I documenti da produrre con il ricorso per cassazione
01 Luglio 2019
Il quadro normativo
L'attività di produzione documentale dinanzi alla Corte di cassazione è regolata essenzialmente da due disposizioni, tra loro coordinate: l'art. 369 e l'art. 372 c.p.c. Secondo l'art. 369 col ricorso per cassazione debbono essere depositati, a pena d'improcedibilità: 1) il decreto di concessione del gratuito patrocinio (id est, dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato); 2) la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta, tranne che nei casi di regolamento di cui agli artt. 367 e 368 c.p.c.; oppure copia autentica dei provvedimenti dai quali risulta il conflitto nei casi di cui all'art. 362, nn. 1 e 2; 3) la procura speciale, se questa è conferita con atto separato; 4) gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda. Secondo l'art. 372 non è invece ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata (art. 360, n. 4, c.p.c.) e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso (artt. 365, 366, comma 1, e 370 c.p.c.). Invero il deposito dei documenti relativi all'ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato mediante elenco, alle altre parti. É bene mettere subito in luce la ratio di tale ultima disposizione. L'art. 372 c.p.c. trova la sua ratio in ciò: che è propria della Corte di cassazione l'estraneità della potestà accertativa dei fatti, salvo che non si discuta del vizio processuale; ma anche in tal caso, essendo il vizio relativo alla sentenza, la valutazione postula l'accesso agli atti e ai documenti già prodotti nel giudizio di merito, non anche l'esercizio di una vera attività istruttoria o di acquisizione documentale. Una simile attività è radicalmente incompatibile con la struttura del giudizio di cassazione. L'art. 369 c.p.c. collega all'onere di produzione documentale la sanzione di improcedibilità. Viene in tal senso in rilievo l'inciso di cui al n. 4) della disposizione, come sostituito dall'art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006. É opportuno rammentare che la norma si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del citato d.lgs., e che il testo specifico anteriore era in parte diverso, facendo riferimento più genericamente a “gli atti e i documenti”. Con maggior precisione l'attuale testo riferisce invece la sanzione, da un lato, agli atti processuali e, dall'altro, ai documenti, ai contratti o agli accordi collettivi “sui quali il ricorso si fonda”: locuzione, questa, involgente il profilo causale della violazione, che era al fondo anche della formulazione originaria. Ne consegue, per consolidato principio, che la violazione dell'obbligo è legittimamente predicabile nel solo caso in cui la mancata produzione riguardi atti o documenti già acquisiti al giudizio di merito il cui esame sia necessario per la decisione della causa (cfr. Cass. civ.,sez. II, 17 maggio 2010, n. 12028). L'improcedibilità non sussiste, cioè, quando lo scrutinio dei motivi di ricorso sia possibile senza che in concreto occorra l'esame dell'atto o del documento su cui la sentenza impugnata risulti basata, in quanto la decisione non richiede in tale prospettiva che il contenuto dell'atto o del documento si debba poi effettivamente esaminare. Questo caso ricorre in particolare allorché la stessa sentenza impugnata faccia riferimento al contenuto del documento e il ricorso per cassazione solleciti la Corte Suprema all'esame di un motivo che, pur basandosi sul contenuto del documento, sia decidibile senza che la Corte debba esaminarlo, essendo sufficiente, ai fini dello scrutinio del motivo o comunque ai fini della decisione, che la Corte – anche nell'esercizio di poteri d'ufficio – ritenga di adottare per vero ciò che, riguardo al documento, riferisce la stessa sentenza impugnata (cfr. Cass. civ.,sez. III, 29 settembre 2005, n. 19132). Naturalmente l'art. 369, n. 4, c.p.c. assume a proprio fondamento l'onere di specificità del corrispondente motivo di ricorso, saldamente tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell'art. 366, n. 6, c.p.c. Cosicché alfine, ove sia prioritariamente violato l'art. 366 c.p.c., il presupposto dell'art. 369, n. 4, assunto in termini di sanzione di improcedibilità, deflette dinanzi alla impossibilità di stabilire quali siano i fatti rilevanti cui ancorare l'esame delle censure.
