Trasferimento d'azienda invalido: la retribuzione corrisposta dal cessionario non libera il cedente in presenza di “mora accipiendi”
01 Agosto 2019
Massima
In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112, c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell'alienante da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa Il caso
Alcuni lavoratori, a seguito di sentenza con la quale è stata dichiarata nulla la cessione di azienda effettuata dall'alienante/datore - con conseguente statuizione di ripristino dei rapporti di lavoro -, agiscono, non essendo stati riammessi a prestare la propria attività dal predetto datore, per il conseguimento delle retribuzioni a far data dalla offerta della prestazione lavorativa (ossia dalla c.d. “messa in mora”).
La pronuncia di accoglimento emessa in primo grado viene riformata in appello, stante la ritenuta operatività, una volta attribuita natura risarcitoria alle pretese monetarie, del principio di detraibilità dell'“aliunde perceptum”, avendo i lavoratori continuato a lavorare a beneficio il cessionario pur dopo la originaria statuizione di nullità della cessione. La S.C. cassa la sentenza di appello, enunciando il sopra riportato principio. La questione
La questione in esame é la seguente: una volta dichiarata nulla la cessione di azienda e disposta la ricostituzione del rapporto di lavoro con l'azienda cedente, possono essere detratte, dalle poste monetarie pretese a titolo retributivo dal lavoratore - illegittimamente non riammesso al lavoro nonostante l'avvenuta offerta, da parte del medesimo, delle prestazioni lavorative -, le retribuzioni corrisposte dall'azienda cessionaria presso la quale egli abbia comunque continuato a lavorare pur dopo la declaratoria di nullità della cessione? Le soluzioni giuridiche
La S.C. dà al quesito risposta negativa, utilizzando tre centrali argomentazioni (su cui si tornerà analiticamente infra):
a) una volta messo in mora l'originario datore (ossia il cedente), le somme pretese nei confronti di quest'ultimo dal lavoratore hanno natura retributiva, onde non può operare l'istituto dell'aliunde perceptum, la cui applicabilità è prevista solo in presenza di poste aventi natura risarcitoria;
b) non vi è nessuna norma di diritto positivo che consenta di scomputare da tali dovute somme quanto dal lavoratore percepito a titolo retributivo per l'opera prestata presso terzi; infatti,
c) non possono venire in considerazione le disposizioni - ai fini di una interpretazione estensiva o analogica delle stesse - dell'ordinamento che ammettono l'effetto liberatorio, per il vero datore di lavoro, del pagamento effettuato dallo pseudo-datore, giacché incompatibili strutturalmente con la fattispecie della cessione di azienda invalida; né può essere utilizzata la regola che ammette la “detraibilità” nell'ipotesi di licenziamento illegittimo assoggettato a tutela reale, poiché la regola in questione é espressione di un principio di settore non esportabile in altri ambiti.
La Cassazione, pertanto, ribalta un indirizzo che, pur nella non perfetta coincidenza delle motivazioni di fondo, pareva consolidato.
Si allude, quanto al profilo sub a), a Cass. 5 dicembre 2016, n. 24817, ove è affermato che “Nell'ipotesi di cessione di ramo d'azienda dichiarata illegittima, le erogazioni patrimoniali, eventualmente commisurate alle mancate retribuzioni, cui è obbligato il datore di lavoro cedente che non proceda al ripristino del rapporto lavorativo, vanno qualificate come risarcitorie, con conseguente detraibilità dell'aliunde perceptum che il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsiasi attività lucrativa” (in senso analogo v. Cass. 9 settembre 2014, n. 18955, seguita da Cass. 25 giugno 2018, n. 16694: “In caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento”).
A tal riguardo, il mutamento di rotta è fatto dipendere dall'intervento di Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, in cui è puntualizzato che “La declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell'ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa”.
Pur se il suddetto principio è riferito all'istituto dell'interposizione di manodopera in senso lato, il giudice delle leggi - Corte cost. 28 febbraio 2019, n. 29 - lo ha ritenuto espressione del diritto vivente “sopravvenuto” anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione di azienda affetta da invalidità.
