Profili tributari delle cripto-valute in Italia: lo “stato dell’arte”

Lorenzo Savastano
30 Luglio 2019

La tassazione delle valute virtuali in Italia, a dieci anni dalla loro comparsa, inizia ad assumere i tratti di una vera e propria disciplina autonoma che – analogicamente – attinge i suoi contenuti dalle norme fiscali in materia di operazioni in valuta estera. Un micro-sistema normativo che necessita, tuttavia, di una costante (e finora imprescindibile) etero-integrazione con il comparto anti-riciclaggio di cui al D.Lgs. n. 231/2007, dal quale mutua le definizioni di valuta virtuale e di Virtual Asset Service Provider, parzialmente inseriti tra i soggetti obbligati al rispetto dei presidi di contrasto ivi contemplati. Nel presente contributo si tenterà una rassegna complessiva dei principali approdi interpretativi e di prassi raggiunti dall'Amministrazione finanziaria sul trattamento delle cripto-valute ai fini IVA, IReS. ed IRPeF, nonché delle possibili conseguenze – sul fronte dell'accertamento – derivanti dalle importanti novità in materia di monitoraggio fiscale di virtual asset.
Valuta virtuale: una definizione tecnica

Nel 2008 viene reso pubblico online un documento denominato “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System” (Satoshi Nakamoto, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System, 2008), redatto da uno o più autori riuniti sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, in cui viene descritta la possibilità di sviluppare una moneta virtuale in grado di replicare le stesse caratteristiche della tradizionale moneta avente corso legale: irreversibilità delle operazioni, sicurezza, anonimato ed assenza di costi di transazione. Inoltre, ed è questo il vero quid novi, il paper di Nakamoto descrive una moneta decentralizzata, ovvero non emessa e/o regolata da un'autorità centrale, perché basata unicamente su un protocollo informatico – denominato Blockchain – in grado di validare e certificare cronologicamente, in una “catena di blocchi” immodificabile, le transazioni avvenute tra una rete di utenti (tra la vasta letteratura sorta sul tema, si segnalano, ex pluribus: D. CAPOTI – E. COLACCHI – M. MAGGIONI, Bitcoin Revolution, Milano, 2015; R. FERRARI, L'era del Fintech, Milano, 2016).

Alla base del processo del network Bitcoin vi è, poi, l'attività di mining, che ne rappresenta l'aspetto fondamentale che sorregge la struttura complessiva. Tale attività, difatti, che si traduce nella generazione di nuovi bitcoin mediante la risoluzione di algoritmi matematici tramite calcolatori dotati di elevata potenza computazionale (i.e. i miners), assolve – principalmente – tre funzioni nodali:

  • la verifica delle transazioni e la convalida dei blocchi della Blockchain;
  • la prevenzione di fenomeni frodatori di double spending (ovvero il compimento di più di una transazione con il medesimo bitcoin);
  • la raccolta di fee (ovvero commissioni) delle transazioni, che incentivano (remunerandoli) altri miners a proseguire nella loro opera di generazione di valuta virtuale, inducendo così il sistema ad andare avanti.

Il paradigma di funzionamento dei bitcoin è la crittografia: ogni possessore di valuta virtuale ha, infatti, a disposizione sia una chiave pubblica – visibile anche agli utenti della rete ed identificativa di un determinato indirizzo al quale inviare o dal quale trasferire disponibilità monetarie – sia una chiave privata, detenuta unicamente dal gestore e/o disponente del digital wallet, ovvero del deposito dei valori digitali.

Bitcoin, lanciato nel 2009, è stata la prima valuta virtuale convertibile decentralizzata, e la prima criptovaluta in senso tecnico, ispirando le linee essenziali anche degli altri virtual asset presentati negli anni successivi (unitamente a Bitcoin, e a esso ispirato, vi è infatti una congerie di criptovalute che, parimenti, sono sia math-based sia, soprattutto convertibili e decentralizzate. Esempi di maggior rilievo sono, attualmente, Ripple, PeerCoin, Lite-coin, zerocoin, anoncoin e dogecoin).

Valuta virtuale: una definizione giuridica

Un'indagine sui tentativi definitori della nozione di virtual currency può essere condotta prendendo abbrivio da un report emesso dal Financial Action Task Force (FATF) del G-20 nel 2015, in cui la valuta virtuale è descritta come “(…) a digital representation of value that can be digitally traded and functions as (1) a medium of exchange; and/or (2) a unit of account; and/or (3) a store of value, but does not have a tender status (i.e. when tendered to a creditor, is a valid and legal offer of payment) in any jurisdiction. It is not issued nor guaranteed by any jurisdiction, and fulfils the above functions only by agreement within the community of users of the virtual currency” (FATF, Virtual Currencies – Guidance for a risk-based approach, 2015).

