Il tempo-tuta “compensabile” con pause retribuite

Teresa Zappia
01 Luglio 2019

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale deve ritenersi incluso nell'orario di lavoro nel caso in cui esso sia assoggettato al potere di conformazione del datore. Tuttavia, è indispensabile procedere ad una valutazione globale della disciplina osservata in seno all'organizzazione aziendale...
Massima

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale deve ritenersi incluso nell'orario di lavoro nel caso in cui esso sia assoggettato al potere di conformazione del datore. Tuttavia, è indispensabile procedere ad una valutazione globale della disciplina osservata in seno all'organizzazione aziendale, potendosi riscontrare, ove risulti che il lavoratore goda di un trattamento di miglior favore rispetto a quello normativo, una compensazione della mancata inclusione nell'orario retribuito del c.d. tempo tuta.

Il caso

I lavoratori convenivano in giudizio il datore - Teofarma s.r.l. al fine di vedere accertato il diritto degli stessi alla inclusione nell'orario di lavoro retribuito del tempo necessario ad indossare e dismettere gli indumenti necessari allo svolgimento della prestazione. Gli stessi erano infatti tenuti, sulla base di un apposito regolamento, ad indossare camice, pantaloni, calzature date in dotazione e cuffia igienica, nonché ad igienizzare le mani, dismettendo gli indumenti all'uscita, il che occupava circa 60 minuti giornalieri, sicché tale tempo avrebbe dovuto essere incluso nell'orario di lavoro, con conseguente retribuzione.

Si costituiva in giudizio la Teofarma s.r.l. chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto nel tempo impiegato per l'attività suddetta, i ricorrenti non sarebbero intenti a svolgere attività lavorativa né sarebbero a disposizione del datore, ma semplicemente presenti sul luogo di lavoro. Evidenziava inoltre l'esclusione di ogni forma di etero-direzione dal momento che la procedimentalizzazione deriverebbe non da un atto dispositivo datoriale ma dalle c.d. norme di buona fabbricazione, forgiate in ambito euro-unitario. Deduceva inoltre che i ricorrenti, godendo di una pausa giornaliera di 30 minuti, pur essendo retribuiti come se svolgessero 8 ore di lavoro, prestavano di fatto la loro attività per 7 ore e 30 minuti, sicché il tempo impiegato per il cambio di abiti, all'ingresso e all'uscita dallo stabilimento, nonostante escluso dall'orario di lavoro, sarebbe compensato dal godimento di tale pausa retribuita.

La questione

L'attività di vestizione e svestizione, la quale sia dimostrato essere oggetto di etero-direzione da parte del datore, è in ogni caso da includere nell'orario di lavoro?

Soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Pavia ha dichiarato infondato il ricorso.

La tesi della convenuta secondo la quale l'attività non sarebbe etero-diretta è stata rigettata dal giudice padovano in quanto la stessa costituiva oggetto di una specifica disciplina dettata da Teofarma, non rilevando che ciò fosse reso necessaria dalle previsioni contenute nelle direttive 2001/83/CE e 1572/2017. Opinando diversamente, le prescrizioni normative aventi come destinatario l'imprenditore, in ragione delle peculiarità dell'attività svolta, verrebbero a gravare non su quest'ultimo ma sui lavoratori dei quali lo stesso si avvale, scaricando su di essi il costo sociale della attività di impresa.

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale doveva ritenersi incluso nell'orario di lavoro se assoggettato al potere di conformazione datoriale, potendo l'etero-direzione derivare da molteplici fattori, quali l'esplicita disciplina d'impresa ovvero la natura degli indumenti, la cui funzione richiede che siano diversi da quelli utilizzati, o utilizzabili, secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento. In particolare, qualora il datore imponga il momento ed il luogo in cui tale attività deve essere eseguita, l'operazione rientrerà nel lavoro effettivo prestato dal lavoratore, con conseguente diritto alla retribuzione.