La giurisprudenza ha avuto modo di affrontare il tema delle modalità della produzione degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda. Si è affermato che l'onere di produzione è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369, comma 3, c.p.c. Fa eccezione il caso (peculiare) del giudizio di cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie: in tale specifico caso infatti l' indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, d.lgs. n. 546/1992 restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità, della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Suprema Corte ex art. 369, comma 3, c.p.c.; a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (sui riferiti temi, cfr. per tutte Cass. civ., sez. V, 30 novembre 2017, n. 28695). Nei casi ordinari resta ferma, invece e in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (v. Cass. civ., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726). Tutto ciò viene dalla Suprema Corte affermato sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, al quale alludono, invero, molteplici arresti (v. Cass. civ.,sez. lav., 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. civ.,sez. lav., 18 settembre 2017, n. 21554). Nondimeno è anche da sottolineare che il Protocollo d'intesa tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense elaborato a dicembre 2015 postula che gli atti e i documenti anzidetti siano allegati al ricorso, in copia, in apposito fascicoletto, che verrebbe così ad aggiungersi all'allegazione del fascicolo di parte relativo ai gradi del giudizio di merito. Tale previsione si dice associata al principio di autosufficienza, verosimilmente in base all'effetto agevolativo che ne deriverebbe quanto alla successiva opera di verifica, che la Corte deve fare consultando, appunto, gli atti e i documenti previamente indicati. In verità non sembra che la configurazione pertenga al principio di autosufficienza, che – per quanto detto – non è inciso affatto da tale ratio. Né sembra che il rispetto della previsione riflettente il deposito di copie di atti o documenti in apposita fascicolazione, per quanto forse utile sul piano pratico, sia da reputare effettivamente necessario ai fini della procedibilità del ricorso. In vero non constano decisioni che si siano spinte a dichiarare l'improcedibilità per l'inosservanza di un simile onere formale. La copia autentica della sentenza impugnata
É importante sottolineare che insieme col ricorso deve essere depositata, sempre a pena d'improcedibilità, la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata, con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta; oppure la copia autentica dei provvedimenti dai quali risulta il conflitto nei casi di cui ai numeri 1 e 2 dell'art. 362. Da questo punto di vista l'improcedibilità del ricorso contro una sentenza notificata, di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica nel senso indicato dall'art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., determina alcune delicate questioni. L'improcedibilità non può esser dichiarata ove la copia notificata (e dunque la relata di notifica) risulti comunque nella disponibilità del giudice, perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l'istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio (Cass. civ., Sez. Un., 2 maggio 2017, n. 10648). É stato così rimeditato in senso antiformalistico il più rigoroso orientamento anteriormente invalso in seno alla Corte, in base al quale la questione dell'improcedibilità del ricorso per il mancato deposito della copia notificata della sentenza impugnata non si sarebbe potuta risolvere valorizzando l'eventualità di equipollenti, desunti sia dalla avversa non contestazione in ordine alla tempestività del ricorso sia dal reperimento degli atti e dei documenti nel fascicolo d'ufficio o in quello della controparte; orientamento, questo, che era stato sostenuto dalle sezioni unite a composizione di un anteriore contrasto (cfr. in particolare Cass. civ., Sez. Un., 25 novembre 1998, n. 11932; Cass. civ., Sez. Un., 16 aprile 2009, n. 9004; Cass. civ., Sez. Un., 16 aprile 2009, n. 9005). I singoli passaggi finalizzati ad attenuare il rigore formale dell'interpretazione postulano doversi declinare la norma in coerenza con le caratteristiche del giudizio di legittimità. Sicché resta inteso che il ricorrente deve comunque allegare al ricorso per cassazione la copia autenticata della sentenza e della relazione di notificazione (se avvenuta), e la mancata allegazione di uno di questi atti determina l'improcedibilità del ricorso comunque rilevabile d'ufficio. Semplicemente l'improcedibilità può essere evitata con un deposito successivo, purché ciò avvenga