Si tratta, a ben vedere, di una definizione composita che al suo interno contiene tutte le caratteristiche distintive del cd. denaro digitale, evidenziandone in particolare il tratto fisionomico della decentralizzazione: la capacità, cioè, di prescindere dall'intervento del sistema bancario, nella tradizionale funzione di prestatore del denaro e (soprattutto) garante del valore della moneta tradata, basandosi – di conseguenza – meramente su una “convenzione” accettata tra i trader della medesima comunità digitale.

Ciò che traspare dalla definizione del FATF è, dunque, la dimensione più tipicamente monetaria della valuta virtuale, intesa sia come sistema di pagamento che come unità di conto delle transazioni. Successivi interventi in materia, da parte di altri Organismi intergovernativi ed Istituzioni transnazionali, stratificatisi nell'ultimo lustro, hanno ulteriormente raffinato la definizione di cripto-valuta, senza tuttavia tradire l'impostazione adottata dalla task force anti-riciclaggio del G-20.

Ciò emerge, con particolare nitore, in – almeno – altri tre documenti ufficiali, ovvero:

  1. nella sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE) nella causa C-264/14 del 22 ottobre 2015, afferente l'imponibilità ai fini I.V.A. delle prestazioni di servizi offerte dai convertitori professionali di valuta virtuale in valuta avente corso legale (cd. exchanger). In tale pronuncia, in particolare, i giudici europei lucidamente evidenziano che le valute virtuale sono cosa diversa dalle monete elettroniche, definite dalla Direttiva 2009/110/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009, dal momento che l'unità di calcolo delle cripto-valute non è espressa secondo parametri monetari tradizionali (ad esempio in euro), bensì virtuali (ad esempio in bitcoin);
  2. nel documento emesso dall'European Bank Authority (EBA) denominato “Opinion on virtual currencies”, del luglio 2014, in cui le valute virtuali sono definite come “(…) a digital representation of value that is neither issued by a central bank or public authority nor necessarily attached to fiat currencies, but is used by natural or legal persons as a means of exchange and can be transferred, stored or traded electronically”. Come la CGUE, quindi, anche l'EBA sottolinea la differenza tra le valute virtuali ed i valori monetari elettronici, non rappresentando i primi un credito verso l'emittente, dal momento che non sono “generati” da un'autorità responsabile della politica monetaria di un'area valutaria, bensì “creati” dagli stessi utenti mediante il peculiare processo di mining;
  3. in una analisi della Banca Centrale Europea (BCE) del 2012 (BCE, Virtual Currency Schemes, 2012), in cui – dopo aver rassegnato gli sviluppi dei tradizionali mezzi di pagamento – viene proposta la seguente definizione di valuta virtuale: “virtual currency is a type of unregulated, digital money, which is issued and usually controlled by its developers, and used and accepted among the members of a specific virtual community”. Tornando sul tema nel 2015 (BCE, Virtual currency schemes – a further analysis, 2015), la BCE, pur riconoscendo l'esistenza di varie accezioni di virtual currencies a seconda della prospettiva di osservazione (e.g. tributaria, finanziaria, anti-riciclaggio), emenda la precedente definizione, epurando i termini ‘money' e ‘unregulated'. Sul primo lemma, difatti, la BCE osserva come sia divenuto chiaro che l'assimilazione tra valute virtuali e valute tradizionali sia limitata dall'incapacità delle prime di assicurare il medesimo grado di liquidità delle seconde, nonché di raggiungere la stessa diffusione e grado di “accettazione”. Inoltre, in merito all'attributo unregulated, la Banca Centrale osserva come diverse giurisdizioni abbiamo ormai adottato specifiche normative per fronteggiare gli aspetti più innovativi (ed aggressivi) del fenomeno. Infine, la BCE depenna l'espressione “used and accepted among the members of a specific virtual community”, pur ammettendo che un peer-to-peer networks ben possa essere considerato come una comunità virtuale. Ciò posto, l'istituto bancario europeo conclude asserendo che una valuta virtuale è: “a digital representation of value, not issued by a central bank, credit institution or e-money institution, which, in some circumstances, can be used as an alternative to money”.

A livello domestico la Banca d'Italia si è occupata del fenomeno in commento nell' “Avvertenza sull'utilizzo delle c.d. ‘valute virtuali'” del 30 gennaio 2015, allineandosi agli orientamenti già espressi in sede europea e ribadendo come le virtual currencies non siano meramente una rappresentazione digitale delle comuni valute a corso legale (sia fiat che elettroniche), attesa l'assenza di una banca centrale emittente di una regolamentazione specifica. Non avendo corso legale, pertanto, la Banca d'Italia assevera che le valute digitali “non devono per legge essere obbligatoriamente accettate per l'estinzione delle obbligazioni pecuniarie”, ma riconosce – tuttavia – come le stesse ben possano essere utilizzate per acquistare beni e servizi, a condizione che il venditore sia disposto ad accettarle.

