Le preclusioni istruttorie nel processo sommario di cognizione
25 Luglio 2019
Massima
La specificità del rito sommario ex art. 702-bis c.p.c. risiede anche nella necessità che le parti, ma soprattutto il ricorrente, deducano negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio ex art. 2697 c.c. Solo attraverso le concrete allegazioni del thema decídendum e probandum delle parti il giudice può, infatti, valutare nell'ambito di quel processo se la causa possa o meno essere decisa con una istruzione sommaria e in caso di valutazione negativa disporre il mutamento del rito ex art. 702-ter c.p.c. Se la valutazione del thema decidendum e delle "prove" dedotte dalle parti è tale da far ritenere non provata la domanda il giudice è tenuto a rigettarla, perché, sulla base delle prove dedotte, essa risulta non fondata. La valutazione in merito alla conversione del rito non può essere, quindi, condotta sulla base dell'insufficienza o dell'inidoneità delle prove dedotte a fondamento della domanda, altrimenti la conversione del rito consentirebbe di rimettere nei termini la parte, ma dalla natura non sommaria dell'istruttoria da compiere. Il caso
Parte appellante (già ricorrente) impugnava l'ordinanza ex art. 702-ter c.p.c. con cui il Tribunale di Genova aveva respinto la domanda di pagamento formulata nei confronti dell'appellata (già resistente) per prestazioni rese in suo favore in esecuzione di un contratto stipulato fra le parti. A fondamento dei motivi di impugnazione deduceva che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto tardiva la produzione documentale avvenuta all'udienza di prima comparizione di cui all'art. 702-ter c.p.c. e ne aveva comunque escluso il valore probatorio, trattandosi di mail di posta non certificata e sottoscritta da soggetti non identificati. Il tribunale, inoltre, non aveva fatto buon governo delle norme sulla ripartizione dell'onere probatorio, avendo rigettato la domanda perchè non era stata provato l'adempimento da parte ricorrente né era stata più avvertita nel valutare che la resistente aveva sollevato una eccezione di fittizietà del rapporto, mai provata. Infine, non si era pronunciata sulla domanda di indebito arricchimento. Si costituiva la parte appellata chiedendo il rigetto dell'impugnazione. La Corte d'appello rigettava la domanda relativa al presunto malgoverno delle norme sulla ripartizione dell'onere probatorio, rigettava le doglianze relative alla valutazione delle email, documenti privi di firma, oggetto di disconoscimento ex art. 2712 c.c. e non ex art. 215 c.p.c. e quindi liberamente valutabili dal Giudice e, soprattutto, rigettava i restanti motivi di appello, ribadendo l'orientamento della Suprema Corte in materia di preclusioni assertive – che rendeva inammissibile la domanda di indebito arricchimento perchè formulata solo nella precisazione delle conclusioni – e di preclusioni istruttorie, riaffermando l'inammissibilità per tardività delle produzioni effettuate solo alla prima udienza. La questione
La Corte d'appello, ponendosi nel solco tracciato dalla Suprema Corte, ha aderito all'orientamento più recente e più restrittivo in materia di preclusioni assertive ed istruttorie, ribadendo che l'istanza di accelerazione e semplificazione sottesa alla scelta del rito sommario di cognizione impongono alle parti di dedurre negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio ex art. 2697 c.c. Diversamente, la domanda andrà rigettata perché non provata non essendovi spazio per la conversione del rito. Le soluzioni giuridiche
Molto dibattuto è il tema delle preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione. Sin dalla sua introduzione il quesito che si è posto all'interprete è il seguente: può un rito, destinato a semplificare la trattazione del giudizio, non prevedere barriere preclusive e quindi prestarsi a continue allegazioni e produzioni? Ciò in quanto la mancata previsione espressa di termini di decadenza appariva difficilmente compatibile con un rito incentrato su un'unica udienza, che avrebbe dovuto realizzare, almeno nelle intenzioni del legislatore, l'intento di definire il giudizio o, in alternativa, di valutarne l'inidoneità ad essere trattato nelle forme semplificate di quel rito, convertendolo in rito ordinario. D'altro canto, ciò che ostava a una semplice soluzione della questione (che avrebbe fatto propendere per una