Aspetti critici della disciplina del concordato in continuità nel Codice della crisi

Diego Corrado
16 Agosto 2019

Il contributo si sofferma su taluni aspetti critici della disciplina del concordato in continuità aziendale, come rivista dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza. Dettata dal comprensibile intento di favorire la salvaguardia dei complessi aziendali, e con essi dei valori immateriali e dei livelli occupazionali, essa appare foriera di dubbi e potenziali conflitti in alcuni suoi aspetti essenziali. In questa sede si evidenziano casi di possibile contrasto tra le ragioni dei creditori e gli interessi dei lavoratori, e le incongruenze cui in taluni casi potrebbe dare adito la soluzione scelta in ordine al principio di “prevalenza”, per individuare la disciplina applicabile ai c.d. concordati misti. Sullo sfondo, il rischio che aspetti particolarmente sensibili della disciplina possano dare luogo a un contenzioso di non facile soluzione, o peggio aprire la strada ad abusi dell'istituto.
Premessa

Il Codice della Crisi e dell'Insolvenza rafforza l'orientamento legislativo emerso in anni recenti, di favorire ove possibile la continuità aziendale, e con essa la tutela dell'occupazione e dei valori immateriali insiti nell'azienda, introducendo però rilevanti novità nella disciplina del concordato preventivo. Rinviando a un precedente contributo in questo portale per osservazioni di carattere più generale (Il nuovo concordato preventivo, in questo portale), ci si concentra in questa sede nell'esame delle criticità di un sistema normativo che, stretto tra la duplice esigenza di dettare norme di favore per le soluzioni delle crisi che consentano la prosecuzione dell'attività di impresa e quella di evitare gli abusi che la pregressa esperienza ha fatto emergere, presenta alcuni aspetti problematici che la più attenta dottrina ha già parzialmente messo in luce.

La continuità come mezzo e le eccezioni al principio

La prima osservazione che viene in rilievo, esaminando l'art. 84 del Codice, è che la continuità aziendale viene definita espressamente, al primo comma, quale strumento, alternativo alla liquidazione del patrimonio dell'imprenditore, per il soddisfacimento dei creditori. Essa si giustifica dunque solo nella misura in cui garantisca il miglior soddisfacimento dei creditori, in continuità con quanto disposto dall'oggi vigente art. 186-bis, co. 2, lett. f della legge fallimentare. Per questo motivo, il proponente dovrà esplicitare nel piano concordatario le ragioni per cui la continuazione dell'attività aziendale è da preferire alla liquidazione (art. 87, co. 1) e il professionista indipendente dovrà espressamente dare atto nella sua attestazione che la continuità è nell'interesse dei creditori (successivo comma 3). Ratio del sistema è la considerazione che ogni attività di impresa comporta un grado di rischio intrinsecamente superiore a quello della liquidazione, e dunque la sua assunzione da parte dei creditori in tanto si giustifica, in quanto essi possano trarre concreto beneficio dalla continuità. Giustamente si è osservato in dottrina che in questo caso “i creditori assumono, nella sostanza, la veste di azionisti/soci senza diritti di governo” (, ma d'altra parte tale veste la assumono solo a seguito dell'approvazione (sia pure a maggioranza) di un piano che la preveda, rilasciata a valle di un procedimento svolto sotto la vigilanza del Tribunale.

Ciò detto in via generale sul ruolo strumentale della continuità, si deve osservare che – almeno in taluni casi – uno dei suoi aspetti principali, ovvero la salvaguardia dei livelli occupazionali, di fatto assume un suo autonomo ruolo, tra gli obiettivi concretamente perseguiti dal legislatore. Pensiamo infatti al caso della continuità indiretta dove si abbia “la gestione dell'azienda in esercizio o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione”. Sotto il profilo sostanziale, in questo caso poche sono le differenze per i creditori rispetto ad un concordato liquidatorio che preveda la cessione in blocco dei beni: in entrambe le ipotesi essi saranno infatti interessati alla congruità del corrispettivo versato dal compratore, in quanto esso costituirà la provvista da destinare appunto ai creditori, a nulla rilevando per loro l'andamento del complesso ceduto e dunque i flussi finanziari prodotti dalla prosecuzione dell'attività. Anzi, se spingiamo oltre la nostra analisi ci avvediamo sotto questo profilo di una incongruenza tra secondo e terzo comma dell'art.84, laddove quest'ultimo prevede che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”, mentre il primo, nell'annoverare tra le ipotesi di continuità indiretta quella della cessione, fa espresso riferimento a un caso in cui le risorse da destinare ai creditori nulla hanno a che vedere con il ricavato della continuazione dell'attività di impresa.