entro il limite temporale di venti giorni dalla notifica del ricorso per cassazione, entro il quale il ricorso, dopo la notifica, deve essere depositato, ovvero col fatto della presenza negli atti di causa della copia autentica della sentenza con la relazione di notifica, perché depositata dal controricorrente o presente nel fascicolo d'ufficio. In base al citato assetto è possibile affermare che resta in ogni caso fermo il principio per cui la mancanza del deposito dell'uno o dell'altro atto, pur se non eccepita, deve essere rilevata d'ufficio dalla Corte. L'ottica involgente l'operatività dell'art. 369, n. 2, c.p.c. pone inoltre un problema di adattamento dell'obbligo al caso della sentenza notificata in modalità telematica. Per soddisfare l'onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione si è detto che il difensore del ricorrente, destinatario della notifica, deve estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi dell'art. 9, comma 1-bis e comma 1-ter, della legge n. 53/1994, e depositare nei termini quest'ultima presso la cancelleria della Corte. Non è invece necessario provvedere anche al deposito di copia autenticata della sentenza estratta dal fascicolo informatico ( specificamente in tal senso Cass. civ.,sez. VI, 22 dicembre 2017, n. 30765, resa dal Collegio previsto dal par. 41.2 delle Tabelle della Suprema Corte, e prima ancora Cass. civ.,sez. III, 14 luglio 2017, n. 17450). Rimane tuttavia a questo proposito di una certa rilevanza il tema della non contestazione della parte controricorrente. Il più recente approdo giurisprudenziale sembra incline a considerare che la non contestazione può venire in rilievo in senso dispensativo, quanto al deposito in cancelleria della copia analogica della decisione impugnata predisposta in originale telematico e notificata a mezzo PEC. Da questo punto di vista le sezioni unite, su questione di massima di particolare importanza, hanno da ultimo sottolineato che il deposito suddetto, benché senza attestazione di conformità del difensore ai sensi dell'art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53/1994 o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non comporta l'improcedibilità ove uno dei controricorrenti (o anche l'unico controricorrente), anche tardivamente costituito, depositi copia analogica della decisione stessa ritualmente autenticata «ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all'originale notificatogli ex art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82/2005»; viceversa, nell'ipotesi in cui il destinatario della notificazione rimanga solo intimato ovvero disconosca la conformità suddetta, è onere del ricorrente effettuare il deposito dell'asseverazione di conformità sino all'udienza di discussione o all'adunanza in camera di consiglio (Cass. civ., Sez. Un., 25 marzo 2019, n. 8312). Come all'inizio si diceva, ai sensi dell'art. 372 c.p.c. rileva la produzione dei documenti «che riguardano la nullità della sentenza impugnata». Codesti documenti sono esclusivamente quelli che dimostrano vizi intrinseci della sentenza stessa per difetto di requisiti essenziali, e non anche quelli attinenti ad altri e precedenti atti o situazioni processuali che si riflettono sulla validità della decisione: questo perché diversamente sarebbe legittimata la produzione di documenti riguardanti qualunque vizio del procedimento, pur se potuti produrre nel giudizio di merito, con alterazione del ruolo del giudizio di legittimità. Tuttavia, è ammissibile, in ragione della prevalente esigenza della tutela del diritto di difesa (art. 24 cost.), la produzione di documenti nuovi, pur se non direttamente attinenti a vizi propri della sentenza impugnata, quando essi siano diretti a dimostrare un vizio di costituzione del rapporto processuale non deducibile (per la natura stessa del vizio) nel giudizio di merito e che soltanto con il ricorso per cassazione poteva essere fatto valere (v. Cass. civ.,sez. I, 28 agosto 2000, n. 11227, Cass. civ., sez. III, 1 marzo 2004, n. 4121, Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2004, n. 13980, Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2007, n. 13535). Una tesi assume peraltro che le ipotesi di nullità della sentenza che consentono, ex art. 372 c.p.c., la produzione di nuovi documenti in sede di giudizio di legittimità non siano limitate a quelle derivanti da vizi propri dell'atto, per mancanza dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma, estendendosi anche a quelle originate, in via riflessa o mediata, da vizi radicali del procedimento (v. Cass. civ.,sez. lav.,24 maggio 2004,n. 9942, che, in applicazione del principio, ha considerato ammissibile la produzione in cassazione della sentenza di