddove precisa che l'idem debba essere riferito si al factum, ma senza che ciò significhi ridurre l'analisi al fatto nelle sole coordinate spazio-temporali, ignorando, invece, gli elementi descrittivi naturalistici e giuridici che costituiscono la fattispecie astratta.

Analizzata in questi termini la questione sottoposta all'esame dei giudici di legittimità, appare lampante la diversità strutturale tra la condotta truffaldina, non solo cronologicamente e logicamente anteriore, ma anche autonoma e diversa per conformazione, dalla condotta distrattiva tipica della bancarotta.

Ciò che, invece, lascia perplessi della sentenza in commento, è l'affermazione della Corte secondo cui la dichiarazione di fallimento avrebbe reso punibile una condotta (quella distrattiva) che, in assenza della predetta dichiarazione, avrebbe rappresentato un mero post factum non punibile.

Non è revocabile in dubbio, infatti, che se la condotta di apprensione dell'ingiusto profitto interviene successivamente al momento nel quale il profitto stesso è entrato a far parte del patrimonio sociale, nei confronti degli amministratori infedeli potrebbe configurarsi il reato di appropriazione indebita aggravata. Se invece la percezione del profitto fosse intervenuta in epoca anteriore a quella in precedenza ipotizzata, potrebbe valutarsi la sussistenza del delitto di autoriciclaggio.

Con riferimento a quest'ultima osservazione , qualche interessante spunto lo offre la sentenza pronunciata dalla stessa Quinta Sezione, n. 8851, dell'1 febbraio 2019, secondo cui se la condotta di apprensione dell'ingiusto profitto interviene in epoca anteriore al momento nel quale il profitto stesso è entrato a far parte del patrimonio sociale, nei confronti dell'amministratore potrebbe configurarsi – in presenza degli altri elementi costituitivi della fattispecie – anche il reato di cui all'art. 648-ter.1 c.p.

In conclusione, se è vero che la dichiarazione di fallimento è condizione obiettiva di punibilità dei fatti di bancarotta, per cui in difetto di quest'ultima gli stessi non possono configurarsi, non è altresì vero che tale considerazione confina all'area del post factum non punibile tutte le condotte posteriori all'apprensione dell'ingiusto profitto provento della truffa, che ben potrebbero invece trovare rilevanza penale sotto l'alveo di diverse fattispecie incriminatrici.

Guida all'approfondimento

S. FINOCCHIARO, Il buio oltre la specialità. Le Sezioni Unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione, in Dir. pen. cont., fasc. 5/2017, p. 344;

F. MUCCIARELLI, Bancarotta distrattiva, appropriazione indebita e ne bis in idem: una decisione della Corte di Cassazione innovativa e coerente con i principi costituzionali e convenzionali, in Dir. pen. cont., 11 giugno 2018;

F. MUCCIARELLI, Ne bis in idem, bancarotta e truffa: la Corte di Cassazione corregge un'applicazione generalizzata di un corretto canone ermeneutico, in Dir. pen. cont., 30 aprile 2019.

D. PULITANÒ, Ne bis in idem. Novità dalla Corte Costituzionale e problemi aperti, in Dir. pen. proc., 2016, 1588;

C. SANTORIELLO, I rapporti fra bancarotta fraudolenta patrimoniale ed autoriciclaggio in una decisione della Cassazione, in Società, 2019, p. 485;

G. SERRA, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norma, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Dir. pen. cont., fasc. 11/2017, p. 173;

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