Eppure, anche in questo caso, ove il piano preveda “il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione” questo solo fatto consentirà al debitore di eludere i gravosi vincoli previsti per il concordato liquidatorio dall'art. 84, comma 4. Il legislatore cioè consente in questa ipotesi un trade off concreto tra gli interessi dei creditori e quelli del debitore, purché la soluzione che questi ha “confezionato” consenta la salvaguardia dei livelli occupazionali nella misura ora vista.

Il legislatore appare peraltro pienamente consapevole di ciò. All'ultimo periodo dell'art. 84, comma 2, stabilisce infatti che in caso di continuità indiretta la disposizione di cui al periodo precedente (ovvero quella per cui “in caso di continuità diretta il piano prevede che l'attività d'impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci”) “si applica anche con riferimento all'attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore”, ma solo “in quanto compatibile”. È chiaro infatti che, in caso di cessione dell'azienda a un terzo, ai creditori interesserà poco il ripristino dell'equilibrio economico finanziario del complesso aziendale ceduto.

Si tratta di considerazioni di non poco conto ove si osservi che le conseguenze per il terzo dell'inadempimento dell'obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali richiesti dalla legge per il periodo stabilito da questa stabilito, specie ove si verifichi dopo l'omologazione (prima infatti costituisce condizione di ammissibilità del concordato che intenda godere dei “benefici” della continuità), sono del tutto nebulose, come già è stato osservato in dottrina (Angela Petrosillo, Francesca Ruggiero, L'obbligo di preservazione dei limiti occupazionali nel concordato in continuità indiretta, in www.ilFallimentarista.it).

Considerazioni in tema di prevalenza

Come è noto, successivamente all'inserimento nella legge fallimentare dell'art. 186-bis, il tema dell'individuazione della disciplina applicabile al c.d. concordato misto (quello cioè in cui alla prosecuzione dell'attività si accompagni la liquidazione di taluni cespiti) ha impegnato notevolmente la giurisprudenza, che ha risposto con orientamenti contrastanti, fonte di gravi incertezze su un aspetto decisivo per il successo dell'istituto del concordato in continuità aziendale (non è possibile esaminare in questa sede il dibattito giurisprudenziale cui si fa riferimento; per una efficace sintesi si rinvia a L.A. Bottai, Concordato in continuità mediante affitto di azienda: le notevoli implicazioni della pronuncia della Cassazione, nota a Cass. 29742/2018, in www.ilFallimentarista.it).

La soluzione adottata dal legislatore del Codice è – in apparenza – tranchant, ed è declinata all'art. 84, co. 3, primi due periodi. Il primo recita “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino”, il secondo prosegue stabilendo che “la prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso”.

La perentorietà della soluzione scelta è, come si diceva, solo apparente, perché ad una lettura più attenta la norma suscita una serie di dubbi di difficile soluzione.

