Facciamo il punto sul mobbing
25 Luglio 2019
IL CASO. La Corte di Appello di Firenze ha riformato la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto che la responsabilità per mobbing non potesse essere collegata a mere situazioni conflittuali nell'ambiente di lavoro. A tal fine la Corte di Appello ha dato rilievo alle testimonianze che hanno confermato una serie di circostanze in cui il mobbing si è concretizzato: la soggezione della ricorrente a uno stretto monitoraggio all'interno dell'ufficio, l'imposizione di un rendiconto giornaliero non richiesto ad altri, «non dovuto e mortificante», la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell'attività lavorativa (computer, stampante) e quindi «una sostanziale dequalificazione», il suo collocamento in una stanza di passaggio dove prima nessuno lavorava e che anche dopo il suo insediamento era usata dai colleghi per andare in segreteria, l'essere stata oggetto di un sopralluogo nell'ambulatorio ove la ricorrente (in part time) svolgeva la sua seconda attività (psicopedagogista) con modalità non usuali quali la partecipazione del direttore all'accesso ispettivo preceduto da un sopralluogo in loco, l'avere subito un processo penale in cui era "stata accertata «una realtà completamente diversa da quella rappresentata dalle accuse formulate dai di lei confronti», l'essere stata vittima di un accanimento del capo nei suoi confronti.
CONFERMA DELLA DEFINIZIONE DI MOBBING. La Corte di appello ha altresì offerto una conferma della definizione di mobbing quale «condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti del suo dipendente consistente in una serie ripetuta di ingiustificati soprusi diretti ad isolarlo ed a screditarlo nell'ambiente di lavoro e preordinati alla sua estromissione dallo stesso, condotta tale da comportare per il lavoratore gravi menomazioni sia in relazione alla sua capacità lavorativa che alla sua integrità fisica».
IL DEMANSIONAMENTO. Autonoma valenza viene attribuita, accanto al mobbing, al demansionamento, laddove la Corte di Appello afferma che la ricorrente ha dedotto di essere stata a lungo assegnata a mansioni lavorative inferiori a quelle proprie della sua qualifica di Quadro, in violazione dell'art. 2103 c.c. e la Corte ha quindi ritenuto provato il comportamento illegittimo posto a danno della lavoratrice "nella duplice forma del mobbing e del demansionamento".
LE DUE CTU. Con riferimento al danno, in sentenza si da atto dell'espletamento di ben due CTU in fase di appello. Il primo CTU aveva ritenuto ragionevole ammettere un peggioramento della sintomatologia depressiva della lavoratrice, condizione patologica preesistente, con accentuazione della fenomenica clinica e necessità di assidui controlli specialistici e terapia farmacologica a partire dal 2004, ma non aveva ritenuto provata la derivazione causale del quadro clinico con il disagio lavorativo denunciato. Il secondo perito aveva rilevato una maggiore sofferenza ansioso depressiva negli anni 2002 - 2005 da mettere in relazione con una oppressione percepita nell'ambiente di lavoro, ma aveva lasciato aperto un quesito per la Corte, avendo il perito precisato di non potere chiarire «se si trattò di risposta causata o quantomeno concausata da uno stimolo abnorme costituito da una condotta antigiuridica del superiore gerarchico, oppure di una risposta abnorme a stimoli rientranti in una dialettica giuridicamente corretta all'interno dell'ambiente di lavoro che abbia costituito solo "occasione" in senso medico legale. Una definitiva soluzione in merito dipende da quanto la Magistratura accerti in ordine alle obiettive condizioni e vicende lavorative». La Corte di Appello, rispondendo all'interrogativo del CTU, ha statuito che la situazione lavorativa cui la dipendente era stata sottoposta nel periodo in esame travalicava chiaramente i limiti di una dialettica giuridicamente corretta e integrava mobbing e demansionamento, così concludendo: «Sotto questo aspetto non si può negare l'efficienza causale di tale condotta nel determinare il danno biologico accertato dal CTU ... Sembra quindi alla Corte evidente che la maggior sofferenza ansioso depressiva della *** sia stata una risposta causata o quantomeno concausata da uno stimolo abnorme costituito dalla condotta antigiuridica del superiore gerarchico e non una reazione (abnorme) della lavoratrice ad una situazione da considerarsi normale in un ambiente di lavoro». La Corte non ha ritenuto decisive nel senso di escludere il nesso di causalità né la mancata denuncia della malattia professionale all'INAIL, stante il carattere peculiare della malattia in questione rispetto a quelle classiche professionali, né la patologia del padre della lavoratrice (distacco della retina) in quanto non così grave da giustificare una sofferenza psicologica come quella accusata dalla figlia.
QUANTIFICAZIONE DEL DANNO. In punto quantificazione del danno, è da rilevare come la Corte di appello abbia chiarito che il danno da demansionamento non è un danno in re ipsa, dovendo essere invece allegato e dimostrato dalla parte che invoca il risarcimento.
RESPONSABILITÀ DEI CONVENUTI. Con riferimento alla responsabilità dei convenuti ha riconosciuto sia la responsabilità del dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima (il direttore dell'Ufficio ove lavorava) sia quella del datore di lavoro ex art. 2049 c.c. rimasto «colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo». La Corte ha, infatti, rilevato che le vicende in questione erano conosciute o quanto meno conoscibili, come si desume dal fatto che la lavoratrice era stata sottoposta a più procedimenti disciplinari, oltre che ad un giudizio penale, si era rivolta più volte alla Direzione Regionale e il vice direttore dell'Ufficio era stato coinvolto dal direttore in alcune delle vicende denunciate. |