Richiesta del certificato penale e del certificato carichi pendenti ai fini della assunzione
02 Luglio 2019
Abstract
L'esistenza di un procedimento penale in corso può essere considerato un fatto “rilevante ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore”, ai sensi dell'art. 8 dello Statuto dei lavoratori?
La recente giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla delicata questione, nel tentativo di operare un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza del lavoratore e il legittimo interesse del datore all'acquisizione delle informazioni utili per stabilire la competenza ed affidabilità del personale da assumere. Premesse
A quasi cinquant'anni dall'emanazione dello Statuto dei lavoratori alcune pronunce giurisprudenziali (Cass. 11 marzo 2019, n. 6951; Cass. 15 novembre 2018, n. 29423; Cass. 10 ottobre 2018, n. 25085; Cass. 12 settembre 2018, n. 22173; Cass. 17 luglio 2018, n. 19012) offrono l'occasione per un'ampia riflessione sulla tutela del diritto alla riservatezza dell'aspirante lavoratore, di cui all'art. 8, st. lav.
In modo particolare, le citate sentenze si soffermano su un punto particolarmente delicato: è legittima la richiesta datoriale di produrre il c.d. certificato carichi pendenti ai fini assunzionali?
L'esistenza di un procedimento penale in corso può essere considerato un fatto “rilevante ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore”?
Qual è il confine tra il diritto alla riservatezza del lavoratore e l'interesse datoriale ad acquisire più informazioni possibile per valutare la competenza e l'affidabilità del candidato da assumere? Differenza tra certificato penale e certificato carichi pendenti
Il testo unico in materia di casellario giudiziale (d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313) distingue, fin dal primo articolo, il casellario giudiziale tout court (art. 3, d.P.R. n. 313 del 2002, cit.) dal casellario dei carichi pendenti (art. 6, d.P.R. n. 313 del 2002). Di conseguenza, disciplina separatamente i relativi certificati (rispettivamente, artt. 25 e 27, d.P.R. n. 313 del 2002) e la procedura di richiesta.
Nel primo caso, si tratta dell'iscrizione di “provvedimenti giudiziari penali di condanna definitivi”, quindi di reati commessi ed accertati giudizialmente; nel secondo caso si tratta di provvedimenti giudiziari con i quali un soggetto assume la “qualità di imputato” e, pertanto, in base alla presunzione di innocenza di cui all'art. 27, comma 2, Cost., presumibilmente gli eventi addebitati non si sono verificati.
In passato, il comma 2 dell'art. 607, c.p.p., ora abrogato, abilitava il datore di lavoro a richiedere il certificato penale per ragioni di assunzione, subordinando, però, la richiesta all'indicazione di un legittimo interesse. Oggigiorno, salvo il caso previsto dall'art. 25-bis, d.P.R. n. 313 del 2002, per l'assunzione di lavoratori “per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori”, il datore di lavoro non può fare direttamente richiesta al casellario giudiziale del certificato penale del lavoratore. Interazioni con la normativa europea in materia di privacy
Trattandosi di dati di carattere personale, soltanto il diretto interessato può acquisire il certificato penale e ciò risponde alle tutele previste dalla normativa vigente in materia di privacy. Tali dati, infatti, devono essere trattati “in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”, come prevede il comma 2 dell'art. 8, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Il recente reg. UE n. 2016/679, sulla protezione delle persone fisiche in riferimento al trattamento dei dati personali, dedica l'art. 10, reg. UE n. 2016/679, ai c.d. dati giudiziari, concernenti condanne penali e reati, e stabilisce che il trattamento avvenga soltanto sotto il controllo dell'autorità pubblica e secondo garanzie appropriate per i diritti e le libertà degli interessati. È evidente, infatti, che tali dati siano particolarmente delicati e la loro diffusione potrebbe non solo vulnerare la riservatezza dell'interessato, ma addirittura costituire uno strumento di “ghettizzazione” sociale (per un approfondimento giurisprudenziale sul c.d. diritto all'oblio, v. Cass. 20 marzo 2018, n. 6919; Cass. 24 giugno 2016, n. 13161; Cass. 26 giugno 2013, n. 16111; Cass. 5 aprile 2012, n. 5525).