In ultima analisi, ciò che distintamente traspare dalle definizioni finora rassegnate, è una convergenza sulla dimensione strettamente monetaria delle valute virtuali, ponendosi le stesse come atipico mezzo di pagamento nel regolamento di una transazione tra due soggetti disposti ad attribuire loro valore liberatorio dell'obbligazione.

Un'impostazione che, coerentemente, affiora anche nella prima (e finora unica) definizione positiva di valuta virtuale inserita nell'ordinamento giuridico italiano, ovvero nell'art. 1, comma 2, lett. qq) del D.Lgs. n. 231/2007 (Recante: “Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché' della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”), afferente - come noto – i presidi di contrasto al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo (AML-TF), in cui la stessa è definita apertis verbis come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un' autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

Ebbene, preme da subito rilevare come l'analisi del trattamento tributario delle cripto-valute in Italia non possa prescindere da una puntuale etero-integrazione con le definizioni e gli adempimenti richiesti dalla normativa domestica ed europea nel settore AML-TF, trattandosi dell'unico settore finora direttamente plasmato dall'impatto del fenomeno del denaro digitale. Una contaminazione che, tuttavia, non stupisce, essendo le discipline di contrasto al riciclaggio internazionale di denaro e all'evasione fiscale da sempre intrecciate in un rapporto dialogico tra loro, soprattutto in punto di trasmigrazione dei dati acquisiti in ambito AML-TF per una successiva valorizzazione tributaria.

Ciò anche alla luce del disposto dell'art. 9, comma 9 del novellato D. Lgs. 231/2007 che, nel disciplinare le attribuzioni del Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza e della Direzione Investigativa Antimafia, stabilisce che i dati e le informazioni acquisite in esecuzione di ispezioni e controlli antiriciclaggio, ovvero in fase di sviluppo investigativo di una segnalazione di operazione sospettasono direttamente utilizzabili ai fini fiscali, secondo le disposizioni vigenti, senza necessità di acquisire nuovamente tali dati attraverso l'attivazione delle potestà ispettive di polizia tributaria previste dalle disposizioni di cui ai decreti presidenziali nn. 633/1972 e 600/1973 (La valenza sistematica della nuova disciplina in materia di utilizzabilità ai fini fiscali delle informazioni antiriciclaggio è, del resto, confermata anche dalla sua collocazione tra le disposizioni di carattere generale recate dal “Titolo I” del novellato D.Lgs. n. 231/2007. Sul punto: Circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza, Vol. II).

Il trattamento fiscale delle valute virtuali

In limine, conviene osservare come il trattamento tributario delle valute virtuali muti in funzione delle caratteristiche soggettive dell'utilizzatore. In particolare, occorrerà distinguere, da una parte, gli operatori professionali specializzati nell'erogazione di servizi afferenti l'impiego, la custodia e/o lo scambio di virtual asset, e, dall'altra, i singoli investitori privati, sia quando gli stessi siano animati da finalità speculative, sia qualora tale animus sia assente.

Tassazione delle valute virtuali per gli operatori professionali

L'art. 1, comma 2, lettera ff) del D. Lgs. n. 231/2007 definisce i prestatori di servizi relativi all'utilizzo di valuta virtuale (anche noti nella letteratura di settore con l'acronimo VASP, Virtual Asset Service Provider) come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all'utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”.

Sul punto, tuttavia, occorre precisare come la normativa nazionale AML-TF trovi applicazione nei confronti dei VASP “limitatamente allo svolgimento dell'attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”, rientrando nel più ampio genus normativo degli “altri operatori non finanziari”, descritto all'art. 3, comma 5, lettera i) del citato decreto (rubricato “Soggetti obbligati”).

In tal modo sono inclusi nel perimetro di applicazione soggettiva della normativa i soli VASP che erogano servizi di exchanger (ovvero di conversione di valuta virtuale con valuta avente corso legale, sia in formato elettronico che fiat money), ma non altri prestatori di servizi parimenti ad elevato rischio riciclaggio e/o finanziamento del terrorismo, come ad esempio i fornitori di servizi connessi a digital wallet, ovvero specializzati nella prestazione di servizi di crittografia per la custodia di valori virtuali (cd. custodial wallet). Si tratta di una scelta normativa che – oltre a creare un significativo disallineamento con la disciplina europea tratteggiata dalla cd. V direttiva antiriciclaggio* nonché con la raccomandazione nr. 15 delle FATF's Guidelines (rubricata: “New Technologies”) – pone, come vedremo, severe conseguenze anche sul fronte tributario, in punto di corretto assolvimento degli obblighi sul cd. monitoraggio fiscale da parte degli operatori in valuta virtuale, depotenziandone significativamente la portata applicativa.

