L'irrilevanza disciplinare del fatto contestato al lavoratore equivale alla sua insussistenza (materiale) anche nel Jobs Act

Ileana Fedele
29 Luglio 2019

In tema di licenziamento disciplinare, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.
Abstract

In tema di licenziamento disciplinare, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.

Il caso esaminato nella sentenza della Cassazione n. 12174 del 2019

Una lavoratrice impugna il licenziamento chiedendo l'applicazione della tutela reintegratoria ex art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, per insussistenza del fatto materiale contestato. La Corte di appello conferma la pronuncia di illegittimità del recesso, già emessa dal giudice di primo grado, ma giustifica il diniego della tutela reale – con conseguente riconoscimento della tutela solo risarcitoria – in quanto la condotta addebitata (allontanamento dal posto di lavoro) non era stata negata nella sua realtà storica, ma, in concreto, per le circostanze in cui si era verificata, non era di gravità tale da giustificare il licenziamento.

La Cassazione, enunciando il principio di cui in massima, cassa la decisione di merito perché, accertata, «da un punto di vista solamente fenomenologico, la sussistenza della condotta materiale (per essere stata sostanzialmente ammessa dalla lavoratrice), ha da ciò solo (id est: dalla sussistenza del fatto materiale) tratto la conseguenza della impossibilità di una tutela reintegratoria, laddove un tale esito (id est: non operatività della tutela reintegratoria) poteva conseguire solo alla ulteriore valutazione di apprezzabilità, sul piano disciplinare, della condotta medesima tanto da un punto di vista oggettivo che soggettivo ovvero di imputabilità della stessa alla lavoratrice».

La questione: la “perimetrazione” della tutela reintegratoria fra legge Fornero e Jobs act nell'ermeneutica dell'insussistenza del fatto contestato

La nuova normativa sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - introdotta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – prevede un differente regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. in questione.

In particolare, in caso di licenziamento disciplinare (vale a dire intimato per giusta causa, ex art. 2119, c.c., ovvero per giustificato motivo soggettivo, ex art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604), la tutela reintegratoria è prevista solo per l'ipotesi «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».

Diventa, quindi, fondamentale, ai fini della selezione della tutela applicabile, declinare la nozione di “fatto materiale contestato”, quale specifica locuzione adottata dal legislatore in esito al dibattito già insorto a seguito della riformulazione dell'art. 18, st. lav. ad opera della c.d. legge Fornero fra i sostenitori della tesi del “fatto materiale” e quelli del “fatto giuridico”.

"Fatto materiale” e “fatto giuridico”: il dibattito in dottrina

Per i fautori della tesi del “fatto materiale” la finalità del legislatore già con la novellazione dell'art. 18, st. lav. è chiara nel restringere le ipotesi di reintegrazione ai casi indicativi di una ingiustificatezza macroscopica ovvero ai casi di assoluta pretestuosità del licenziamento, nel senso che il comportamento addebitato al lavoratore come “pretesto” per il recesso risulta privo di oggettivo riscontro nella realtà concreta. Secondo questa impostazione la norma avrebbe sdoppiato il percorso mirato all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento da quello che conduce ad individuare la tutela: il giudice dovrà dapprima stabilire se il fatto integri o meno la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, procedendo secondo i criteri tradizionalmente elaborati dalla giurisprudenza; ove accertata l'insussistenza di una causa di giustificazione del recesso, il giudice dovrà, poi, determinare la sanzione da applicare nel caso concreto utilizzando i criteri selettivi stabiliti nel nuovo art. 18. Pertanto, mentre la qualificazione del fatto quale giusta causa o giustificato motivo soggettivo implica un libero apprezzamento della gravità dell'infrazione secondo il giudizio di proporzionalità ai sensi dell'art. 2106, c.c., l'indagine sull'esistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento deve essere condotta in riferimento al nucleo essenziale del fatto contestato, senza che assuma rilievo il mancato accertamento di circostanze marginali, confermative o di contorno.