Quanto ai profili sub b) e c), si era provvisoriamente affermato l'insegnamento di Cass. 31 maggio 2018, n. 14019 - successiva alla citata sentenza delle Sezioni unite - ove si legge, per quanto qui interessa, che “Dalla ritenuta spettanza delle retribuzioni per il periodo successivo alla realizzata illegittima cessione del ramo d'azienda non deriva tuttavia la conseguenza della possibilità di cumulare due retribuzioni (quella dovuta dal cedente e quella percepita dal cessionario). E difatti, le Sezioni unite hanno applicato al caso esaminato di interposizione fittizia di manodopera nell'appalto di servizi il disposto dell'art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, dettato in tema di somministrazione irregolare e richiamato dal comma 3-bis dell'art. 29, d.lgs. n. 276 del 2003, che disciplina l'appalto illecito, secondo cui “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”. Nell'effettuare tale richiamo, hanno ricondotto l'art. 27, d.lgs. n. 276 del 2003, ai principi del diritto comune, ed in particolare alla disciplina dettata dagli artt. 1180, comma 1, c.c. e 2036, comma 3, c.c. che regolano l'adempimento del terzo e l'indebito soggettivo. Tale soluzione manifesta e ribadisce la portata dell'efficacia satisfattiva del pagamento del terzo […]. Resta così confermato che l'obbligazione rimane unica e non si duplica, anche se venga adempiuta da un soggetto diverso dal vero debitore […]. Applicando dunque i principi sopra esposti, ne deriva che, una ed una sola essendo la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo (illegittimamente) ceduto, il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituisce un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo, cui consegue la liberazione del vero obbligato, in applicazione del medesimo principio generale previsto dal comma 1 dell'art. 1180, c.c., Con la conseguenza che il lavoratore non potrà ottenere dal cedente la medesima retribuzione già corrispostagli dal cessionario, ma solo le differenze rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo”.
L'insegnamento in questione viene superato sulla base delle seguenti considerazioni:
1) non opera, nel caso, l'istituto dell'adempimento del terzo, poiché il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l'utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell'attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un'obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui;
2) non è applicabile l'art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, in materia di somministrazione irregolare, poiché il dato testuale che connette l'effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente utilizzato la prestazione” esclude ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consenta l'applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l'impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. Vi è pertanto una incompatibilità strutturale tra fenomeni interpositori e cessioni di ramo d'azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto, poiché nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell'unico rapporto, mentre nel secondo caso l'impresa cedente non è il soggetto che utilizza la prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione d'impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito proprio;
3) il principio di non detraibilità trova un punto di aggancio nel passaggio motivazionale di Corte cost. 28 febbraio 2019, n. 29, citata, in cui si legge che “Secondo le Sezioni unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione. Nella ricostruzione delle Sezioni unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all'area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di questa Corte, relative alle conseguenze dell'illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, l. 4novembre 2010, n. 183). Infatti, come precisato nella suddetta pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva”. Osservazioni
In primo luogo, è condivisibile il rilievo (sopra riportato sub 1) che il cessionario, corrispondendo la retribuzione, adempie ad una obbligazione propria, dal momento che proprio egli, e non il cedente, ha fruito della prestazione resa dal lavoratore, con conseguente inapplicabilità, al caso, dell'art. 1180, c.c. Sarebbe da valutare, tuttavia, l'obiezione secondo cui a beneficiare della prestazione sarebbe, in effetti, l'azienda che è ritornata in proprietà del cedente; ma qui potrebbe ribattersi che la società cessionaria si avvantaggia comunque del risultato della prestazione lavorativa, poiché il profitto finale, pur con l'utilizzo dell'azienda del cedente, resta pur sempre nelle casse della predetta società.
In secondo, è plausibile la considerazione (sopra illustrata sub 2) che l'art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, non è esportabile – in quanto nelle ipotesi interpositorie il pagamento è effettuato dallo pseudo datore, ossia da colui che non ha beneficiato della prestazione - nel campo dell'invalidità della cessione di azienda, e, quindi, non può essere espressione di un principio generale.
Infine, è corretta l'affermazione che, a seguito della mora, il lavoratore/debitore della prestazione lavorativa abbia diritto alla controprestazione, ossia alla retribuzione; e a tale conclusione conduce già linearmente la lettura dell'art. 1207, comma 1, c.c., ove è previsto che “Quando il creditore è in mora, è a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore”. Il che, ricondotto al nostro caso, si traduce nella seguente proposizione: “Quando il datore di lavoro è in mora, è a suo carico (ossia egli è tenuto alla sua prestazione, malgrado) l'impossibilità della prestazione (ossia, quella lavorativa) sopravvenuta per causa non imputabile al lavoratore (lo svolgimento della cui attività è impedito dallo stesso datore che oppone un illegittimo rifiuto ex art. 1206, c.c.)”.
In tal quadro, rimane però non immediatamente comprensibile la differenziazione tra la disciplina in materia di licenziamento illegittimo nell'area della tutela reintegratoria e quella in tema di cessione invalida di azienda; infatti il fenomeno pratico che si realizza è lo stesso, con la conseguenza che non è dato afferrare quali siano i profili di specialità che dovrebbero giustificare la qualificazione in termini risarcitori delle somme spettanti ex art. 18, st.lav., al lavoratore non reintegrato.
In entrambi i casi si ha che:
a) il datore di lavoro, pur in presenza di una sentenza che ordina la ricostituzione del rapporto, non riammette il prestatore al lavoro;
b) il lavoratore offre al datore la propria prestazione;
c) il lavoratore medesimo, in attesa del ripristino del rapporto, presta la sua opera in favore di terzi.