*In evidenza
Direttiva UE n. 843/2018 del 30 maggio 2018), modificativa della previgente direttiva UE n. 849/2015 (IV Direttiva antiriciclaggio). La V direttiva, difatti, all' art. 3, paragrafo 1, punto 3, lettere g – h, include trai destinatari degli obblghi AML-TF sia sia i prestatori di servizi la cui attività consiste nella “fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute aventi corso forzoso” (cd. exchanger) sia i prestatori di servizi di “portafoglio digitale” (cd. wallet providers). Amplius: L. SAVASTANO – G.L. BERRUTI, Valute virtuali: sulla registrazione dei provider il FATF approva (solo) la scelta europea, in IPSOA - Quotidiano del 29 aprile 2019.

In tale prospettiva, pertanto, sono stati estesi unicamente agli exchanger gli obblighi AML-TF sanciti per i cambiavalute dall'art. 17-bis del D.Lgs. n. 141/2010, richiedendo agli stessi - nello specifico - l'iscrizione in una sezione speciale del Registro tenuto dall'Organismo di cui all'art. 128-undecies del TUB, il cd. OAM (viz. Organismo per la gestione degli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi). Tale iscrizione, inoltre, è subordinata al rispetto dei requisiti previsti dall'art. 17-bis, comma 2 del citato decreto n. 141, ossia la cittadinanza italiana o europea per le persone fisiche (o di altri Stati diversi dai membri UE appositamente individuati), o - in caso di persone giuridiche - la sede legale ed amministrativa (o una stabile organizzazione per i soggetti europei non residenti) sul territorio della Repubblica.

Data la definizione (attinta dalla normativa AML-TF) dei VASP, preme ora rassegnare i recenti orientamenti espressi dall'Amministrazione Finanziaria italiana circa il trattamento fiscale delle peculiari prestazioni da essi erogate.

Trattamento ai fini IVA

In riferimento al trattamento ai fini IVA delle operazioni poste in essere da virtual asset provider, l'Agenzia delle Entrare ha fornito importanti indicazioni con la Risoluzione n. 72/E del 2 settembre 2016 dove, saldandosi agli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella citata causa C-264/14 del 2015, riconosce che le operazioni che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall'operatore ai propri clienti, costituiscono prestazioni di servizio a titolo oneroso.

Sul punto, difatti, la CGUE nella citata sentenza afferma che “la valuta a flusso bidirezionale ‘bitcoin', che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio”, non può essere qualificata come ‘bene materiale' ai sensi dell'art. 14 della Direttiva IVA, dato che, come rilevato dall'Avvocato Generale Juliane Kokott al paragrafo 17 delle sue Conclusioni, tale valuta non ha altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento. Conseguentemente, “le operazioni oggetto del procedimento principale, che consistono nel cambio di diversi mezzi di pagamento, non ricadono nella nozione di ‘cessione di beni', di cui all'art. 14 della Direttiva, bensì in quella di ‘prestazioni di servizi' ai sensi dell'art. 24 della Direttiva IVA” (par. 53).

In particolare, tali operazioni, secondo i giudici europei, rientrano tra le prestazioni “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” di cui all'art. 135, paragrafo 1, lettera e), della Direttiva 2006/112/CE, costituendo pertanto operazioni esenti dall'IVA. Ciò sulla base del fatto che “le esenzioni previste dall'articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva IVA sono intese, segnatamente, a ovviare alle difficoltà collegate alla determinazione della base imponibile nonché dell'importo dell'IVA detraibile che sorgono nel contesto dell'imposizione delle operazioni finanziarie” (par. 48).

Innestandosi su tali conclusioni, la Tax Authority italiana chiarisce che il compenso per tal genere di attività erogate da un VASP (i.e. la cessione e acquisto di valuta virtuale in cambio di valuta tradizionale) è determinato in misura pari al margine che scaturisce dalla differenza (ipotizzando il caso di vendita di bitcoin da parte dell'operatore), da un lato, tra il prezzo che il cliente è disposto a pagare per acquistare una unità di moneta virtuale e, dall'altro, la miglior quotazione del bitcoin stesso disponibile sul mercato. Ciò non solo alla luce del fatto che l'attività di commercializzazione di bitcoin deve essere qualificata quale prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso, essendo gli stessi stati “accettat[i] dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” (Specularmente così si esprime la Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella citata causa C-264/14 del 2015).

