Le note di variazione in diminuzione IVA nella cessione del credito vantato nei confronti di un soggetto fallito

17 Luglio 2019

Con la risposta n. 91 del primo aprile 2019, fornita a seguito alla presentazione di un'istanza di interpello, l'Agenzia delle Entrate si è occupata della problematica relativa alle note di variazione IVA da emettere in caso di cessione di un credito, con la formula “pro -solvendo”, vantato nei confronti di un soggetto dichiarato fallito.
Premessa

Con la risposta n. 91 del primo aprile 2019, fornita a seguito alla presentazione di un'istanza di interpello, l'Agenzia delle Entrate si è occupata della problematica relativa alle note di variazione IVA da emettere in caso di cessione di un credito, con la formula “pro -solvendo”, vantato nei confronti di un soggetto dichiarato fallito.

In particolare, a seguito della dichiarazione di fallimento della società debitrice, il cessionario del credito si è insinuato nel relativo passivo. La società cedente (ed instante) ha chiesto se, nel caso concreto, potesse emettere note di variazione in diminuzione dell'Iva ex art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, al fine di recuperare l'Iva originariamente assolta;in subordine, se tale imposta potesse essere oggetto di richiesta di rimborso ai sensi dell'art. 30-ter del d.P.R. n. 633 del 1972 o, in via ulteriormente subordinata, oggetto di istanza di rimborso cosiddetto "anomalo" ex art. 21 del D.lgs. n. 546 del 1992.

La richiesta di parere è stata presentata in quanto, con la risoluzione del 5 maggio 2009, n. 120, l'Agenzia delle Entrate ha precisato che il cedente potrebbe emettere la nota di variazione IVA solamente nel caso in cui lo stesso si sia insinuato al passivo del fallimento prima di aver ceduto il credito. Diversamente l'originario cedente/prestatore non avrebbe più alcun titolo a disposizione per insinuarsi nel fallimento del debitore e per emettere, quindi, alla chiusura del fallimento la nota di variazione. Inoltre, è stato precisato che sarebbe necessario, altresì, che il cedente rimanga parte processuale del fallimento, ossia che non vi sia estromissione del medesimo da parte del cessionario.

Con la risposta del 2019 in commento, l'Agenzia delle Entrate ha precisato che, nel caso in oggetto, dove il credito è stato ceduto “pro solvendo”, al contrario della fattispecie esaminata dieci anni prima, dove la cessione era avvenuta “pro soluto”, il cedente ha la facoltà di emettere la nota di variazione IVA, anche nell'ipotesi in cui l'insinuazione al passivo sia stata richiesta da un soggetto diverso (il cessionario).

Tale conclusione sarebbe giustificata dal fatto che, se con la chiusura del fallimento l'infruttuosità della procedura è formalmente accertata in via definitiva in capo al soggetto che si è insinuato nel passivo, sotto il profilo sostanziale i suoi effetti si riverberano in capo al cedente che, appunto, con la cessione pro solvendo è responsabile dell'inadempimento del debitore.

In caso contrario, come sostenuto da parte interpellante, si rischierebbe di generare "una sostanziale violazione del principio comunitario di neutralità dell'imposta".

Del resto, come precisato dall'Agenzia delle Entrate, ciò che conta non è tanto la modalità con cui si manifesta la causa della variazione dell'imponibile e dell'IVA, quanto piuttosto che della variazione e della sua causa si effettui registrazione ai sensi degli articoli 23, 24, e 25 del DPR n. 633 del 1972. Occorre, altresì, che vi sia, da un lato, identità tra l'oggetto della fattura e la registrazione originaria e, dall'altro, l'oggetto della registrazione della variazione, in modo che sia palese la corrispondenza tra i due atti contabili (Risposta interpello Agenzia Entrate del 19.3.2019 n. 77).

Prima di procedere ad esaminare la normativa IVA, è opportuno soffermarsi brevemente sulla disciplina civilistica della cessione dei crediti.