risposta negativa al quesito) era se si potessero prevedere, a dispetto dell'art. 152 c.p.c., delle decadenze di elaborazione giurisprudenziale, perchè non previste dalla legge. Tra le varie soluzioni proposte si possono individuare due orientamenti preminenti. Il primo muoveva proprio dalla considerazione che la decadenza, istituto eccezionale nel processo civile, non è suscettibile di applicazione scaturente da interpretazione analogica; per cui, essendo prevista, nel rito ex artt. 702-bis e ss. c.p.c., solo la decadenza di cui all'art. 167 c.p.c., la deduzione di nuove istanze istruttorie doveva essere ammessa in tutto il corso del procedimento. Il Giudice, in sostanza, avrebbe dovuto ammettere ogni istanza istruttoria proposta, rivalutando ogni volta l'idoneità di quella controversia ad essere trattata con il rito in esame (pronunciando, se del caso, l'ordinanza di conversione in ordinario). Tale tesi, però, si è subito scontrata con due ordini di obiezioni. In primo luogo la completa assenza di preclusioni sembra difficilmente compatibile con un procedimento che dovrebbe essere più agile, perché semplificato, ed invece rischia di essere ingolfato da continue istanze istruttorie. Si sostiene da parte di alcuna dottrina, infatti, che appare più idoneo a realizzare un procedimento semplificato, qual è quello sommario di cognizione, un regime di preclusioni più severo di quello del rito ordinario di cognizione (Bove C; Ferri C.) In secondo luogo, la totale assenza di preclusioni apparirebbe in contrasto anche con il principio di parità delle parti nel processo di cui all'art. 111 comma 2 Cost. Come è stato sottolineato (Barletta A.), infatti, il legislatore non ha del tutto escluso le preclusioni dal rito in esame, anche se l'architettura del loro regime appare incompleta, dal momento che si fa menzione solo delle decadenze relative alle difese che devono essere contenute nella comparsa di risposta (art. 702-bis,commi 4 e 5, c.p.c.). Se così è, non pare possibile ai detti Autori stabilire una limitazione difensiva al solo convenuto, consentendo invece all'attore di introdurre nuove prove in ogni momento, fino alla decisione. Tale impostazione, infatti, non solo non rispetta il fatto che il convenuto, almeno in linea di principio, apparirebbe, ancora secondo la predetta tesi, essere la parte più debole del processo (dal momento che, se non altro, subisce l'iniziativa giudiziale altrui) ma, d'altro canto, nemmeno considera in alcun modo la necessità di perseguire l'ordinato e sollecito svolgimento del procedimento. Nel riconoscere prevalenza a tali osservazioni, parte della dottrina ha dunque aderito alla opposta tesi secondo cui il regime delle preclusioni sarebbe invece assolutamente vigente nel procedimento sommario di cognizione. Nell'ambito di tale orientamento si è poi avuta un'ulteriore diversificazione di posizioni: secondo alcuni, infatti, le preclusioni maturerebbero già negli atti introduttivi (Mondini, 2009); secondo altri, invece, la barriera preclusiva coinciderebbe con la prima udienza (Bove C., Ferri C.). Il fondamento della prima delle due tesi restrittive riposerebbe nella lettera dell'art. 702-ter comma 5, c.p.c., per il quale «alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti». Il dettato normativo, secondo tale tesi, farebbe ritenere che già prima dell'udienza il giudice debba essere in grado di valutare se il rito vada convertito o meno, dal momento che l'udienza sarebbe destinata soltanto all'assunzione delle prove richieste negli atti introduttivi. Un pò più mite sarebbe invece il regime delle preclusioni ordito dal legislatore secondo l'altra tesi “restrittiva”: è l'udienza la sede entro cui devono esaurirsi le istanze di parte, come si inferisce dall'art. 183-bis c.p.c. (introdotto dal d.l. n. 132/2014 per disciplinare l'ipotesi del passaggio dal rito ordinario a quello sommario), secondo il quale «con ordinanza non impugnabile … invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria». Se la dottrina, nel misurarsi con il rito sommario di cognizione, ha sperimentato una tale pluralità di indirizzi, non migliore sorte è toccata alla giurisprudenza. Nell'esiguità di pronunce della Suprema Corte si è assistito a un fiorire di sentenze di merito che hanno adottato differenti soluzioni interpretative, esattamente come accaduto in dottrina. In tale panorama anche la