Ai sostenitori della tesi del fatto materiale si oppongono i sostenitori della tesi del “fatto giuridico”, che include nel “fatto” non solo l'elemento soggettivo (imputabilità, dolo, colpa, intensità di entrambi, etc.) ma anche il contesto “multifattoriale” che il giudice considera per valutare la legittimità del licenziamento. A sostegno di tale opzione vengono addotti argomenti letterali, fondati sulla stessa espressione usata dal legislatore (“fatto contestato”), e sistematici, desumibili dal rinvio alle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari, che si riferiscono necessariamente a condotte inadempienti. Un ulteriore argomento a sostegno della tesi del fatto giuridico è stato sviluppato partendo dal principio di cui all'art. 3, Cost., dovendosi dubitare della ragionevolezza di un'interpretazione che ritenga di poter selezionare la sanzione applicabile non già in base all'effettiva gravità dell'addebito (ed alla sua idoneità a giustificare il recesso) bensì in base a come il datore di lavoro abbia identificato il fatto nella motivazione del licenziamento.

Le due tesi contrapposte sono entrambi passibili di rilevanti obiezioni: infatti, la tesi del fatto materiale è stata subito criticata per l'effetto paradossale di precludere la tutela reintegratoria anche nei casi in cui il comportamento contestato - pur sussistente – risulti del tutto lecito, privo di qualsivoglia rilievo disciplinare; d'altro canto, la principale (e fondamentale) obiezione alla tesi del fatto giuridico si incentra sulla sostanziale sovrapponibilità degli elementi da valutare ai fini dell'accesso alla tutela reale rispetto a quelli da considerare per la giustificazione del licenziamento, con l'effetto di vanificare l'esplicita volontà legislativa di realizzare una graduazione e differenziazione di sanzioni.

Per ovviare a tali aporie, si è sviluppato un indirizzo – per così dire – “intermedio”, che, da un lato, riconduce la mancanza di proporzionalità ai sensi dell'art. 2106 c.c. alla sanzione solo indennitaria ex comma 5 dell'art. 18, dall'altro, intende il fatto, la cui insussistenza dà luogo alla reintegra, come “fatto-inadempimento”, vale a dire come condotta di necessaria valenza disciplinare ed imputabile al lavoratore.

L'insussistenza del fatto contestato ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato nell'interpretazione della giurisprudenza di legittimità

La tesi del fatto materiale ha ricevuto inizialmente un avallo da parte della giurisprudenza di legittimità in una prima pronuncia sulla nuova disciplina (Cass., sez. lav., 6 novembre 2014, n. 2366967). In un caso di licenziamento del direttore di una filiale bancaria - cui era stato contestato di aver incaricato “abitualmente” i dipendenti di compiti anomali – era stata riconosciuta la tutela di cui al comma 4 del nuovo art. 18 per insussistenza del fatto contestato perché, in esito all'istruttoria svolta, era stata esclusa la connotazione della condotta in termini di “abitualità”. La Corte di legittimità, nel confermare la decisione di merito (fra l'altro respingendo il motivo di ricorso concernente la richiesta - subordinata - di applicazione della tutela indennitaria in ragione della “parziale” sussistenza del fatto contestato), si è comunque espressa - sia pure a livello di obiter dictum - a favore della tesi del “fatto materiale” affermando che “il fatto, della cui esistenza si tratta, è da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”. È stata, però, proposta una diversa interpretazione della pronuncia, nel senso di calare il decisum nel fatto esaminato dalla Corte piuttosto che enfatizzare l'affermazione resa a livello di obiter dictum, evidenziando che la tutela reintegratoria è stata riconosciuta per effetto - non già della totale insussistenza del fatto, addotto a motivazione del licenziamento, ma - della carenza del requisito della abitualità, ritenuto essenziale per giustificare la massima sanzione disciplinare.

Le pronunce successive, tuttavia, hanno mostrato di prendere le distanze da tale prima sentenza (almeno nell'accezione favorevole alla tesi del “fatto materiale”), sembrando più in linea con l'interpretazione - per così dire – intermedia, che connota “il fatto contestato” in termini di inadempimento, come comportamento di astratto rilievo disciplinare imputabile al lavoratore, mentre la valutazione in concreto della proporzionalità della sanzione, ex art. 2016, c.c., è stata ricondotta alla sfera di applicazione della tutela risarcitoria.

