Disdetta del contratto collettivo nei confronti dei lavoratori cessati: aspettative e diritti quesiti

11 Luglio 2019

Non avendo mai trovato applicazione il regime di registrazione dei sindacati previsto dall'art. 39, Cost., le clausole collettive sono applicabili al singolo contratto di lavoro per relationem, cioè se e in quanto richiamate dal contratto individuale.I lavoratori cessati (e i loro superstiti) hanno acquisito in tal modo il diritto di godere della agevolazione in questione per il periodo successivo alla conclusione del rapporto lavorativo; mentre la revoca dell'Azienda è fondata su una disdetta unilaterale, poi trasfusa in accordo sindacale. Tale atto, tuttavia, è intervenuto in un momento in cui i ricorrenti erano già stati collocati a riposo e il loro contratto individuale di lavoro era venuto meno: in mancanza di una specifica adesione da parte degli interessati, quindi, l'accordo sindacale citato rimane res inter alios acta, inidoneo ad incidere negativamente sulla loro sfera giuridica.
Il caso

In applicazione della regolamentazione collettiva per cessati e superstiti, vigente nel corso del rapporto di lavoro e al momento della collocazione a riposo, i ricorrenti avevano usufruito di una riduzione pari all'80% sulle tariffe di vendita di energia elettrica per uso familiare.

Il 12 ottobre 2015, l'Azienda presso la quale erano impiegati al momento del pensionamento, effettuava disdetta a tale contrattazione collettiva e, a far data dal successivo gennaio 2016, i ricorrenti venivano privati della citata agevolazione tariffaria.

Gli ex lavoratori, ritenendo che la disdetta non avesse alcun effetto nei loro confronti, agivano in giudizio per conseguire il ripristino della agevolazione, nonché il risarcimento delle somme in eccesso già versate.

Le questioni

Il caso di specie ha ad oggetto l'accertamento dell'efficacia della disdetta dal contratto collettivo nei confronti dei lavoratori cessati dal servizio (e dei loro superstiti).

La risposta, dal punto di vista teorico, pare semplice e immediata: è ormai principio consolidato e pacifico quello per cui le modificazioni “in peius” della disciplina contrattuale applicabile al lavoratore derivanti da disdetta unilaterale (così come dalla successione di accordi collettivi), siano del tutto lecite fatti salvi i diritti quesiti.

Parimenti semplice ed immediata pare anche la definizione di “diritto quesito”. Con simile locuzione si identificano i diritti già maturati ed entrati nel patrimonio dei lavoratori.

Il diritto quesito si distingue dalla mera “aspettativa” di un beneficio non entrato nel patrimonio del lavoratore, sempre soggetto al potere modificativo del sindacato.

Tuttavia, nella pratica, la distinzione fra “aspettativa” e “diritto quesito” si rivela decisamente più complessa. E, se ricercata nell'ambito di un rapporto di lavoro cessato, si rivela altresì di difficile soluzione, andandosi a intrecciare ad una serie di altre questioni mai compiutamente risolte, discendenti dalla mancata attuazione dell'art. 39, Cost., e dalla peculiare disciplina di efficacia dei contratti collettivi “di diritto comune

Le soluzioni giuridiche

Sulla questione in esame, ossia la possibile riconducibilità alla nozione dei “diritti quesiti” dei diritti dei lavoratori derivanti da contratto collettivo vigente alla cessazione del rapporto di lavoro, la giurisprudenza è divisa.

Secondo alcune pronunce occorre scrutinare la natura retributiva, o meno, del beneficio concesso, muovendo dall'assunto – in estrema sintesi – per cui solo un diritto retributivo può divenire “diritto quesito” . Attraverso tale filtro di lettura il beneficio in questione non darebbe luogo a “diritti quesiti” e dunque sarebbe revocabile ad opera di contrattazione collettiva successiva. Il beneficio difatti rappresenterebbe solo una sorta di “estensione” dei benefici accordati ai lavoratori in servizio e sarebbe concesso in assenza di alcuna proporzionalità rispetto al lavoro (a suo tempo) svolto (Cass. 20 agosto 2009, n. 18548). Ciò è tanto più vero se si considera, peraltro, che il beneficio de quo non incide in alcun modo su istituti retributivi contrattuali quali tredicesima, quattordicesima o T.F.R. (Tribunale Milano 29 dicembre 2016, n. 2953).

In altre pronunce la questione è stata indagata ancor più in radice: ancor prima di valutare la natura del beneficio, esse prendono piuttosto in considerazione la sussistenza – o meno – di un potere di rappresentanza dei lavoratori cessati in capo al sindacato sottoscrittore del contratto collettivo successivo.

Così inquadrata la questione, è negata la possibilità di modifica o revoca dei benefici concessi ai lavoratori cessati in quanto il sindacato ha unicamente potere di rappresentanza dei lavoratori in forza. Ciò sia in quanto alla cessazione del rapporto lavorativo consegue la revoca del mandato di rappresentanza conferito all'associazione, sia in quanto nelle stesse regole statutarie i sindacati rappresentano i lavoratori attivi ma non si impegnano a contrarre alcun patto a favore (o contro) gli interessi di terzi, ancorché questi avessero avuto in passato con esse un rapporto associativo (si v. in particolare Cass. 25 giugno 1988, n.4323).

Seguendo tale ragionamento, le modifiche peggiorative ai benefici concessi ai lavoratori cessati sarebbero pertanto possibili unicamente se negoziate da un sindacato “dei pensionati”. Ipotesi, tuttavia, se non addirittura teorica, sicuramente poco frequente nella pratica.