Sillogisticamente, dunque, l'Agenzia conclude che l'attività del VASP remunerata attraverso commissioni pari alla differenza tra l'importo corrisposto dal cliente che intende acquistare/vendere bitcoin e la migliore quotazione reperita dalla Società sul mercato, debba essere considerata ai fini IVA quale prestazione di servizi esente ai sensi dell'art. 10, primo comma, n. 3), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

Trattamento ai fini I.Re.S.

Sul fronte dell'imposizione diretta, il medesimo documento di prassi n. 72/E/2006 dell'Agenzia delle Entrate, in coerenza con la Weltanschauung europea sul fenomeno delle cripto-valute, che come detto assimila le stesse a mezzi di pagamento ancorché non tradizionali, ritiene assoggettabili a tassazione i componenti di reddito derivanti dalla attività di intermediazione nell'acquisto e vendita di bitcoin, al netto dei relativi costi inerenti a detta attività.

In particolare, gli elementi di reddito – derivanti dalla differenza (positiva o negativa) tra prezzi di acquisto sostenuti dal VASP e costi di acquisto a cui si è impegnato il cliente (nel caso in cui quest'ultimo abbia affidato al provider l'incarico a comprare) o tra prezzi di vendita praticati dall'exchanger e ricavi di vendita garantiti al cliente (nel caso di affidamento di incarico a vendere) – è ascrivibile ai ricavi (o ai costi) caratteristici di esercizio dell'attività di intermediazione esercitata e, pertanto, contribuiscono quali elementi positivi (o negativi) alla formazione della materia imponibile soggetta ad ordinaria tassazione ai fini IRES (ed IRAP).

Inoltre, in merito alla valutazione dei bitcoin nella disponibilità a fine esercizio, si ritiene che gli stessi debbano essere valutati secondo il cambio in vigore alla data di chiusura dell'esercizio ai sensi dell'articolo 9 TUIR. Sul punto, la più volte richiamata Risoluzione 72/E aggiunge che, a tal fine, potrebbe ben farsi riferimento alla media delle quotazioni ufficiali rinvenibili sulle piattaforme on line in cui avvengono le compravendite di bitcoin.

Tassazione delle valute virtuali per gli investitori privati. Trattamento ai fini I.R.Pe.F.

Con la risposta all'interpello n. 956-39/2018, l'Amministrazione finanziaria ha chiaramente affermato che, ai fini dell'imposizione diretta degli investitori, si applicano alle operazioni di conversione di valuta virtuale i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali. Tassonomicamente, dunque, le ipotesi concretamente verificabili (ed il relativo trattamento fiscale) potranno essere:

  1. Cessioni a pronti di valuta estera, ovvero transazioni in cui si verifica lo scambio immediato di una valuta contro una valuta differente. In tal caso si renderà applicabile il disposto dell'art. 67, c. 1, lett. c-ter) TUIR, a mente del quale il prelievo dal deposito o conto corrente (o dal wallet nel caso di valuta virtuale), si considera cessione a titolo oneroso – imponibile come reddito diverso – solo qualora la giacenza dei depositi, conti correnti e digital wallet complessivamente intrattenuti dal contribuente sia superiore per sette giorni lavorativi consecutivi, ad euro 51.645,69 (Il valore in euro della giacenza media in valuta virtuale va calcolato secondo il cambio di riferimento all'inizio del periodo di imposta, e cioè al 1° gennaio dell'anno in cui si verifica il presupposto di tassazione (cfr. circolare 24 giugno 1998, n. 165), presumendosi iuris et de iure una finalità speculativa altrimenti assente. Operativamente, il valore in euro della giacenza media della valuta virtuale verrà calcolato secondo il cambio di riferimento all'inizio del periodo d'imposta, rinvenibile sul sito di contrattazione della moneta digitale, verificando altresì che in tale anno la anzidetta giacenza si sia protratta per almeno sette giorni lavorativi continui. Qualora tale condizioni non risulti soddisfatta, precisa l'Agenzia, non si considerano deducibili neppure le minusvalenze eventualmente realizzate.
  2. Cessioni a termine di valuta estera: in virtù di quanto disposto dal comma 1, lettera c-ter) dell'art. art. 67 TUIR, sono classificate tra i redditi diversi le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di valute estere oggetto di cessione a termine. In virtù di quanto disposto dall'art. 68, comma 6, del TUIR, la base imponibile delle plusvalenze derivanti dalla cessione a termine di valute è costituita dalla differenza tra il corrispettivo percepito e il costo di acquisto sostenuto dall'investitore. In tal caso il corrispettivo dev'essere determinato sulla base del cambio a termine della valuta, mentre il costo è pari al valore della valuta al cambio a pronti vigente alla data di stipula del contratto di gestione (nelle ipotesi in cui il prelievo dal wallet abbia generato una plusvalenza realizzata mediante una cessione a pronti per cui sia presunta una finalità speculativa o una cessione a termine, la stessa verrà determinata utilizzando il costo di acquisto e che agli effetti della determinazione delle plusvalenze/minusvalenze si considerano cedute per prime le valute acquisite in data più recente, in ossequio al criterio del L.I.FO. (cfr. articolo 67, comma 1-bis, del TUIR).
  3. Redditi derivanti dalla ricezione a titolo gratuitodi valuta virtuale: in tal caso il costo iniziale da considerare – per il calcolo dell'eventuale plusvalenza – è quello sostenuto dal donatore, ai sensi del comma 6 dell'articolo 68 del TUIR;
  4. i redditi derivanti dalle operazioni realizzate sul mercato FOREX e da Contract for Difference (CFD) [Ovvero contratti finanziari derivati regolati dall'articolo 1, comma 4, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza – TUF)] aventi ad oggetto valute virtuali: tali redditi costituiscono redditi diversi ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera c-quater), del TUIR.