Brevi cenni alla normativa civilistica relativa alla cessione dei crediti

Come ricordato dall'Agenzia delle Entrate riguardo la cessione del credito, con tale contratto il creditore trasferisce il suo credito ad un terzo (art. 1260 c.c. ss.). Sul piano della struttura, quindi, la cessione del credito determina una successione a titolo particolare: un nuovo creditore si sostituisce al precedente titolare, mentre l'obbligazione resta inalterata in tutti gli altri suoi elementi.
Inoltre, ai sensi dell'art. 1267 c.c., in caso di cessione del credito a titolo oneroso, il cedente, pur dovendo garantire l'esistenza del credito al momento della cessione, non risponde della solvenza del debitore. Ne consegue che in questa ipotesi il cedente è liberato nel momento in cui cede il credito al cessionario (cessione pro soluto).

Il cedente, tuttavia, può assumere la garanzia della solvibilità del credito rispondendo così dell'inadempimento del debitore ceduto (cessione pro solvendo). Sotto questo profilo, il citato art. 1267 c.c. precisa che "Quando il cedente ha garantito la solvenza del debitore, la garanzia cessa, se la mancata realizzazione del credito per insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario nell'iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore stesso".

Si ricorda, inoltre, che la cessione dei crediti relativi all'impresa, effettuata da un imprenditore nei confronti di un cessionario banca o intermediario finanziario è regolata dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52.

In breve, tale normativa prevede che, salvo che il cessionario vi rinunci, il credito è ceduto con la garanzia del cedente, entro i limiti di quanto incassato come pagamento del corrispettivo di cessione, sulla solvenza del debitore ceduto.

Inoltre, fatta salva la possibilità del cessionario di rendere opponibile a terzi la cessione secondo quanto stabilito dalle norme del Codice Civile, la cessione è opponibile a terzi solo se il cessionario ha pagato, almeno in parte, il corrispettivo di cessione e se il pagamento ha data certa. Per terzi si intendono: il fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento; il creditore del cedente che ha pignorato il credito dopo la data di pagamento; gli altri aventi causa del cedente se il titolo di acquisto non è stato reso efficace verso i terzi prima del pagamento.

Viene anche stabilito che la cessione di crediti non è soggetta all'art. 67 della Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267). Pertanto, il pagamento del debitore ceduto al cessionario non è soggetto a revocatoria ma tale azione può essere proposta nei confronti del cedente se la curatela fallimentare prova che il cedente conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto al momento del pagamento (da quest'ultimo effettuato) al cessionario. É fatta salva la rivalsa del cedente verso il cessionario che abbia rinunciato alla garanzia di cui sopra.

Infine, è stabilito che l'efficacia della cessione viene meno se il curatore fallimentare del cedente prova che il cessionario era a conoscenza dello stato di insolvenza del cedente stesso e se il pagamento del corrispettivo è effettuato nell'anno anteriore alla sentenza di fallimento. Al curatore del cedente viene inoltre data la facoltà di recedere dalle cessioni effettuate dal cedente stesso per quei crediti non ancora sorti alla data del fallimento. In questo caso la curatela è tenuta alla restituzione del corrispettivo già pagato dal cessionario.

Il quadro normativo IVA

Si deve ricordare che le variazioni dell'IVA dovuta sono regolate dall'articolo 26 del D.P.R. n. 633/1973.

Le principali fattispecie che consentono l'emissione delle note di variazione in diminuzione sono le seguenti:

  • dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili (art. 26, co. 2, primo periodo del DPR 633/72);
  • mancato pagamento del corrispettivo da parte del cessionario o committente, a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose (art. 26, co. 2, secondo periodo del DPR 633/72);
  • applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente (art. 26, co. 2, terzo periodo del DPR 633/72);
  • rettifica di inesattezze della fatturazione (art. 26, co. 3 del DPR 633/72);
  • risoluzione contrattuale, relativa a contratti a esecuzione continuata o periodica, conseguente a inadempimento di una delle due parti; tipicamente, il mancato pagamento del corrispettivo da parte del cessionario o committente (art. 26, co. 9 del DPR 633/72). In merito si ricorda che l'Agenzia delle Entrate ritiene che, laddove le parti abbiano pattuito una clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.) e il fornitore si avvalga della suddetta clausola per "supposto" mancato adempimento della controparte che contesta l'addebito in sede giudiziale, l'emissione della nota di variazione in diminuzione sia subordinata all'esito del giudizio (principio di diritto del 2.4.2019 n. 13).

