Errori nella redazione del ricorso in Cassazione e conseguenze in tema di responsabilità aggravata

04 Luglio 2019

Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte si è occupata della violazione del principio di autosufficienza nella redazione del ricorso in Cassazione e della conseguenze in tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c.
Massima

Sussiste la responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c. nei casi di palese violazione dell'art. 366 c.p.c., che si traduce in errore grossolano - di regole di redazione dell'atto introduttivo che non possono essere ignorate da un difensore.

Il caso

Un contribuente ricorreva alla commissione tributaria regionale chiedendo l'ottemperanza agli obblighi derivanti da una sentenza emessa dalla giudice tributario, passata in giudicato. La commissione tributaria accoglieva il ricorso, ordinando all'agente della riscossione di provvedere al pagamento immediato delle somme richieste dal contribuente. L'Agente di riscossione proponeva ricorso per cassazione. I giudici di legittimità hanno dichiarato il ricorso inammissibile per violazione dell'art. 366 comma 1, n. 3 e 4, c.p.c., non avendo il ricorrente specificato il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, senza indicazione dei fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l'atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza. Dalla declaratoria di inammissibilità è conseguita la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., traducendosi in errore grossolano – di regole di redazione dell'atto introduttivo che non possono essere ignorate da un difensore.

La questione

La questione in esame è la seguente: quando può essere adottata una condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c.?

Le soluzioni giuridiche

Con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione si conforma al principio, in forza del quale il ricorrente – e, per lui, il suo legale, del cui operato il primo risponde verso la controparte processuale ex art. 2049 c.c. – risponde ex art. 96, comma 3, c.p.c., nei casi cui non si sia adoperato con la exacta diligentia esigibile in relazione ad una prestazione professionale altamente qualificata come è quella dell'avvocato, in particolare se cassazionista.

Come noto, l'art. 385, comma 4 c.p.c., prevedeva che «quando pronuncia sulle spese (...) la Corte, anche d'ufficio, condanna (...) la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave».

Tale norma è stata infatti aggiunta dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 e, per espressa previsione dell'art. 27, comma 2, del medesimo decreto, si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo, avvenuta il 2 marzo 2006.

L'art. 385 c.p.c., comma 4, è stato abrogato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20.

Tuttavia, per espressa previsione della stessa l. n. 69/2009, art. 58, «le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile (...) si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore», vale a dire dopo 4 luglio 2009.

V'è solo da aggiungere, che il precetto già contenuto nell'art. 385 c.p.c., comma 4, per i giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009 non è stato soppresso, ma semplicemente trasferito dell'art. 96, comma 3 c.p.c., come novellato dalla citata l. n. 69/2009, art. 45, comma 12.

Scelta, quest'ultima, la quale palesa la evidente volontà del legislatore non solo di tenere fermo il principio medesimo, ma anzi di rafforzarlo, spostando la relativa previsione in una disposizione di carattere generale ed applicabile a qualsiasi tipo di giudizio.

Agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave vuol dire azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione.

Per la Corte di cassazione ha riconosciuto funzione sanzionatoria alla condanna per lite temeraria prevista dalla norma testé richiamata, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell'abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei "danni punitivi" che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.

Al riguardo, è stato affermato che la condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2 c.p.c., e con queste cumulabile, volta al contenimento dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. civ., n. 27623/2017) e cioè nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.

Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto volto a valorizzare la sanzione prevista dalla norma, secondo il quale nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei "risarcimenti punitivi" (Cass. civ., Sez. Un., n. 16601/2017): nella motivazione della sentenza richiamata, l'art. 96, ult. comma c.p.c., è stato inserito nell'elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.

Invero, ai fini della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c., è stato affermato che costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici, o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata (Cass. civ., n. 29462/2018).

In relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., può costituire abuso del diritto all'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter, ult. comma c.p.c., che ne esclude la invocabilità.

In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione (Cass. civ., n. 5725/2019).

Osservazioni

Sussistono i presupposti della responsabilità aggravata, a norma dell'art. 96, comma 3 c.p.c., quante volte il ricorrente agisce con colpa grave, proponendo un ricorso fondato su argomentazioni palesemente inammissibili.

Da ciò deriva che delle due l'una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l'insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l'ordinamento non può consentire); ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176 c.c., art. 45, comma 12) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare.

In casi del genere, il ricorso deve ritenersi tanto erroneo da non essere compatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l'accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 Cedu) e, dall'altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie: in tale contesto, il giudice di legittimità intende valorizzare la sanzionabilità dell'abuso dello strumento giudiziario (Cass. civ., n. 10177/2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., n. 12310/2015) e consentire l'accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti (Cass. civ., n. 10327/2018).

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