I redditi diversi di natura finanziaria derivanti dalle summenzionate operazioni devono essere, infine, assoggettati all'imposta sostitutiva prevista dall'art. 5 del D. Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, attualmente con aliquota del 26% e riportati nel Quadro RT della dichiarazione dei redditi (cfr. risoluzione n. 102/E del 25 ottobre 2011).

Occorre, in ultimo, evidenziare come non sia possibile optare per il regime del cd. risparmio amministrato (cfr. art. 6, 1° e 2° comma del D. Lgs. 461/1997) in caso di valute estere e quindi – in ossequio all'interpretazione fornita dall'Amministrazione finanziaria – anche di valute virtuali. Detto altrimenti, il cliente-investitore non potrà delegare all'intermediario finanziario gli adempimenti fiscali previsti per ciascuna operazione finanziaria, demandandone sia il calcolo dell'eventuale plusvalenza imponibile sia l'applicazione ed il versamento della relativa imposta sostitutiva. Tale conseguenza è, indirettamente, suffragata dalle indicazioni emanate dall'Agenzia delle Entrate nella richiamata Risoluzione n. 72/E, in cui ha precisato che non grava sui VASP alcun adempimento come sostituto d'imposta, nelle operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta effettuate da persone fisiche (clienti) che detengono bitcoin al di fuori dell'attività d'impresa, mancando de iure la finalità speculativa sottesa alla movimentazione.

Il tracciamento di tali operazioni, nonché l'identificazione dei disponenti e dei beneficiari effettivi delle transazioni, volto a contenere gli elevati rischi sia di riciclaggio che di evasione fiscale, è pertanto unicamente affidato ai tradizionali presidi sanciti dalla normativa nazionale ed europea in ambito di anti-riciclaggio e finanziamento del terrorismo, rivolti – come noto – ad una platea limitata di operatori finanziari e non finanziari, tra cui anche gli exchanger di asset virtuali a fronte del nuovo art. 3, comma 5, lettera i) del D. Lgs. 231/2007.

A tale lacuna, si lasci notare, potrebbe ovviare un ampliamento oggettivo dello specifico obbligo dichiarativo valutario previsto dall'art. 3, primo comma, del D.Lgs. n. 195 del 19 novembre 2008 (Recante: “Modifiche ed integrazioni alla normativa in materia valutaria in attuazione del regolamento (CE) n. 1889/2005”), a mente del quale “Chiunque entra nel territorio nazionale o ne esce e trasporta denaro contante di importo pari o superiore a 10.000 euro deve dichiarare tale somma all'Agenzia delle dogane. L'obbligo di dichiarazione non è soddisfatto se le informazioni fornite sono inesatte o incomplete”. A tal fine, difatti, il legislatore potrebbe intervenire ampliando l'attuale definizione di “denaro contante” prevista dalla lettera c) del primo comma dell'art. 1 del D. Lgs. 195/2008, a mente del quale per denaro contante si intendono unicamente le banconote e le monete metalliche aventi corso legale, ovvero gli strumenti negoziabili al portatore, compresi gli strumenti monetari emessi al portatore quali traveller's cheque; gli strumenti negoziabili, compresi assegni, effetti all'ordine e mandati di pagamento, emessi al portatore, girati senza restrizioni, a favore di un beneficiario fittizio o emessi altrimenti in forma tale che il relativo titolo passi alla consegna; gli strumenti incompleti, compresi assegni, effetti all'ordine e mandati di pagamento, firmati ma privi del nome del beneficiario.