Suprema Corte, benchè di rado, è stata chiamata a pronunciarsi sulla specifica questione delle preclusioni istruttorie nel rito sommario di cognizione. Due sono le pronunce assurte a punto di riferimento sulla tematica in esame. Uno degli arresti ha riguardato un caso in cui il rito sommario di cognizione era obbligatorio ai sensi del d.lgs. 150/2011 (Cass. civ., sez. II, n.25547/2015); l'altro (Cass. civ., sez. III, n. 24538/2018), invece, si è pronunciato in un caso in cui il rito sommario era facoltativo e conseguente alla sommarietà dell'istruzione. La precisazione, invero, non è di poco momento a parere di chi scrive, per quanto appresso si dirà. Parte della dottrina (Martino R.), infatti, ha sottolineato che il rito sommario di cognizione non si atteggia sempre nello stesso modo, individuandone ben tre: il rito “codicistico” di cui agli artt. 702-bis c.p.c.; il rito per la semplificazione dei riti (artt. 14 ss.d.lgs. n. 150/2011) e quello “convertito” dell'art. 183-bis c.p.c. La giurisprudenza, coerentemente con tale assunto, ha distinto le esigenze sottese all'uso dei diversi tipi procedimentali, non traendone, però, conseguenze in tema di preclusioni. Ma volgiamo lo sguardo al dettato delle sentenze in parola. Con la prima, la n. 25547/2015, la Suprema Corte, investita della questione relativa all'individuazione delle barriere preclusive nel rito sommario di cognizione nei casi in cui la sua scelta sia obbligata, ha ritenuto che nel procedimento in parola, non essendo normativamente prevista alcuna preclusione istruttoria connessa alla mancata indicazione, negli atti introduttivi, delle prove richieste, non può configurarsi alcuna decadenza. Le preclusioni dunque maturerebbero con la pronuncia dell'ordinanza avente ad oggetto l'eventuale riscontro della non sommarietà dell'istruzione. Tale soluzione appare meno problematica di quanto in realtà non sia. Come è stato rilevato, infatti, nel procedimento sommario di cognizione non vi è un termine entro il quale l'ordinanza di conversione del rito debba essere pronunciata. In buona sostanza, il Giudice, non avendo termini per pronunciare tale ordinanza, ben potrebbe farlo fino alla fine del giudizio, compiendo fino a quel momento una decisione di non conversione che rimane implicita nella prosecuzione stessa del procedimento. Se si utilizzasse, dunque, l'ordinanza di conversione del rito come barriera preclusiva, svincolata, però, da qualsiasi confine, si ritornerebbe alla sostanziale assenza di barriere preclusive e la stessa puntualizzazione dell'esistenza di una preclusione perderebbe del tutto di senso. L'assunto nomofilattico avrebbe, invece, una valenza del tutto diversa ove si ritenesse che l'ordinanza di conversione possa essere pronunciata entro la prima udienza. Tale tesi è propugnata da parte della dottrina (Ricci G., nota a Cass. civ.,sez. II, 18 dicembre 2015, n. 25547) come rispondente alle stesse ragioni di opportunità e di concentrazione che devono indurre le parti a indicare i mezzi di prova entro lo stesso termine, proprio per evitare di rendere il procedimento farraginoso. In tal senso, secondo tale impostazione, deporrebbe anche il richiamo che il 702-ter comma 3 c.p.c. fa al 183 c.p.c. e che farebbe propendere per la possibilità di convertire il rito in una fase non troppo avanzata del procedimento, difficilmente compatibile, altrimenti, con la celebrazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c. In conclusione, con tale sentenza la Suprema Corte avrebbe di fatto aderito a quell'impostazione dottrinale secondo cui le preclusioni istruttorie maturano in prima udienza e secondo la dottrina deve anzi ritenersi che, ove anche non sia pronunciata l'ordinanza di conversione del rito, la preclusione maturi comunque in prima udienza, così coincidendo con la scelta di proseguire con un rito invece che con l'altro. Tale tesi sarebbe, secondo qualche Autore, corroborata anche dall'introduzione dell'art. 183-bis c.p.c., norma che si porrebbe come canale di comunicazione tra i due modelli procedimentali, regolamentando il passaggio dal rito ordinario a quello sommario di cognizione. Partendo dalla circostanza che l'art. 183-bis c.p.c. impone alle parti di indicare a pena di decadenza i mezzi di prova di cui intendono avvalersi all'udienza di trattazione, oppure in eventuale breve termine richiesto, si è sottolineato che, se le