Usufrutto di partecipazioni sociali e diritto di intervento in assemblea

21 Agosto 2019

L'art. 2370 c.c. esprime un principio di carattere generale, derogabile solo nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore, in forza del quale il diritto di intervenire all'assemblea è strettamente funzionale all'esercizio del voto
Massima

L'art. 2370 c.c. esprime un principio di carattere generale, derogabile solo nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore, in forza del quale il diritto di intervenire all'assemblea è strettamente funzionale all'esercizio del voto; pertanto, in caso di azioni o quote sociali oggetto di usufrutto, il diritto di partecipare all'assemblea spetta all'usufruttuario e non al nudo proprietario, che non ha titolo per intervenire.

Il caso

Il Tribunale di Firenze veniva adito con ricorso ex art. 700 c.p.c. dal nudo proprietario di quote di società a responsabilità limitata perché fosse accertato il proprio diritto di partecipare all'assemblea che si sarebbe tenuta per l'approvazione del bilancio di esercizio. A fondamento del ricorso, veniva addotto che la mancata partecipazione avrebbe impedito all'istante di avere una puntuale e dettagliata informativa sull'andamento della gestione della società, anche ai fini dell'eventuale impugnazione della delibera che sarebbe stata assunta dall'assemblea.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con l'ordinanza che si annota, il Tribunale di Firenze respinge il ricorso d'urgenza, ritenendo che, sulla scorta di un'interpretazione letterale e sistematica degli artt. 2370 e 2352 c.c., al nudo proprietario di azioni o quote sociali non possa essere riconosciuto il diritto di intervenire in assemblea, che spetta solo all'usufruttuario, quale titolare del diritto di voto.

La motivazione, posta a fondamento della decisione assunta, si articola nei seguenti passaggi:

1) l'art. 2370 c.c. individua un legame funzionale tra il diritto di partecipazione all'assemblea e il diritto di voto, che si può rescindere nei soli casi espressamente previsti;

2) l'art. 2352 c.c. stabilisce che, in caso di usufrutto di azioni, il diritto di voto spetta all'usufruttuario, salvo convenzione contraria;

3) l'art. 2471-bis c.c. rende estensibile tale regola anche nel caso in cui l'usufrutto riguardi quote di società a responsabilità limitata;

4) nei diritti innominati contemplati dall'ultimo comma dell'art. 2352 c.c., per l'esercizio dei quali è prevista una legittimazione concorrente del socio e dell'usufruttario, non può essere ricompreso il diritto di intervento in assemblea;

5) dalla partecipazione all'assemblea, il socio non può ritrarre utilità che non siano conseguibili in altro modo, sicché non vi è un interesse che, derogando a quanto stabilito dal legislatore, giustifichi la dissociazione del diritto di intervento da quello di voto;

6) in caso di usufrutto di azioni o quote sociali, pertanto, il diritto di partecipare all'assemblea spetta solo e unicamente all'usufruttuario.

Osservazioni

La decisione del Tribunale di Firenze si pone in consapevole contrasto con altro provvedimento del medesimo Tribunale, che aveva riconosciuto al nudo proprietario il diritto di partecipare all'assemblea, ma si inserisce nel solco dell'orientamento sposato dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie (per quanto, in verità, non siano molte le sentenze intervenute sull'argomento portato all'attenzione del giudice toscano).

Sulla scorta di quanto risultante dalla relazione illustrativa al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, i primi commentatori della novella societaria avevano subito posto in evidenza come il legislatore avesse optato per l'istituzione di un nesso funzionale tra diritto di intervento in assemblea e diritto di voto, tale da rendere configurabile una corrispondenza biunivoca tra gli stessi.

In questo senso, il Tribunale di Firenze osserva come l'art. 2370 c.c., stabilendo che possono intervenire all'assemblea coloro ai quali spetta il diritto di voto, sancisca, da un lato, la stretta strumentalità tra i due momenti di partecipazione alla vita della società e, dall'altro lato, la funzionalizzazione del primo al secondo, nel senso che la partecipazione al dibattito assembleare è volta a consentire la formazione della volontà sociale e non tanto il soddisfacimento di finalità puramente informative.

Pertanto, secondo il Tribunale di Firenze, laddove non sia stato lo stesso legislatore a prevedere che il diritto di partecipazione spetta indipendentemente dalla titolarità del diritto di voto (vengono citati, in proposito, l'art. 2418 c.c., che attribuisce al rappresentante comune degli obbligazionisti il diritto di intervenire all'assemblea dei soci, nonché l'art. 147, comma 3, d.lgs. 58/1998, che, nel caso degli azionisti di risparmio privi del diritto di voto, prevede la partecipazione del rappresentante comune di categoria a tutela dell'informazione assembleare e della legalità delle deliberazioni), non è ammissibile l'intervento in assemblea di chi non può esprimere il voto.

