Illegittimità della cessione di ramo d'azienda e diritto alla retribuzione

Sabrina Apa
01 Luglio 2019

Ai fini della condanna del datore di lavoro ad un facere infungibile (come il ripristino del rapporto di lavoro), ciò che rileva è l'operatività della pronuncia nell'ambito del possibile giuridico e non già in quello diverso del possibile materiale, estrinsecandosi l'effetto imperativo della decisione nel legittimare il lavoratore ad offrire la propria prestazione lavorativa esclusivamente con quelle modalità che la controparte è condannata ad accettare e "con la conservazione del diritto alla retribuzione anche nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi alla condanna medesima"...

Ai fini della condanna del datore di lavoro ad un facere infungibile (come il ripristino del rapporto di lavoro), ciò che rileva è l'operatività della pronuncia nell'ambito del possibile giuridico e non già in quello diverso del possibile materiale, estrinsecandosi l'effetto imperativo della decisione nel legittimare il lavoratore ad offrire la propria prestazione lavorativa esclusivamente con quelle modalità che la controparte è condannata ad accettare e «con la conservazione del diritto alla retribuzione anche nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi alla condanna medesima».

Sulla base di questi principi di diritto e degli stessi insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, valutati nella loro rilevante portata sistematica, deve concludersi nel senso che, a seguito della sentenza di merito, pure di primo grado, con cui venga dichiarata l'illegittimità della cessione del ramo d'azienda e venga ordinata la riammissione in servizio dei dipendenti ceduti, pur non suscettibile di esecuzione forzata (trattandosi di un facere infungibile), sorge pur sempre il diritto di costoro alla retribuzione, rimasto inadempiuto pur a seguito dei pagamenti compiuti dal cessionario ex art. 2126, c.c.

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