La conoscenza dell'esistenza di dati giudiziari rende sicuramente meno allettante per il datore di lavoro l'aspirante lavoratore e, al tempo stesso, rischia di ostacolare il processo di reinserimento nella società, di cui il lavoro costituisce, senz'altro, un elemento fondamentale.
Il reg. UE 2016/679, inoltre, prevede espressamente che i dati personali siano “raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime” (art. 5, comma 1, lett. b, reg. UE n. 2016/679) e che siano “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati” (art. 5, comma 1, lett. c), reg. UE n. 2016/679). L'art. 8 dello Statuto dei lavoratori, rubricato “divieto di indagini sulle opinioni”, stabilisce che “È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore”.
Dottrina e giurisprudenza, nel corso del tempo, hanno interpretato la norma come una tendenza alla “spersonalizzazione” del rapporto di lavoro e come una delimitazione del potere di controllo datoriale ai soli fatti e comportamenti personali del dipendente (o aspirante tale) che abbiano una concreta connessione con le specifiche mansioni dedotte in contratto. In tale prospettiva, allo scopo di salvaguardare il diritto alla riservatezza del lavoratore, è stato ritenuto ammissibile “indagare” su fatti – come il titolo di studio o la sussistenza di precedenti penali – o addirittura su opinioni – sindacali, politiche, religiose – nel caso fossero rilevanti al fine di valutare l'attitudine professionale del lavoratore, cioè la sua idoneità e prontezza all'adempimento. Quindi, l'incidenza di tali informazioni varia a seconda dell'intensità della fiducia richiesta e, quindi, della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono. In pratica, tutto ruota attorno alle mansioni che dovranno concretamente essere affidate al lavoratore.
In particolare, la richiesta datoriale del certificato relativo ai precedenti penali del dipendente è considerata legittima nella misura in cui sia ragionevolmente necessario subordinare l'assegnazione di determinate mansioni allo stato di incensuratezza del lavoratore in virtù della peculiarità dell'attività da svolgere (Cass. 29 novembre 1999, n. 13354; Cass. 30 marzo 1998, n. 3343; Trib. Milano 8 maggio 1982; Pret. Milano 17 giugno 1980). In conclusione
In base a tali argomentazioni la giurisprudenza ha negato la sussistenza di un aprioristico obbligo dell'aspirante prestatore di lavoro di informare il datore della propria situazione penale (Trib. Milano 9 aprile 2008), salvo il caso di un'espressa previsione del contratto collettivo (v., ad esempio, l'art. 33, CCNL per il personale dipendente delle Aziende di credito, sottoscritto in data 11 luglio 1999, oppure l'art. 19, CCNL personale non dirigente Poste Italiane 2003-2006), che faccia riferimento al particolare vincolo fiduciario richiesto dalle mansione assegnate.
Come ha opportunamente evidenziato il Garante per la protezione dei dati personali, nel provvedimento 22 maggio 2018, n. 314, il mero “rinvio al contratto collettivo nazionale di lavoro” non è sufficiente “laddove si limita a prevedere la possibilità di acquisire dati giudiziari indipendentemente dal tipo di mansioni svolte dal dipendente”.
E se tale attenzione è richiesta per il certificato penale, ancora più delicata è la questione del certificato carichi pendenti, in virtù della presunzione di innocenza, costituzionalmente garantita.
Queste conclusioni rispecchiano l'essenza dell'art. 8, st. lav.: se, infatti, le indagini venissero svolte su fatti o comportamenti irrilevanti ai fini del rapporto di lavoro, sarebbe concreto il rischio di vulnerare la riservatezza del lavoratore in quanto “persona”.
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