In particolare, il secondo comma sancisce che è possibile operare una variazione in diminuzione quando un'operazione, per la quale sia stata emessa fattura e sia stata registrata secondo gli artt. 23 e 24, venga meno o se ne riduca l'ammontare imponibile a causa della dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, oppure in conseguenza dell'applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, oppure per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sensi dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del medesimo regio decreto n. 267 del 1942 (di seguito anche legge fallimentare), pubblicato nel registro delle imprese o in conseguenza dell'applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente.

Il terzo comma prevede anche che gli eventi sopraindicati possano verificarsi in dipendenza di un sopravvenuto accordo fra le parti. In tali casi, la variazione deve essere registrata entro un anno dall'effettuazione dell'operazione imponibile.

Secondo l'Agenzia delle Entrate, la nota di variazione deve essere emessa, al più tardi, entro i termini per l'esercizio della detrazione IVA ex art. 19, co. 1 del DPR 633/72, vale a dire entro la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno in cui si è verificato il presupposto per operare la variazione in diminuzione (Circolare n. 1/E/2018).

È stato, infatti, chiarito che "le variazioni possono essere effettuate senza limiti temporali, anche se il diritto alla detrazione dell'imposta può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui si verifica il presupposto per operare la variazione in diminuzione" (risoluzione n. 89/E del 18 marzo 2002).

Si ricorda che, per effetto delle modifiche recate all'articolo 19, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, "Il diritto alla detrazione dell'imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l'imposta diviene esigibile ed è esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all' anno in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo.". A norma del successivo comma 2-bis, tale disposizione si applica alle fatture e alle bollette doganali emesse dal 1° gennaio 2017.

Pertanto, laddove il dies a quo per l'emissione delle note di variazione sia antecedente al 1° gennaio 2017, il diritto alla detrazione può essere esercitato "con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto"; a decorrere invece dal 1° gennaio 2017, la detrazione può essere esercitata al più tardi" con la dichiarazione relativa all'anno in cui il diritto alla detrazione è sorto" (Risposta interpello Agenzia Entrate del 18.12.2018 n. 113).

La recente evoluzione normativa ai fini IVA in tema di procedure concorsuali

Va a questo punto ricordato che la Legge di Stabilità 2016, commi 126 e 127, con efficacia dal primo gennaio 2017, aveva riscritto integralmente il testo dell'art. 26 del D.P.R. 633/1972 innovando profondamente la procedura inerente la “variazione IVA” da operare in caso di mancato pagamento da parte del cessionario/committente assoggettato ad una procedura concorsuale.

In particolare, era stata introdotta la possibilità, per il cedente/prestatore, di emettere la nota d'accredito IVA, oltre il periodo dell'anno, a partire dalla data in cui il cessionario/committente fosse stato assoggettato ad una procedura ivi indicata. In questo modo, il cedente non era più costretto ad attendere l'accertamento dell'infruttuosità della relativa procedura per recuperare l'intero importo dell'IVA.

In sostanza, tale criterio permetteva al creditore di recuperare l'imposta addebitata in via di rivalsa al verificarsi di una circostanza che comunque sanciva, in modo ufficiale e inequivocabile, lo stato di crisi del debitore e, quindi, la ragionevole certezza che in tutto o in parte il credito insoluto non sarebbe stato pagato senza, però, attendere l'esito dell'insinuazione allo stato passivo dello specifico credito ovvero l'effettivo realizzo dell'attivo concordatario e quindi l'esecuzione del piano con i relativi riparti.

Infatti, la variazione in diminuzione, secondo la nuova disposizione, avrebbe potuto essere effettuata a partire dalla sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (così paragrafo 22 della Circolare dell'Agenzia delle Entrate del 30 dicembre 2014, n. 31/E). Il nuovo disposto normativo avrebbe dovuto applicarsi alle procedure concorsuali instaurate successivamente al 31 dicembre del 2016.