In particolare, sulla questione del fatto accertato ma disciplinarmente irrilevante, ne è stata affermata chiaramente l'equivalenza alla sua insussistenza materiale, con conseguente applicazione della reintegrazione attenuata ex art. 18, comma 4, st. lav. riformulato (Cass., sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540). Infatti, la Corte di legittimità ha confermato il giudizio di irrilevanza disciplinare espresso dal giudice di merito e, nell'affrontare uno specifico motivo di ricorso - teso a sostenere che solo l'insussistenza materiale del fatto e non già il difetto di giuridica rilevanza avrebbe giustificato la tutela reintegratoria - ha affermato che “non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”, in tal modo pervenendo al giudizio di equivalenza fra “insussistenza materiale del fatto” e sua “completa irrilevanza giuridica”. La decisione, senza prendere espressa posizione sul dibattito fra fatto materiale e fatto giuridico ma unicamente appellandosi all'argomento della non-plausibilità e, dunque, al canone della ragionevolezza, ha rappresentato un riferimento essenziale per ovviare al “paradosso” del fatto contestato sussistente ma pienamente lecito idoneo ad inibire la tutela reintegratoria, superando la necessità di ricorrere al meccanismo della frode alla legge, che avrebbe esposto il lavoratore ad oneri di allegazione e prova.

A questa decisione si sono uniformate le pronunce successive, che hanno ribadito l'equazione fra “irrilevanza disciplinare del fatto” ed “insussistenza del fatto” ai fini dell'applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav. siccome modificato dalla l. n. 92 del 2012 (Cass., sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18418; Cass., sez. lav., 26 maggio 2017, n. 13383, Cass., sez. lav., 5 dicembre 2017, n. 29062, Cass., sez. lav., 10 maggio 2018, n. n. 11322). E tale interpretazione è stata di recente confermata anche in ordine alla vexata quaestio dello svolgimento di attività extralavorativa in costanza di malattia, nel senso che è stata riconosciuta la tutela reintegratoria in un caso in cui la condotta contestata ed accertata era circoscritta, compatibile con la malattia denunciata e non aveva comportato alcun aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro, sicché doveva concludersi per l'assenza di illiceità del fatto addebitato (Cass., sez. lav., 7 febbraio 2019, n. 3655).

Quanto, poi, al giudizio di proporzionalità della sanzione, ai fini della selezione della tutela applicabile, la più recente giurisprudenza di legittimità ha aderito all'interpretazione favorevole alla espressa tipizzazione della fattispecie da parte della contrattazione collettiva, applicando la tutela risarcitoria in tutte le ipotesi in cui il giudizio di sproporzione venga comunque “mediato” dalla valutazione del giudice (Cass., sez. lav., 16 luglio 2018, n. 18823: «l'art. 18 st. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012, ha introdotto una graduazione delle sanzioni, riconoscendo, al comma 4, la tutela reintegratoria per le ipotesi di maggiore evidenza, e prevedendo, invece, al comma 5, la tutela risarcitoria per le “altre ipotesi”, quale il difetto di proporzionalità non codificato dalla contrattazione collettiva»; conforme, Cass., sez. lav., 12 ottobre 2018, n. 25534 e, da ultimo, Cass., sez. lav., 9 maggio 2019, n. 12365, e Cass., sez. lav. 20 maggio 2019, n. 13533). E' stato anche precisato che «l'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, St.lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa al fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre nei casi in cui il c.c.n.l. operi una riserva per le infrazioni di maggiore gravità, rimettendo al giudice di valutare l'esistenza di un simile rapporto di proporzione in connessione al contesto, spetta la tutela indennitaria, ricadendosi nell'ambito applicativo di cui all'art. 18, comma 5, st. lav.» (Cass., sez. lav., 17 ottobre 2018, n. 26013), principio invero suscettibile di ampia applicazione, considerato l'attuale livello della formulazione della contrattazione collettiva, che di frequente si appella al canone generale della proporzionalità della sanzione.

Pertanto, è stato affermato - in via riassuntiva - che “L'art. 18, st. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012, riconosce, al comma 4, la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel suddetto comma 4 quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che stabiliscano per esso una sanzione conservativa, diversamente verificandosi le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali il comma 5 dell'art. 18 prevede la tutela indennitaria cd. forte (Cass., sez. lav., 25 maggio 2017, n. 13178; conforme, Cass., sez. lav. 17 maggio 2018, n. 12102).

La soluzione adottata da Cass. n. 12174 del 2019 nel contesto del d.lgs. n. 23 del 2015

Come anticipato supra (§ 3.), il legislatore delegato, nel dibattito suscitato dalla dizione contenuta nel nuovo art. 18, st. lav., ha adottato la specifica locuzione “fatto materiale contestato” quale discrimine che giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria. Ed è stato fin troppo facile notare che il decreto legislativo sembra aver recepito e “cristallizzato” in norma l'interpretazione fornita dalla sentenza della Cass., sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669 (v. supra § 5.), non solo per l'espressa qualificazione del fatto come “materiale” ma anche per l'altrettanto espressa esclusione della valutazione circa la sproporzione ai fini della selezione della tutela applicabile, opzione quest'ultima confermata dalla caducazione del rinvio alla contrattazione collettiva ed ai codici disciplinare.