De iure condendo, quindi, in caso di trasferimento di valuta virtuale da un wallet verso/da l'estero – inclusi gli Stati membri dell'Unione Europea – per importi superiori a 10.000 euro, scatterebbe in capo alla persona fisica l'obbligo di comunicazione – anche telematica – all'Agenzia delle Dogane della singola movimentazione monetaria. La violazione di tale onere dichiarativo comporterebbe, salvo la possibilità di oblazione di cui all'art. 7 del medesimo decreto, l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 9, ovvero la sanzione amministrativa pecuniaria, con un minimo di 300 euro, dal 10 al 30% dell'importo trasferito o che si tenta di trasferire in eccedenza rispetto alla soglia dei 10.000 euro, se tale valore non è superiore a 10.000 euro; o dal 30 al 50% dell'importo trasferito o che si tenta di trasferire se il valore dell' eccedenza è superiore a 10.000 euro.

Compilazione del Quadro RW

Nel citato interpello n. 956-39/2018, l'Agenzia delle Entrate si sofferma, inoltre, sulle modifiche apportate alla disciplina sul cd. monitoraggio fiscale di cui al D.L. 28 giugno 1990, n. 167, dal D. Lgs. 25 maggio 2017, n. 90. Come evidenziato dall'Amministrazione finanziaria, in particolare, tramite tale modifica normativa: “(…) sono stati estesi gli obblighi di monitoraggio fiscale, ordinariamente previsti per gli intermediari bancari e finanziari, altresì ai soggetti (cd. ‘operatori non finanziari') che intervengono, anche attraverso movimentazione di ‘conti', nei trasferimenti da o verso l'estero di mezzi di pagamento effettuate anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000 euro”.

Inoltre, riprendendo le indicazioni diramate con la circolare n. 38/E del 23 dicembre 2013, l'Agenzia delle Entrate specifica come l'obbligo di predisposizione del Quadro RW sia già stato esteso anche alle attività finanziarie estere detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari residenti, e quindi – alla luce della novella normativa – a fortiori anche per il tramite dei richiamati VASP.

Gli orientamenti delineati nella risposta all'interpello in parola hanno, infine, trovato una trasposizione concreta nelle recenti Istruzioni alla compilazione Dichiarazione dei redditi - Persone fisiche 2018 diramate dall'Agenzia delle Entrate. In particolare, in merito alla corretta compilazione del Quadro RW (art. 4. D.L. n. 167/1990), è stato precisato che:

  • nella tabella dei “codici attività detenute all'estero” occorrerà indicare anche le valute virtuali (con codice 14);
  • nel caso delle valute virtuali, inoltre, il codice dello Stato estero può essere omesso.

Un'indicazione che sacramenta in un adempimento formale un fenomeno tributario complesso, ratificando la caratteristica a-territorialità delle cripto-valute, sfuggenti rispetto al consueto binomio della residenza e della fonte del reddito, tipico delle componenti di reddito con carattere di transnazionalità.

In ultimo, l'Amministrazione finanziaria precisa come le valute virtuali non siano soggette all'imposta sul valore dei prodotti finanziari, dei conti correnti e dei libretti di risparmio detenuti all'estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato (cd. IVAFE), dal momento che tale imposta trova applicazione solo con riferimento ai depositi e conti correnti esclusivamente di natura bancaria (Cfr. Circolare 28/E dell'Agenzia delle Entrate).

Prime considerazioni sul monitoraggio fiscale delle valute virtuali

L'art. 1, comma 1, del D.L. n. 167/1990, prevede che gli intermediari ed i prestatori di servizi relativi all'utilizzo di valute virtuali trasmettano i dati acquisiti nell'ambito degli adempimenti anti-riciclaggio, unitamente alle banche, riferiti ai bonifici effettuati nei confronti di provider non residenti. Pertanto, la mancata compilazione del Quadro RW, potrebbe far scattare le sanzioni previste dall'art. 5 ovvero, a seconda della fattispecie, dall'art. 12 del decreto legge de quo discimur,che prevedono in caso di violazione dell'obbligo dichiarativo, l'applicazione della sanzione dal 3 al 15% degli importi non indicati, con la previsione del raddoppio della penalità in caso di detenzione delle attività finanziarie in Paesi c.d. black list.