Nel caso di specie era dimostrato che i dipendenti dovevano svolgere la propria prestazione utilizzando specifici indumenti, con igienizzazione delle mani, secondo la procedura indicata dalla società-datrice. Gli stessi abiti venivano tolti all'uscita dallo stabilimento. Il Tribunale ha dunque rilevato l'integrale etero-direzione di tali operazioni, con conseguente sussistenza dei presupposti perché essa venga considerata inclusa nell'orario di lavoro. Ciononostante, i lavoratori, usufruendo di due pause giornaliere retribuite, pari a 30 minuti, risultavano godere di un trattamento di miglior favore rispetto a quello normativo, ex art. 8, d.lgs. n. 66 del 2003. Calcolato che per la vestizione/svestizione, in entrata e in uscita, erano necessari in totale 5 minuti, come confermato dalle dichiarazioni di uno dei ricorrenti, il giudice di Pavia ha ritenuto compensato il tempo che costoro ogni giorno impiegano nello svolgimento dell'attività preparatoria, dovendosi valutare non atomisticamente la mancata considerazione di quei minuti all'interno dell'orario di lavoro, ma alla luce della complessiva disciplina osservata dalla Teofarma.

Osservazioni

Un aspetto essenziale del rapporto di lavoro è certamente la stretta connessione tra la retribuzione e la prestazione lavorativa, nonché il legame indissolubile tra quest'ultima ed il concetto di orario di lavoro il quale trova oggi espressa definizione all'art. 1,d.lgs. n. 66 del 2003: esso coincide con “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. La flessibilità di una tale formula consente di ricondurre al tempo-lavoro qualsiasi attività svolta dal lavoratore che sia “a disposizione” del datore, ossia soggetto al suo potere direttivo.

Relativamente al c.d. tempo tuta non poche sono state le difficoltà rinvenute nell'affermare la possibilità o meno di includere tale arco temporale nell'orario di lavoro retribuito. Prima facie, infatti, non si rinverrebbe un effettivo svolgimento della prestazione alla quale il lavoratore è contrattualmente tenuto, bensì l'attuazione di un quid propedeutico e, dunque, funzionale alla stessa, riconducibile all'obbligo di diligenza gravante sullo stesso ai sensi dell'art. 2104, c.c.

Tuttavia, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono profuse nell'individuazione di parametri sui quali fondare la riconducibilità dell'attività di vestizione /svestizione all'orario di lavoro, facendo leva inizialmente sul nesso funzionale esistente tra gli indumenti e la prestazione lavorativa. Si sono distinte tre ipotesi: 1) la divisa costituisce un elemento distintivo di appartenenza aziendale; 2) gli indumenti consentono la protezione da rischi per la salute e la sicurezza; 3) il cambio degli abiti consente la (mera) preservazione di quelli civili dalla ordinaria usura connessa all'esecuzione dell'attività lavorativa.

Nelle prime due ipotesi appare chiaramente l'interesse primario del datore rispettivamente alla tutela dell'immagine aziendale e dell'integrità fisica del lavoratore ai sensi dell'art. 2087, c.c., sicché la suddetta attività si presenterebbe connessa in modo imprescindibile alla prestazione “principale”, costituendo una fase preparatoria indispensabile al suo espletamento. Ne conseguirebbe l'obbligo in capo al datore di retribuire il tempo necessario all'espletamento di tali operazioni.

Sulla questione oggi risulta prevalere, piuttosto che la funzione dell'indumento in sé, la predeterminazione spazio-temporale dell'attività di vestizione/svestizione, ciò manifestando un evidente esercizio del potere conformativo da parte del datore. In tale ipotesi, il “tempo-tuta” non potrebbe che includersi nell'orario di lavoro essendo il dipendente sottoposto al potere datoriale di direzione e controllo, in linea con quanto indicato all'art. 1, d.lgs. n. 66 del 2003. Ciò è da escludere, invece, qualora il lavoratore sia “libero in causa”, ossia possa autonomamente determinarne il tempo ed il luogo in cui procedere all'operazione, da ricondurre agli atti di diligenza preparatoria, strumentali allo svolgimento dell'obbligazione principale, e pertanto non retribuita (ex plurimis: Cass., sez. lav., 7 giugno 2012, n. 9215; Cass., sez. lav., 8 aprile 2011, n. 8063; Cass., sez. lav., 25 giugno 2009, n. 14919).