In tale mutato contesto, si pone la questione circa la “sorte” del fatto materiale contestato, accertato come sussistente, ma privo di valenza disciplinare. E se l'espressa qualificazione del fatto recepita nella norma (per l'appunto “fatto materiale”) dovrebbe spingere a considerare unicamente la sola condotta realizzatasi nella realtà fenomenica, comprensiva cioè unicamente di azione o omissione, nesso di causalità ed evento, argomenti letterali e sistematici continuano a militare a favore della tesi dell'equivalenza fra “fatto insussistente” e “fatto lecito”, a partire dalla conservazione dell'attributo “contestato” – che necessariamente rimanda ad un comportamento passibile di rilievo disciplinare – sino al canone della ragionevolezza e plausibilità, già utilizzato da Cass., sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540 (v. supra § 5.), per estendere l'ambito della tutela reale al fatto giuridicamente irrilevante. E proprio l'espresso riferimento alla “insussistenza materiale” del fatto, contenuto in tale pronuncia, sembra autorizzare la trasposizione del principio enunciato in ordine al novellato art. 18 al diverso contesto del contratto a tutele crescenti, lasciando intendere che anche la qualificazione del fatto come “materiale” implichi la necessaria “offensività” della condotta in contestazione.

Tale assunto è stato recepito nella decisione in commento, che ha mutuato l'opzione ermeneutica adottata dalla giurisprudenza di legittimità nell'esegesi del comma 4 dell'art. 18, st. lav. proprio a partire dalla sentenza dianzi citata. Infatti, il Collegio ha ritenuto che, pur nel mutato contesto normativo qualificato dall'espressa menzione della materialità del fatto, il perdurante riferimento alla “contestazione” e l'argomento logico-razionale della assoluta sovrapponibilità della condotta materialmente inesistente a quella disciplinarmente irrilevante o non imputabile inducono ad adottare la medesima interpretazione già elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, quale diritto vivente, in modo da ricomprendere nell'insussistenza del fatto contestato «non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente».

L'interpretazione accolta è stata ulteriormente suffragata con la necessità di addivenire ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, «dovendosi, al riguardo, affermare che qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all'agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell'ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità».

Infine, nella decisione in commento sono state richiamate anche le pronunce con cui la Corte costituzionale ha sottolineato il fondamentale rilievo del diritto al lavoro, che non può essere sacrificato senza un valido motivo, anche alla luce della Carta sociale europea.

Conclusioni

L'approdo ermeneutico cui la Corte di cassazione è giunta, in continuità con la linea già assunta in riferimento al comma 4 del nuovo art. 18, st. lav. pur nel contesto parzialmente mutato del Jobs act, è pienamente condivisibile - per le ragioni ampiamente sopra considerate - e rappresenta la risposta offerta dalla giurisprudenza di legittimità a chi invocava un autorevole intervento per scongiurare il rischio di interpretazioni che, privilegiando il dato letterale della materialità del fatto, disattendessero il principio della necessaria offensività del fatto contestato, correttamente rapportato nella decisione in commento ad una lettura costituzionalmente orientata della norma.

Se, dunque, è stato collocato un importante tassello nella ricostruzione esegetica del “fatto materiale contestato”, ulteriori, non secondarie, questioni si profilano nel futuro orizzonte decisorio allorché si renda necessario tracciare la linea di confine fra gli elementi rilevanti ai fini della configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo e quelli invece valutabili per l'individuazione della tutela - reintegratoria ovvero indennitaria - da accordare al lavoratore, soprattutto nei casi di recesso per giusta causa riferito a condotta extralavorativa, la cui stessa valenza disciplinare dipende dalla presenza o assenza di determinate circostanze, che, pertanto, valgono ad integrare o meno la causale giustificativa e, nel contempo, ad aprire la strada verso la tutela reale (come riconosciuto nella ipotesi di svolgimento di attività lavorativa in costanza di malattia da Cass., sez. lav., 7 febbraio 2019, n. 3655, v. supra § 5.).

Per approfondimenti sul tema sia consentito il rinvio a I. Fedele, Il licenziamento disciplinare, ne “Il licenziamento”, a cura di L. Di Paola, seconda edizione, Giuffré, 2019.

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