A una diversa conclusione, secondo l'ordinanza che si commenta, non può giungersi in virtù di quanto stabilito dall'art. 2352, ultimo comma, c.c., dal momento che la formulazione generica della disposizione (la quale attribuisce congiuntamente al socio e all'usufruttuario l'esercizio dei diritti amministrativi diversi da quelli contemplati dalla norma, in assenza di una diversa previsione risultante dal titolo o da un provvedimento giudiziale) non consente di ravvisare una possibile deroga al principio generale desumibile dall'art. 2370 c.c.

Un elemento a conferma di tale lettura può pure individuarsi in ciò: se vi è corrispondenza biunivoca tra diritto di partecipazione all'assemblea e diritto di voto, ossia se l'uno presuppone ovvero contempla l'altro e viceversa, allora si può ritenere che il legislatore, con la disposizione di cui al comma 1 dell'art. 2352 c.c., ha inteso disciplinare non solo il diritto di voto, ma pure il sottostante diritto di intervento in assemblea, giusta quanto stabilito dall'art. 2370 c.c.

In altre parole, il diritto di partecipazione, sebbene non espressamente menzionato, potrebbe comunque farsi rientrare tra quelli “tipici” previsti dall'art. 2352 c.c. e, dunque, resterebbe escluso dal novero dei diritti amministrativi innominati considerati dal comma 6, sicché non vi sarebbe comunque spazio per individuare una legittimazione concorrente del socio nudo proprietario a intervenire in assemblea.

A conforto dell'opzione ermeneutica prescelta, il Tribunale di Firenze adduce ulteriori argomenti.

In primo luogo, la conferma del carattere funzionale della partecipazione all'assemblea rispetto all'esercizio del diritto di voto è individuata nell'art. 2372 c.c., il quale prevede la possibilità di farsi rappresentare in assemblea in capo a coloro ai quali spetta il diritto di voto; in effetti, se la partecipazione fosse realmente consentita anche a coloro che non possono votare, non avrebbe senso limitare ai soli aventi diritto al voto la facoltà di delegare la partecipazione.

In secondo luogo, la circostanza per cui le utilità che il nudo proprietario si ripromette di trarre dall'intervento in assemblea possono essere conseguite in altro modo, attraverso gli ordinari strumenti messi a disposizione del socio (in particolare, avvalendosi del diritto di informazione e consultazione dei libri sociali e dei documenti relativi all'amministrazione stabilito dall'art. 2476, comma 2, c.c.), testimonia l'assenza di un effettivo interesse che possa giustificare la deroga alla regola fissata dall'art. 2370 c.c.

Sebbene dal provvedimento non sia possibile evincere se il ricorrente aveva chiesto l'autorizzazione a esercitare il diritto di intervento nel senso più lato del termine (ossia comprensivo della facoltà di partecipare attivamente al dibattito) o nella forma più ridotta della mera assistenza ai lavori assembleari, si può ritenere che tale argomento sia idoneo a superare l'obiezione che si potrebbe muovere aderendo all'autorevole opinione di chi ha prospettato una morfologia multiforme dell'intervento in assemblea. Ci si riferisce, nello specifico, alla distinzione dell'intervento che si traduce nello svolgimento di un ruolo attivo (partecipando alla discussione, prendendo la parola, facendo domande, avanzando proposte di deliberazione, formulando dichiarazioni di voto), al quale farebbe precipuamente riferimento l'art. 2370 c.c., da quello consistente nella mera presenza e assistenza – per così dire – passiva, che ha una dimensione sensibilmente più ridotta e tale da non interferire con lo svolgimento dei lavori assembleari. Laddove, infatti, la partecipazione passiva non consenta al socio di soddisfare esigenze diverse o ulteriori rispetto a quelle sottese al diritto attribuito dall'art. 2476 c.c., riesce davvero difficile giustificare un intervento che risulterebbe sostanzialmente privo di utilità, mentre è più che ragionevole consentire la partecipazione a tutti e solo a coloro che vi hanno titolo o che, al limite, possono contribuire al più ordinato ed efficace svolgimento dei lavori e che per tale motivo, pur non essendo legittimati a esprimere un voto, vengono invitati o ammessi dal presidente dell'assemblea a prendere parte ai lavori.

In terzo luogo, viene evidenziato nell'ordinanza, non può nemmeno sostenersi che la mancata partecipazione del socio nudo proprietario all'assemblea comprometta, da un lato, il diritto di impugnare la delibera assembleare, che gli è riconosciuto a prescindere (per quanto sussista incertezza interpretativa sull'ammissibilità dell'impugnazione qualora vi sia stato il voto favorevole del titolare del diritto parziario) e, dall'altro lato, la possibilità che venga deliberato l'esperimento dell'azione sociale di responsabilità degli amministratori ovvero la revoca degli stessi, visto che l'art. 2476, comma 3, c.c. attribuisce direttamente al socio la legittimazione a promuovere tale azione e a chiedere l'adozione di provvedimenti cautelari di revoca degli amministratori medesimi.