primo grado notificata e impugnata tardivamente in appello, al fine di dimostrarne il passaggio in giudicato, con la conseguente nullità della sentenza pronunciata in appello). La tesi anzidetta è peraltro minoritaria e sembra in contrasto col principio per cui il divieto di nuove produzioni documentali permane ove la produzione sia diretta a dimostrare una nullità destinata a riflettersi solo mediatamente sulla sentenza impugnata. Le nullità della sentenza derivanti non già dalla mancanza dei suoi requisiti essenziali di forma e di sostanza ma, in via mediata, da nullità occorse nel procedimento di merito, possono essere dedotte come motivo di ricorso per cassazione solo se risultino da atti già prodotti nel giudizio di merito, sicché, per esempio, proposta, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, una querela di falso civile relativamente a un atto del procedimento di merito (nella specie, per asserita falsità della relata di notifica dell'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado), la certificazione attestante la pendenza del procedimento di falso non può essere depositata, quale documento nuovo, in sede di ricorso per cassazione, con conseguente inapplicabilità dell'istituto della sospensione necessaria, ex art. 295 c.p.c., con riferimento al giudizio di legittimità (Cass. civ.,sez. VI-2, 9 maggio 2017, n. 11327). Ben vero l'art. 372 c.p.c. consente la produzione di qualunque documento destinato a incidere sulla ammissibilità, proponibilità, procedibilità (o anche proseguibilità) del ricorso. In particolare è acquisito che la norma, nonostante il testuale riferimento alla sola inammissibilità del ricorso, rende possibile la produzione di ogni documento incidente sulla proponibilità, procedibilità e proseguibilità del ricorso medesimo, inclusi quelli diretti a evidenziare l'acquiescenza del ricorrente alla sentenza impugnata per comportamenti anteriori all'impugnazione, ovvero la cessazione della materia del contendere per fatti sopravvenuti che elidano l'interesse alla pronuncia sul ricorso purché riconosciuti ed ammessi da tutti i contendenti (v. ex aliis Cass. civ.,sez. II, 29 febbraio 2016, n. 3934). É sempre quindi ammissibile la produzione di documenti volti a dimostrare che il ricorso, per esempio, è stato notificato tempestivamente. Peculiare è invece la questione del rapporto tra l'art. 372 c.p.c. e il giudicato esterno. In tema di giudizio di cassazione, il principio secondo cui l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quello interno, rilevabile d'ufficio, non solo quando emerga da atti prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto ex art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata al fine di dimostrare l'effettiva sussistenza, o meno, dei fatti, poiché, in tal caso, il giudicato ha valenza non già di regola di diritto cui conformarsi bensì solo in relazione a valutazioni di stretto merito. Per esempio in ipotesi di domanda di un concessionario di beni demaniali, a titolo di manutenzione nel possesso, spiegata contro committente ed appaltatrice dell'esecuzione di lavori con effetti sull'area di demanio, la Suprema Corte ha escluso l'ammissibilità della produzione della sentenza definitiva con cui il giudice amministrativo aveva dichiarato l'illegittimità dell'annullamento in autotutela dei titoli abilitativi edilizi, osservando che l'elemento soggettivo sotteso alla domanda non era escluso dai suddetti titoli (v. Cass. civ.,Sez. Un.,2 febbraio 2017, n. 2735). I documenti relativi alla legittimazione
Qualche considerazione va spesa in ordine alla produzione documentale tesa a dimostrare la legittimazione del ricorrente o dell'intimato. In termini generali, il ricorrente per cassazione che, nel giudizio di merito, non abbia formalmente assunto la veste di parte, è tenuto, a pena di inammissibilità dell'impugnazione, a depositare in cancelleria, ai sensi dell'art. 372 c.p.c. (anche oltre il termine previsto dall'art. 369 c.p.c., purché il relativo elenco sia notificato alle altre parti), la documentazione diretta a provare la sua legittimazione, nonché ad indicare specificamente i documenti depositati nel contesto del ricorso, ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 40/2006, così da realizzare l'assoluta precisa delimitazione del thema decidendum (v. per tutte Cass. civ., sez. VI-1, 23 novembre 2016, n. 23880: nella specie, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal successore a titolo particolare nel diritto controverso che non aveva depositato la documentazione comprovante l'intervenuta successione). L' insegnamento consente di inquadrare il tema del potere di rappresentanza. Fermo che il potere di rappresentare la parte in giudizio