preclusioni operano nel momento in cui il rito da ordinario diventa sommario, non è razionale che non operino quando il rito nasce già come sommario, specialmente per la sostanziale sovrapponibilità delle fasi introduttive dei riti. Per di più, ancora secondo questa impostazione, l'art. 183-bisc.p.c. dispone in maniera chiara che le preclusioni istruttorie maturano quando la conversione in rito sommario si è già verificata, dal momento che, secondo la sua lettera, il giudice può disporre che si proceda a norma dell'art. 702-terc.p.c. e invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova (Martino R., 916). Non mancano, tuttavia, opinioni discordi nella giurisprudenza di merito, che collega il maturare delle preclusioni alla mera pronuncia dell'ordinanza di conversione del rito, del tutto sganciata dalla scansione temporale data dalla prima udienza (App. Venezia, 16 maggio 2018, n. 1574 in www.lesentenze.it; App. Napoli, 18 maggio 2018, n. 2266; App. Lecce, 8 novembre 2018, n. 1070). Ferme restando le considerazioni appena svolte con riferimento ai procedimenti in cui l'art. 702-bis c.p.c. è frutto di una scelta delle parti, non ci si può esimere dall'evidenziare che, nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, l'adozione di tale opzione non fornisce una risposta al quesito di diritto che avrebbe dovuto essere risolto. Dire, infatti, che la preclusione istruttoria nei procedimenti in cui il rito sommario di cognizione è imposto dalla legge, matura con l'ordinanza di conversione del rito, equivale ad escludere ogni preclusione, dal momento che per espressa previsione dell'art. 3 del d.lgs. n.150/2011 la conversione del rito in tali casi è esclusa. La sentenza, dunque, sposa una tesi generale che, però non risolve il caso sottoposto al suo esame, a meno di non voler aderire a quella dottrina che ritiene che, nel riferirsi all'ordinanza di conversione del rito, in realtà la Suprema Corte abbia inteso riferirsi alla prima udienza. Un diverso orientamento assiste la disciplina delle preclusioni nel rito sommario di cognizione dall'anno 2018 quando la Suprema Corte ha rimeditato tale impostazione pronunciandosi in un caso in cui il procedimento de quo era stato scelto dalla parte o, più correttamente, dalle parti, dato che il convenuto contribuisce a tale opzione (ex art. 702-ter c.p.c.). Nel caso deciso dalla Suprema Corte nella sentenza del 5 ottobre 2018, n. 24538, parte ricorrente lamentava che il giudice adito, non ritenendo provata la domanda, invece di disporre il mutamento del rito, da sommario in ordinario, l'aveva rigettata. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso precisa che l'opzione per il rito sommario di cognizione è, appunto, una scelta della parte che agisce, la quale ha comunque l'onere di fornire le indicazioni di cui all'art. 163, comma 3, nn. 4) e 5). Da ciò discende che il Giudice all'udienza deve essere messo già in condizioni di poter operare la sua scelta tra dar corso agli atti di istruzione rilevanti, purchè ve ne siano da compiere ovvero convertire il rito, «tenuto conto …. dei fatti allegati dalle parti e delle loro deduzioni istruttorie già enunciate in limine litis». Deve, dunque, escludersi che la conversione del rito si traduca nel riconoscimento di un potere istruttorio officioso più ampio di quello di cui al rito ordinario di cognizione e in una conseguente remissione in termini per la parte che, avendo omesso le indicazioni istruttorie negli atti introduttivi, abbia, con la conversione del rito, una seconda chance di farlo. Da ciò discende che se il vaglio del thema decidendum e di quello probandum per come delineati negli atti introduttivi è tale da far ritenere non provata la domanda, il giudice è tenuto a rigettarla, perchè, sulla base delle prove dedotte, essa risulta non fondata Ciò in quanto «La specificità del rito sommario ex art. 702-bis c.p.c., risiede anche nella necessità che le parti, ma soprattutto il ricorrente, deducano negli atti di costituzione tutte le istanze istruttorie che ritengono di formulare per adempiere al loro onere probatorio ex art. 2697 c.c. Solo attraverso le concrete allegazioni del thema decidendum e probandum delle parti il giudice può, infatti, valutare nell'ambito di quel processo se la causa possa o meno essere decisa con una istruzione sommaria e in caso di valutazione negativa disporre il mutamento