Tuttavia, tale modifica normativa è stata abrogata dall'art. 1, comma 567, lett. d), della legge n. 232/2016, a decorrere dal 1° gennaio 2017 e, pertanto, non è mai entrata in vigore. In senso critico a tale intervento legislativo, si rinvia alla Circolare Assonime n. 1 del 25 gennaio 2017.

Conseguentemente a seguito della mancata entrata in vigore della nuova normativa, la nota di variazione può essere emessa solo quando è definitivamente accertata l'infruttuosità della procedura concorsuale.

In via generale, vale la pena d‘osservare che in base all'attuale previsione dell'art. 26, secondo comma, DPR 633/72, la suddetta circostanza si verifica allorquando il soddisfacimento del creditore attraverso l'esecuzione collettiva sul patrimonio dell'imprenditore viene meno, interamente o parzialmente, per l'insussistenza di somme disponibili per la relativa soddisfazione una volta ultimata la ripartizione dell'attivo.

Al fine di individuare il momento in cui tale circostanza si verifica, è necessario rifarsi ai numerosi chiarimenti forniti in passato dall'Amministrazione finanziaria.

Pertanto, secondo l'orientamento erariale, il cedente o prestatore dell'operazione può emettere la nota di variazione in diminuzione:

  • per il fallimento, in presenza di piano di riparto, in seguito alla pubblicazione del decreto con il quale il giudice delegato stabilisce tale piano (risoluzione n. 120/E/2009) o, più prudentemente, decorso il termine per le osservazioni al piano di riparto (circolare n. 77/E/2000);
  • per il fallimento, in assenza del piano di riparto, alla scadenza del termine per il reclamo avverso il decreto di chiusura della procedura (risoluzione n. 155/E/2001 e risoluzione n. 2008/E/195);
  • per il concordato preventivo liquidatorio o con continuità aziendale, con la definitività della sentenza di omologazione e al rispetto da parte del debitore concordatario degli obblighi ivi assunti (circolare n. 77/E/2000 e circolare n. 8/E/2017 par 13.2). In altri termini, rileva il compimento del piano di riparto (risposta ad interpello n. 113/E/2018);
  • per la liquidazione coatta amministrativa, con il decorso dei termini per l'approvazione del piano di riparto (circolare n. 77/E/2000).

Il condizionamento della legittimità dell'emissione della nota di variazione in diminuzione all'esito infruttuoso delle procedure concorsuali ha sollevato dei dubbi circa la conformità dell'art. 26 del DPR n. 633/1972 alla normativa comunitaria, atteso che in tal modo viene esclusa la rilevanza di ogni altra ipotesi nella quale si verifichi la perdita, totale o parziale, del corrispettivo, sia perché continua a posticiparsi ad un termine - a priori indefinibile - il momento in cui poterla emettere.

Sul tema, è intervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza del 23 novembre 2017, causa C-246/16, con la quale sono state messe in discussione le regole oggi previste nel nostro ordinamento per l'emissione delle note di variazione in diminuzione, in caso di mancato pagamento totale o parziale del corrispettivo.

La Corte di Giustizia infatti ha stabilito che uno Stato membro non può prevedere che, a fronte del mancato pagamento del corrispettivo, la detrazione dalla base imponibile IVA sia subordinata al verificarsi dell'infruttuosità di una procedura concorsuale la cui durata può superare anche i dieci anni.

Secondo i giudici comunitari, in presenza di una “probabilità ragionevole” che l'obbligazione di pagamento non venga adempiuta da parte del debitore sottoposto alla procedura concorsuale, la riduzione della base imponibile dovrebbe essere possibile anche senza attendere che il relativo credito diventi definitivamente irrecuperabile.

Ciò porterebbe alla conclusione che la rettifica IVA, secondo il diritto dell'UE, potrebbe essere effettuata anche prima del riscontro dell'infruttuosità della procedura concorsuale se la stessa è ultradecennale, in quanto tale termine potrebbe causare al creditore delle problematiche (anche in termini di svantaggi competitivi) di liquidità.

Peraltro, la Corte di Giustizia ha precisato che spetta al contribuente fornire la prova per dimostrare la probabile durata prolungata (addirittura ultradecennale) del mancato pagamento, rimettendo agli Stati la previsione delle modalità con le quali dovrà essere fornita tale prova.