mediante il conferimento della procura può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito del potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, consegue che il ricorrente per cassazione che, in veste di parte formale, proponga il ricorso in qualità di procuratore speciale della parte sostanziale, deve produrre, con il ricorso ovvero ai sensi dell'art. 372 c.p.c., i documenti che giustificano la sua qualità; e in mancanza il ricorso è inammissibile ai sensi dell'art. 77 c.p.c., non essendo possibile valutare la sussistenza e i limiti del potere rappresentativo e, dunque, la facoltà di proporre ricorso per cassazione (cfr. Cass. civ., sez. II, 27 febbraio 2017, n. 4924). Peculiare è il caso del ricorso proposto in nome di società o enti, in relazione alla fattispecie di cancellazione di cui all'art. 2495 c.c. Va rammentato che, in tema di società di persone, l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con la prova che la società abbia continuato a operare pur dopo la suddetta cancellazione. Si è così affermato che il difetto di legittimazione processuale della società non può essere dedotto per la prima volta in cassazione, con produzione dell'atto di cancellazione ai sensi dell'art. 372 c.p.c., ciò comportando una non consentita introduzione di una nuova questione (in tal senso Cass. civ., sez. lav., 6 luglio 2016, n. 13792). In verità la parte che, per esempio, abbia omesso di proporre, in sede di gravame, l'eccezione relativa alla legittimazione ad appellare di una società già estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese può formulare tale eccezione, per la prima volta, davanti al giudice di legittimità. E in questo caso è certamente ammessa a produrre ivi, ai sensi dell'art. 372 c.p.c., la documentazione volta a comprovare l'estinzione della società appellante, potendo essa astrattamente costituire una causa determinativa diretta della potenziale nullità della sentenza impugnata (Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2016, n. 9334). Quel che è pacifico è che, in cassazione, al fine di evitare l'inammissibilità del ricorso, il soggetto che non è stato parte del giudizio di merito deve allegare la propria legitimatio ad causam, e fornire la dimostrazione di essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa; pertanto, ove ricorrente sia una società che assuma di derivare, per fusione o trasformazione, da altra società che aveva partecipato al giudizio, questa deve fornire la dimostrazione della sua derivazione dalla società preesistente, e tale prova è consentita anche nel giudizio di legittimità, mediante produzione documentale, da effettuarsi nei modi di cui all'art. 372 c.p.c., qualora la relativa questione sia stata sollevata per la prima volta in tale sede (per tutte Cass. civ.,sez. VI-3, 21 giugno 2017, n. 15414). La cessazione della materia del contendere
Naturalmente, per le ragioni già esposte a proposito dell'ambito applicativo dell'art. 372 c.p.c., in sede di legittimità possono prodursi documenti diretti a evidenziare la cessazione della materia del contendere. Un certo orientamento assume che in tal caso i documenti concernono proprio l'ammissibilità del ricorso per il venir meno dell'interesse alla sua prosecuzione (v. Cass. civ.,sez. lav., 23 giugno 2009, n. 14657). Tale affermazione non è esatta. La cessazione della materia del contendere postula che sopravvengano nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti. Certamente questo determina anche il venir meno dell'interesse al ricorso. Ma la composizione in tal modo della controversia giustifica non l'inammissibilità del ricorso in cassazione, che determinerebbe il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, bensì la rimozione, con pronuncia di cassazione senza rinvio, delle sentenze già emesse, in quanto prive di attualità (v. Cass. civ.,sez. I, 18 ottobre 2018, n. 26299 e prima ancora Cass. civ.,sez. V, 23 settembre 2011, n. 19533). Il che è del tutto pacifico, anche se, in termini antiformalistici, la Cassazione a volte postula che l'inefficacia della sentenza impugnata sopravvenga in tal caso a prescindere dal testuale suo annullamento. In altri termini, e in conclusione, nel caso in cui nel corso del giudizio di legittimità le parti definiscano la controversia con un accordo convenzionale, la Corte – ferma la possibilità per la parte di documentare il fatto – deve dichiarare cessata la materia del contendere, e tanto determina il venir meno dell'efficacia della sentenza impugnata, non essendo configurabile un disinteresse sopravvenuto tale da comportare in sé l'inammissibilità del ricorso (Cass. civ., Sez. Un., 11 aprile 2018, n. 8980).
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