del rito ex art. 702-ter c.p.c.» (cfr. Cass. civ., sez. III, 5 ottobre 2018, n.24538). La Corte aderisce, così, questa volta, all'interpretazione più restrittiva che parte della dottrina summenzionata aveva accolto in tema di preclusioni nel rito sommario di cognizione. A tale mutamento ermeneutico sembra aver condotto la valorizzazione della scelta che compie chi opta per il rito sommario in luogo di quello ordinario e dunque, sostanzialmente, l'adesione delle parti all'istanza di semplificazione ed accelerazione che hanno generato l'introduzione del rito stesso (cfr. anche App. L'Aquila, 2 gennaio 2019, n. 29, in www.lesentenze.it; App. Genova, 21 giugno 2019, n. 932, in iudex; App. Torino, 10 giugno 2019, n. 978, in iudex). Osservazioni
Il lavoro interpretativo volto all'individuazione della barriera preclusiva per le deduzioni istruttorie nel 702-bis c.p.c. non pare essere giunto al suo capolinea. Ad oggi, infatti, non sembra chiaro se la differenza fra i due arresti Cass. civ., n. 25547/15 e Cass. civ., n. 24538/18 trovi la sua ragione nel fatto che il rito sommario di cognizione sia frutto di scelta – o meno – o se, invece, la sentenza più recente sia semplicemente il superamento della precedente. Ictu oculi, sembrerebbe essersi delineato un mero contrasto interpretativo che, però, appare a chi scrive un'occasione mancata di creare un doppio regime delle preclusioni istruttorie. Ciò in quanto nelle due sentenze, del 2015 e del 2018, la Corte giunge a conclusioni diverse valorizzando, di volta in volta, differenti esigenze poste alla base della celebrazione del rito sommario. Nel 2015, pronunciandosi su un caso di rito sommario obbligatorio, il Supremo Collegio insisteva sulla mancata compromissione delle facoltà difensive delle parti, a seguito dell'adozione del rito ex art. 702-bis c.p.c. in luogo del rito camerale. Si diceva, infatti, che, essendo impedita dalla legge la conversione del rito in ordinario, il giudice avrebbe dovuto provvedere comunque allo svolgimento dell'istruttoria, anche se non sommaria, nelle forme libere previste dall'art. 702-ter,comma 5 c.p.c. Né si riteneva di rinvenire alcuna decadenza a seguito della mancata indicazione delle prove negli atti introduttivi, in quanto, esattamente come accade nel rito ordinario, nemmeno l'art. 702-bis c.p.c., avrebbe sancito alcuna preclusione istruttoria. D'altro canto la Corte rifiutava in quella sentenza l'opzione più elastica possibile, che avrebbe consentito di proporre istanze istruttorie fino alla decisione e trovava la soluzione in una tesi intermedia (invero solo apparentemente intermedia nel caso deciso, risolvendosi nell'assenza di barriere preclusive), che connetteva il maturare delle preclusioni istruttorie alla pronuncia dell'ordinanza di conversione del rito. Nel 2018, invece, la Corte valorizza massimamente la scelta delle parti che hanno optato per il rito sommario di cognizione e, senza nemmeno citare il precedente del 2015 per spiegare come mai debba ritenersi non più adeguato alla disciplina del rito sommario di cognizione, giunge alla conclusione che, se le parti hanno scelto il rito celere e deformalizzato, tale lo devono rendere, così anticipando in limine litis tutte le loro deduzioni ed istanze, anche istruttorie. Ciò consentirebbe al giudice di arrivare alla prima udienza preparato e già pronto ad assumere la decisione sulla conversione o meno del rito. A chi scrive pare che effettivamente esistano almeno due anime del procedimento sommario di cognizione, collegate alle differenti ipotesi applicative dello stesso e risultanti dai diversi connotati che il legislatore ha dato ai riti sommari di cognizione, come evidenziato dalla dottrina succitata. Ove, dunque, si volesse accedere alla tesi per cui si possono introdurre delle preclusioni di elaborazione giurisprudenziale, si dovrebbe far sì che tale elaborazione si attagli alla realizzazione delle esigenze sottese alla struttura dei diversi tipi di rito. Si auspica, dunque, una pronuncia chiarificatrice che precisi se e quando sia da valorizzare la scelta di celerità – quando tale scelta vi sia – e se e quando sia, invece, da valorizzare la necessità che non vi sia compressione delle esigenze difensive delle parti, in assenza, peraltro, di poteri istruttori d'ufficio simili a quelli del processo del lavoro.
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