Va anche rilevato però che le conclusioni della Corte di Giustizia (che si è pronunciata su una fattispecie in cui trovava applicazione la disciplina fallimentare precedente alla riforma del 2005) fanno riferimento a procedure con una durata superiore ai dieci anni. Pertanto, i relativi principi potrebbero non essere completamente applicabili alle procedure disciplinate dalle nuove norme, che hanno una durata sicuramente inferiore.

In conclusione

La risposta ad interpello in esame è importante in quanto permette al soggetto cedente di procedere alla variazione IVA in diminuzione in caso di cessione “pro-solvendo” del credito, anche se non si è insinuato nel passivo del fallimento dell'originario debitore.

Naturalmente, al fine di potere detrarre la relativa IVA, tale soggetto deve conoscere la data che attesta l'infruttuosità della procedura, in quanto costituisce il momento a partire dal quale è possibile operare la suddetta variazione.

Come sopra esposto, la nota deve essere emessa entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno in cui si è manifestato il presupposto che consente la variazione. Tale norma si applica alle note di variazione emesse dal 1° gennaio 2017 sempreché i relativi presupposti (vale a dire gli eventi che hanno determinato la variazione della base imponibile dell'operazione) si siano verificati a decorrere dalla medesima data. Quando, invece, i presupposti si sono verificati ante 1° gennaio 2017, continua ad applicarsi l'articolo 19, comma 1, del DPR n. 633 del 1972, vigente ratione temporis, secondo cui "Il diritto alla detrazione dell'imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l'imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo".
Come riportato dall'Agenzia delle Entrate (Risposta interpello del 14.2.2019 n. 55), se la nota non è stata emessa entro il predetto termine, non sarebbe ammesso il recupero dell'IVA assolta mediante presentazione di una dichiarazione IVA integrativa "a favore" (art. 8, co. 6-bis del DPR 322/98), in quanto mancherebbero i relativi presupposti, non ravvisandosi alcun errore ed omissione cui rimediare con riferimento all'anno di emissione della fattura originaria. L'emissione di una nota di variazione in diminuzione, secondo la tesi erariale, sarebbe una facoltà cui il contribuente può rinunciare.

Inoltre, secondo l'Agenzia delle Entrate, l'emissione di una nota di variazione produce effetti diversi dalla dichiarazione integrativa. Mentre la prima assicura che sia rispettato il principio di neutralità dell'IVA (al diritto alla detrazione in capo a colui che emette la nota di variazione corrisponde l'obbligo di iscrivere l'imposta a debito per chi la riceve), la dichiarazione integrativa consente il solo recupero dell'imposta versata in misura superiore ma non anche il riversamento da parte di chi l'ha detratta.

Tale conclusione non sarebbe completamente conforme a quanto stabilito dall'Agenzia delle Entrate in tema di variazioni IVA in ambito concorsuale, laddove è stato sostenuto che, per il debitore, non vi sarebbe l'obbligo di riversamento dell'imposta.

Infatti, è stato ribadito (con la risposta ad istanza di interpello n. 54 del 2018) il principio secondo il quale, nell'ambito della procedura di concordato preventivo in continuità, le note di variazione emesse dai creditori per recuperare l'IVA relativa al credito oggetto di falcidia vanno registrate nei registri IVA senza che tale adempimento determini un obbligo di versamento dell'imposta. Infatti, secondo la tesi erariale (Circolare dell'Agenzia delle Entrate n 8/E del 7 aprile 2017, paragrafo 13.1.), laddove il cedente/prestatore si avvalga della facoltà di emettere una nota di variazione in diminuzione, gli organi della procedura sono tenuti ad annotare nel registro IVA la corrispondente variazione in aumento. Tuttavia tale incombenza non determina l'inclusione del relativo credito IVA vantato dall'amministrazione finanziaria nel riparto finale ormai definitivo (e quindi a versare l'imposta a debito), in quanto lo scopo di tale adempimento sarebbe solo quello di evidenziare il credito eventualmente esigibile nei confronti del fallito tornato in bonis .

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