Ad ogni modo, non sono mancate voci dissonanti: considerati il carattere strumentale della vestizione e gli effetti derivanti dall'inadempimento di tale attività accessoria, il lavoratore sarebbe, in un certo qual modo, privato da parte del datore del tempo occorrente per indossare la divisa. Di fatto egli non manterrebbe la disponibilità di tale periodo, e ciò a prescindere dalla circostanza che la divisa venga indossata presso la propria abitazione o sul luogo di lavoro, essendo essa, e non un altro indumento, essenziale per la prestazione lavorativa.

La sentenza in esame ha dato rilievo alla predeterminazione da parte del datore di una specifica disciplina dell'attività di vestizione/svestizione, alla quale ricorrenti erano tenuti sia in ingresso che uscita dalla sede lavorativa, escludendo qualsivoglia rilievo alle precauzioni disposte dal legislatore (nazionale e sovra-nazione) in ragione delle peculiarità dell'attività imprenditoriale confermando che, in assenza di regolamentazione normativa o negoziale, il discrimen è individuato nella soggezione al potere organizzativo e direttivo datoriale.

Il Tribunale di Pavia, però, non arresta qui il proprio esame. Adottata una prospettiva globale della disciplina del rapporto di lavoro, si rilevava il godimento da parte dei lavoratori di due pause giornaliere, dagli stessi gestibili in autonomia, il che ne comporterebbe l'esclusione dall'orario di lavoro. Tuttavia la retribuzione viene garantita anche per tali interruzioni, riscontrandosi un trattamento più favorevole per il dipendente rispetto a quello previsto in via normativa. Determinata la durata delle operazioni di vestizione/svestizione, adottando un'ottica compensativa, il giudice padovano ha dichiarato che il riequilibrio della posizione dei ricorrenti, verrebbe garantito dalla retribuzione delle pause giornaliere, di durata maggiore rispetto al tempo occorrente per l'espletamento delle operazioni preparatorie in entrata ed uscita.

Una tale prospettiva si presenta in linea con la disciplina generale in punto di interpretazione del contratto, e nello specifico con gli artt. 1362 e 1363, c.c.: la ricerca ermeneutica si sdoppia in due aspetti poiché si rivolge alla lettera ed illumina le varie frasi mediante un confronto sistematico. Il significato rilevante è quello verificato alla stregua del testo contrattuale, nel suo insieme, e al contegno assunto dai contraenti, non invece sulla base della singola clausola isolatamente considerata. L'attività ermeneutica non può che partire dalla singola parte, ma l'interprete dovrà procedere considerando progressivamente il regolamento nel suo complesso, sino a giungere al risultato “corretto”.

Il ristabilimento dell'equilibrio delle posizioni delle parti, d'altronde, non è nuovo nell'ambito del diritto del lavoro, sub specie dell'orario lavorativo, non essendo certamente sconosciuta quella giurisprudenza, in tema di riposi del lavoratore turnista, fondata sull'individuazione, nella contrattazione collettiva e individuale, di meccanismi compensativi diretti a garantire un trattamento complessivo adeguato, rifuggendo invece valutazioni atomistiche. Nel caso di specie, la mancata retribuzione del tempo occorrente per la vestizione/svestizione, da includere nell'orario di lavoro, verrebbe de facto compensata dalla previsione contrattuale di pause retribuite, nonostante tali intervalli interruttivi della prestazione lavorativa non siano normativamente inclusi nel tempo-lavoro.

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