Come evidenziato dalla prima dottrina formatasi in materia (S. CAPACCIOLI- D. DEOTTO, Bitcoin da riportare in RW ma resta in nodo della “chiave”, Milano 3 giugno 2019, i quali recisamente affermano che: affermando che “il legame territoriale delle penalità ha una sua coerenza soltanto per le valute virtuali detenute attraverso i prestatori di servizi di portafogli digitali”.), ai fini delle richiamate sanzioni previste dalla normativa sul monitoraggio fiscale, diventa allora nodale la corretta individuazione delle modalità (rectius: del luogo) di custodia della cd. chiave privata del wallet che – per quanto detto in apertura del presente contributo – rappresenta il sintomo della titolarità effettiva e della piena capacità di disporre delle risorse monetarie digitali. Tale private key potrà, difatti, alternativamente essere:

  1. detenuta dalla persona fisica proprietaria del wallet: in tal caso il luogo di detenzione delle valute virtuali coincide allora con lo Stato ove il contribuente ha la propria residenza ai fini tributari. Di conseguenza, l'obbligo dichiarativo del monitoraggio fiscale non potrà essere ritenuto realizzato non configurandosi una dissociazione territoriale tra la residenza del proprietario della valuta virtuale ed il luogo di detenzione della risorsa finanziaria;
  2. gestita da terzi (ossia dai uno dei VASP disciplinati dalla cd.V direttiva europea antiriciclaggio), perfezionandosi – in tal caso – l'obbligo di indicazione del valore digitale posseduto nel quadro RW. In tale ultima categoria, tuttavia, a fronte delle modifiche normative apportate al D.Lgs. 231/2007, dovrà operarsi un'ulteriore discrimen fra:

  • Provider professionali specializzati nel servizio di scambio bidirezionale tra valuta virtuale e valuta tradizionale(cd. exchanger): i quali, come detto, sono chiamati – ai sensi della normativa anti-riciclaggio italiana – a richiedere l'iscrizione nell'apposita sezione speciale del Registro tenuto dall'Organismo di cui all'art. 128-undecies del TUB;
  • Provider specializzati nella custodia di valori digitali in quanto detentori della cd. chiave privata (custodial wallet), non gravati dal medesimo obbligo di registrazione ai sensi della normativa domestica al momento vigente.

È di palmare evidenza, dunque, come la rinnovata disciplina sul monitoraggio fiscale risulti essere notevolmente depotenziata a fronte dell'assenza di una previsione normativa che imponga ai detentori di chiavi private residenti o esteri con operatività in Italia, di palesarsi all'Amministrazione finanziaria ed alle altre Autorità di controllo, mediante l'iscrizione in un albo centrale e, soprattutto li sottoponga al rispetto degli stingenti presidi anti-riciclaggio, fra cui l'obbligo di segnalazione di operazioni sospette ed individuazione del beneficiario effettivo di una transazione.

Una lacuna normativa che, palesemente, rischia di creare delle gravi asimmetrie informative laddove i detentori di risorse monetarie digitali abbiano affidato i propri virtual asset a gestori specializzati in custodial wallet service, anche non residenti, con evidenti ripercussioni sull'efficacia delle attuali strategie di contrasto all'evasione fiscale internazionale e alle condotte di riciclaggio transnazionale di capitali illeciti.

Le conseguenze (non solo) virtuali del nuovo Quadro RW

In conclusione, non si possono tacere gli eventuali sviluppi contenziosi nonché i presumibili scenari applicativi che la disciplina del monitoraggio fiscale, applicato alle cripto-valute, potrà comportare, soprattutto in riferimento ai peculiari regimi presuntivi vigenti in subjecta materia.

In particolare, pare intravedersi, come immediato corollario discendente dall'inserimento delle valute virtuali nel Quadro RW quali disponibilità finanziarie detenute all'estero, l'applicazione della:

  • presunzione relativa di realizzazione di redditi sottratti a tassazione in Italia in relazione alle attività detenute nei Paesi black list in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale (ai sensi dell'art. 12, secondo comma, del D.L. n. 78/2009), qualora il custodial wallet provider sia ivi individuato: una possibilità a sua volta “virtuale” non essendo al momento previsto in Italia – per quanto detto – un registro ad hoc che raccolga le informazioni su tale tipologia di prestatori di servizi (Inoltre, la medesima disposizione, al comma 2-ter, prevede che per le violazioni alla disciplina del monitoraggio fiscale riferite agli investimenti e alle attività di natura finanziaria, i termini di cui all'articolo 20 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, sono raddoppiati);

  • presunzione relativa di fruttuosità degli investimenti esteri e delle attività estere di natura finanziaria, per i quali non sono stati dichiarati i redditi effettivi, salvo che, in sede di dichiarazione dei redditi, venga specificato che si tratta di redditi la cui percezione avviene in un successivo periodo d'imposta, o sia indicato che determinate attività non possono essere produttive di redditi. (di cui all'art. 6 D.L. del 167/1990).

Si tratta, chiaramente, di ipotesi sottoposte ancora al vaglio dell'osservazione empirica e finora sguarnite di orientamenti specifici dell'Amministrazione finanziaria.

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