In primo luogo non è chiaro che cosa accade a un concordato misto che prima dello spirare del termine dei due anni perda il requisito del mantenimento dei livelli occupazionali richiesti. Il venir meno di tali livelli, peraltro, può dipendere anche da cause del tutto indipendenti dalla volontà del debitore o, nel caso di continuità indiretta, del terzo. Da un lato apparirebbe ingiusto far ricadere su di loro in questo caso le conseguenze di un fatto a loro non imputabile, dall'altro appare evidente che il presupposto del mantenimento dei posti di lavoro ha consentito in sede di omologa il sacrificio dei diritti dei creditori. Quid juris dunque? L'espressione “ricavi attesi” utilizzata nel secondo periodo del comma in esame pare aprire la strada a un giudizio solo prognostico: è sufficiente che il requisito richiesto dalla norma sussista ex ante, a livello di piano, a nulla rilevando il suo successivo venir meno per fatto non dipendente dalla volontà del debitore o del terzo che prosegue l'attività di impresa. Ma è evidente in questo caso il rischio di abusi da parte di costoro, e resta in ogni caso l'incertezza in ordine alle conseguenze del mancato rispetto “doloso” che si verifichi dopo l'omologa.

Un'altra questione problematica posta dall'art. 84 del Codice è relativa all'identificazione di quale sia la norma speciale, e quale quella generale, con riferimento alla bipartizione indicata dal legislatore, tra concordato in continuità e concordato liquidatorio. Poiché infatti detta bipartizione non pare esaurire l'universo delle soluzioni che in astratto si possono lecitamente adottare per affrontare la crisi di impresa, è dubbio quale disciplina si debba applicare alle proposte concordatarie (talune delle quali peraltro possono contare con un'ampia prassi applicativa) che da un lato non prevedono la liquidazione del patrimonio, ma dall'altro non annoverano i flussi derivanti dalla prosecuzione dell'attività aziendale quale fonte prevalente delle risorse con cui soddisfare i creditori. La casistica è davvero estesa e non può essere esaminata in dettaglio in questa sede: si pensi, a solo titolo esemplificativo, alla soluzione menzionata nella relazione al Codice, quella dell'attribuzione ai creditori di azioni, quote, obbligazioni emesse dal debitore. Poiché questo caso certo non si può definire liquidatorio, parrebbe escluso dai gravosi oneri aggiuntivi previsti dall'art. 84, co. 4 (soddisfacimento dei creditori in misura pari ad almeno il 20% e obbligo di apportare risorse esterne di almeno il 10% rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale), ciò a prescindere dalla rilevanza dei flussi provenienti dalla continuazione dell'attività, con buona pace della bipartizione voluta dal legislatore, ed espressa oltre che dall'art. 84, co. 1, anche dalla stessa relazione illustrativa. Ma non è difficile ipotizzare che in casi come questo qualche creditore sosterrà il contrario, e che dunque spetterà all'applicazione giurisprudenziale futura chiarire un punto importante della disciplina.

Conclusioni

La disciplina dettata dal Codice della crisi in tema di continuità aziendale appare correttamente ispirata a criteri del tutto condivisibili: favorire, ove possibile, la conservazione del c.d. going concern, con le esternalità positive che ciò comporta per il sistema economico, a partire dal mantenimento dei livelli occupazionali; dettare norme chiare per individuare la disciplina applicabile ai concordati misti, dove cioè la continuazione dell'attività di impresa si accompagna alla liquidazione dei cespiti non strategici.

Poiché tuttavia il fine ultimo resta il soddisfacimento dei creditori, quello che ne deriva è un sistema sovraccaricato di obiettivi, che in talune circostanze possono entrare in conflitto tra loro. Come si è provato ad evidenziare in queste brevi note, la risoluzione di tali conflitti non potrà sempre avvenire a costo zero, giacché nelle situazioni limite che si è provato a ipotizzare taluno di essi è destinato a prevalere sugli altri. Come si è dimostrato, in alcuni casi ad essere sacrificato potrebbe essere proprio l'interesse dei creditori, in palese contraddizione con il principio guida espressamente manifestato dal legislatore. Poiché inoltre non sono specificate le conseguenze in caso di mancato mantenimento dei livelli occupazionali previsti dal piano e che hanno consentito di evitare l'applicazione dei vincoli previsti per il concordato liquidatorio, la disciplina pare da un lato prestarsi a dare luogo a un contenzioso dagli esiti incerti, dall'altro potrebbe aprire la porta ad abusi dell'istituto.

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