Sembra piuttosto che la disciplina del licenziamento, proprio perché regolamenta (o, comunque, fino ad un recente passato, ha regolamentato) il fenomeno di più ampie proporzioni in cui a fronte della ricostituzione del rapporto il datore possa non adempiere, abbia tenuto conto della regola, dettata dal senso di ragionevolezza e di equità, secondo cui il lavoratore che, in attesa del concreto ripristino del rapporto, abbia la possibilità di lavorare per terzi, possa pretendere dal datore solo ciò che gli spetta in più rispetto a quanto già percepito dal terzo.
Ma è forse il dato empirico ad aver spinto in direzione di una soluzione diversificata.
Ed infatti nel trasferimento di azienda esiste la possibilità che il cedente ed il cessionario operino in modo tale da “blindare” di fatto la cessione, così vanificando nel tempo la valenza della statuizione giudiziale. E' proprio il rapporto negoziale tra cedente e cessionario che rende diversa, in fatto, la fattispecie da quella del licenziamento; quel rapporto rende più agevole una strategia comune volta a mantener fermi gli effetti della cessione, pur dichiarata nulla, senza conseguenza alcuna.
L'impressione che se ne trae, allora, è che la soluzione adottata dalla Suprema Corte, ineccepibile in punto di stretto diritto, abbia anche, quale rilevante obiettivo, quello di indurre il datore ad ottemperare - pena la corresponsione della retribuzione mensile - all'ordine giudiziale.
Del resto, nella sentenza stessa si legge che “la soluzione della questione devoluta sia l'inevitabile approdo di un coerente percorso logico giuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell'inosservanza senza reali conseguenze”.
E' anche vero che la portata dell'affermazione è attenuata dal seguente passaggio motivazionale: “Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, né tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta (neppure applicandosi, per espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall'art.409, c.p.c., l'art. 614-bís, c.p.c., come novellato dall'art. 13, d.l.n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2005, che ne ha mutato la rubrica originaria con quella di "Misure di coercizione indiretta", ampliandone l'ambito applicativo, ricomprendendovi oltre agli obblighi di fare infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal pagamento di somme di denaro) finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali”.
Ma la necessità di riaffermazione del valore dell'effettività della tutela, soprattutto in un settore delicato quale quello del lavoro, risulta evidentemente sullo sfondo delle richiamate pronunce delle Sezioni unite nonché della Corte costituzionale.
In definitiva sul principio di equità incarnato nell'istituto dell'aliunde perceptum è prevalsa l'esigenza di salvaguardare la concreta attuazione del comando giudiziale.
È superfluo evidenziare che l'orientamento oggi promosso non dovrebbe essere messo, almeno nell'immediato, in discussione, giacché, per un verso, esso è ribadito in più sentenze (di cui quella qui commentata è la prima, seguita da altre due, Cass. n. 17785 del 2019 e Cass. n. 17786 del 2019); per un altro, esso è lo sviluppo consequenziale dei principi espressi nelle predette autorevoli pronunce.
Un'ultima annotazione.
Non è dato sapere se la diversità di disciplina tra licenziamento illegittimo e cessione di azienda invalida possa dar luogo a strategie particolari, eventualmente sanzionabili sul fronte della frode alla legge, ma con risvolti singolari.
Si pensi all'ipotesi dell'azienda cedente che, successivamente alla pronuncia che attesta la nullità della cessione, disponga il licenziamento dei lavoratori.
In tal caso, il licenziamento sarà verosimilmente invalido, ma dovrebbe operare l'aliunde perceptum ove i lavoratori stessi abbiano continuato a lavorare per la cessionaria (ed infatti la fattispecie di licenziamento si sovrappone a quella della cessione di azienda invalida, salvo ritenere che l'atto espulsivo debba considerarsi, nel caso, addirittura inesistente). Ove poi la cessione dovesse essere giudicata valida all'esito del giudizio, il licenziamento rimarrebbe automaticamente privo di effetti in quanto intimato dal non legittimato.
Queste ed altre ipotesi, pur di scuola, possono essere l'effetto di discipline differenti concepite a fronte di fenomeni analoghi; ma la loro astratta configurabilità potrebbe essere in radice esclusa ove fossero messi in campo, anche nel diritto del lavoro, efficaci strumenti di coercizione delle decisioni del giudice, alla cui mancanza non sempre il diritto sostanziale, in via generale, è in grado di sopperire.
Per ulteriori riferimenti sul tema, v. L. Di Paola, Interposizione di manodopera: le somme dovute dall'effettivo datore di lavoro che non riammetta il lavoratore in servizio hanno natura retributiva, il Giuslavorista, Giurisprudenza commentata, 17 aprile 2018.
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