Tale argomentazione incontra un grande limite. Da tempo si afferma che, accogliendola in pieno si finirebbe per ammettere la sussistenza di un rapporto contrattuale non modificabile nemmeno dalle parti sottoscrittrici comportante un vincolo perpetuo in capo al datore di lavoro.

Questo aspetto è stato compiutamente affrontato dalla Cass. 20 agosto 2009, n. 18548, la quale ha affermato il principio per cui “il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina da sempre è modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà sociale in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all'esigenza di evitare […] la perpetuità del vincolo obbligatorio”.

La sentenza annotata – che si inserisce nel filone interpretativo volto a valorizzare l'assenza del potere rappresentativo in capo ai sindacati dei lavoratori – replica a tale osservazione frettolosamente. Da un lato, afferma che non può parlarsi di vincolo perpetuo in quanto l'agevolazione “rimane temporalmente contenuta nella durata della vita dell'avente diritto (pensionato o superstite che sia)”; dall'altro, sottolinea come la disdetta unilaterale sia stata recepita in un accordo e, dunque, si sostanzi comunque in una modifica contrattuale intervenuta in sede sindacale.

Osservazioni

Come anticipato supra la vicenda in questione tocca diversi nervi scoperti del sistema sindacale italiano. Dall'efficacia soggettiva dei contratti collettivi di lavoro; ai poteri di rappresentanza sindacale; alla successione di regolamentazione collettiva; alla validità della disdetta, e così via.

Tutti problemi che, come è noto, potrebbero essere risolti, in via definitiva, solo da un intervento di legge.

In assenza di ciò, appare condivisibile, a parere di chi scrive, l'osservazione effettuata della sentenza che si annota per cui i “grandi temi” del diritto sindacale non sono stati compiutamente affrontati dal punto di vista dei soggetti non più titolari di alcun contratto di lavoro.

La sintetica motivazione della sentenza annotata, permette di sviluppare la seguente riflessione.

La distinzione fra “diritti quesiti” e “aspettative” e dunque, per quanto di interesse in questa sede, lo scrutinio circa la natura retributiva del beneficio, ha una sua solida validità per i lavoratori in forza. Ma ciò è vero in ragione del fatto che sono i rappresentanti degli stessi lavoratori a modificare, ancorché in peggio, la posizione giuridica dei loro rappresentati. Tale modifica in peius si inserisce nell'ambito di trattative più ampie e – in ipotesi – potrebbe anche essere compensata con vantaggi diversi incidenti sul rapporto di lavoro in essere (ad esempio, essere accettata a fronte di un aumento retributivo più vantaggioso).

Persino nell'ipotesi di disdetta unilaterale nell'ambito di una rottura sindacale i poteri dei lavoratori in forza differiscono da quelli dei lavoratori cessati. Ai primi è concessa l'arma dello sciopero, mentre i pensionati non hanno alcun potere di reazione o pressione nei confronti del datore di lavoro.

Nei loro confronti il beneficio diverrebbe una sorta di “obbligazione naturale” cui è vincolato il datore sino a che lo desidera, mentre il ricevente sarebbe privo di qualsiasi arma a tutela della stessa.

La sentenza annotata pone in luce come tradizionale dicotomia fra “aspettative” e “diritti quesiti” sia in effetti fragile nei confronti dei lavoratore cessati, andando a rafforzare l'orientamento che fa leva sull'assenza di rappresentanza in capo ai sindacati stipulanti l'accordo modificativo.

Appare in effetti persuasiva la tesi, espressa nella sentenza commentata, per cui la loro modifica dovrebbe avvenire a seguito di una “dinamica sindacale” opponibile al lavoratore pensionato.

Sotto questa ottica ci si dovrebbe interrogare se la modifica, per aver efficacia, non debba essere contrattata da sindacati dei pensionati o comunque ratificata dai lavoratori pensionati. Appare logico che difficilmente sarà “a costo” zero per il datore di lavoro, del resto però anche la revoca di una “aspettativa” nell'ambito di contratti di lavoro in essere comporta solitamente una contropartita.

Cionondimeno, non può dirsi ancora superata la tradizionale critica mossa all'orientamento giurisprudenziale entro cui la pronuncia annotata si inserisce.

Rimane senza soluzione, nell'ottica della “dinamica sindacale”, il caso limite per cui o il sindacato dei pensionati – o il pensionato – non intendano trattare. In tale ipotesi l'ex datore non riuscirebbe, in effetti, a svincolarsi da un vincolo perpetuo divenuto insostenibile.

Innanzitutto non si condivide la tesi per cui i benefici in questione non sarebbero “vincoli perpetui” poiché limitati alla durata della vita del beneficiario. Si tratta comunque di un imprecisato periodo temporale, potenzialmente molto lungo.

In assenza di intervento legislativo, o anche di normazione sindacale, non sembrano esservi soluzioni che permettano al datore di lavoro la modifica dei benefici concessi ai lavoratori cessati, nella salvaguardia del diritto del pensionato ad essere rappresentato.

In conclusione, ad avviso di chi scrive, la sentenza annotata pone in luce con nuova forza i problemi della “relatività del contratto collettivo”, che rimane res inter alios acta rispetto ai lavoratori pensionati.

Tuttavia la questione pare ben lungi dal trovare una soluzione soddisfacente.

Cfr.: A. Sartori, Aspettative e diritti quesiti nella successione tra contratti collettivi: un cammino giurisprudenziale ancora zoppicante, Riv. it. dir. lav., 2010, 931 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.