A fronte di tali convergenti elementi, il richiamo della sentenza di Cass. civ., Sez. I, 18 giugno 2005, n. 13169 (pronunciata in una fattispecie in cui le partecipazioni erano state assoggettate a sequestro penale preventivo ai sensi dell'art. 321 c.p.p.), sancisce l'ineluttabilità della conclusione cui è pervenuto il Tribunale di Firenze, vieppiù in considerazione del fatto che i principi ivi affermati sono stati enucleati facendo riferimento alla versione dell'art. 2370 c.c. ante riforma del 2003 (in cui la legittimazione all'intervento in assemblea era ricollegata non già espressamente alla titolarità del diritto di voto, come accade ora, bensì all'iscrizione a libro soci almeno cinque giorni prima del giorno fissato per l'assemblea e al preventivo deposito delle azioni presso la sede sociale).

In quel precedente (seguito – a brevissima distanza – dalla pronuncia di Cass. civ., Sez. I, 11 novembre 2005, n. 21858, che ha confermato gli stessi principi), i giudici di legittimità erano stati chiamati a pronunciarsi in una vicenda in cui veniva sostenuto che il sequestro penale delle azioni di società non poteva privare il socio dei diritti amministrativi inerenti a dette azioni e che, quand'anche fosse stato attribuito al custode giudiziario il diritto di voto, si sarebbe nondimeno dovuto riconoscere al socio il diritto di intervenire in assemblea e di partecipare alla discussione. Disattendendo tale ricostruzione (sulla base, lo si ribadisce, dell'assetto normativo vigente prima del d.lgs. 17 gennaio 2006, n. 3, senz'altro meno chiaro ed esplicito di quello attuale sul punto), la Corte di cassazione, dopo avere rilevato che effetto naturale del sequestro penale preventivo è l'attribuzione del diritto di voto al custode, anziché al socio, ha testualmente affermato che “Le considerazioni fin qui svolte, in principalità riferite all'attribuzione del diritto di voto al custode di azioni di società sottoposte a sequestro preventivo penale, possono senz'altro essere applicate anche al diritto d'intervento in assemblea che a dette azioni inerisce, pur se lo si voglia considerare – come avviene nel secondo motivo del ricorso incidentale – in una prospettiva distinta da quella del diritto di voto. Anche il diritto d'intervento in assemblea si configura, infatti, come uno di quei diritti amministrativi inerenti alla disponibilità dell'azione di cui è naturale ipotizzare che il sequestro penale, in coerenza con la propria stessa funzione, privi il titolare. Né, d'altronde, può farsi a meno di rilevare come un tal diritto sia naturalmente (ancorché non necessariamente) connesso col diritto di voto: di modo che solo in situazioni ben specificate dal legislatore (o altrimenti chiaramente desumibili dal sistema) potrebbe ipotizzarsi l'esistenza di un diritto del socio di partecipare ad un'assemblea in cui egli non possa invece votare, con conseguente invalidità della deliberazione alla quale non sia stato posto in grado di intervenire”.

Conclusioni

La decisione del Tribunale di Firenze deve reputarsi condivisibile, in quanto basata su una lettura del dato normativo che valorizza le innovazioni apportate dal legislatore alla norma di riferimento, proprio al fine di sopire i dubbi e i contrasti interpretativi sorti nella vigenza della versione dell'art. 2370 c.c. precedente alla riforma del 2003.

Per quanto nell'evoluzione del diritto societario sia stata individuata una tendenza a delineare l'assemblea come luogo deputato, oltre che alla discussione dei soci e alla formazione di un comune convincimento, alla diffusione delle informazioni relative allo svolgimento dell'attività sociale, non è revocabile in dubbio che la riforma ha optato per configurare l'intervento quale vera e propria partecipazione strumentale alla formazione della volontà assembleare e all'espressione del voto, sicché la partecipazione non può spettare a chi, non potendo esercitare tale diritto, finirebbe inevitabilmente per rallentare lo svolgimento dei lavori.

Peraltro, restano sullo sfondo alcune fattispecie che potrebbero prestare il fianco a dubbi quanto alla possibilità per il socio di partecipare all'assemblea: si tratta, in particolare, delle azioni o delle partecipazioni alle quali è, in via di principio, associato un diritto di voto che, in via temporanea od occasionale, non può essere esercitato, come nel caso in cui il socio non possa votare su uno o più dei temi all'ordine del giorno, ma solo su alcuni, oppure, versando in conflitto di interessi, non esprima il voto sulla delibera con riguardo alla quale ricorre tale conflitto.

Ritenendosi che queste situazioni non ostino all'intervento in assemblea (in effetti, se il socio può votare sia pure limitatamente ad alcune delibere, non sarebbe giustificabile precludergli di partecipare ai relativi lavori; nel caso di conflitto di interessi, invece, è addirittura la legge a prevedere l'intervento in assemblea, visto che l'art. 2368, comma 3, c.c. stabilisce che non debba tenersi conto, ai fini del calcolo del quorum deliberativo, delle azioni per le quali il diritto di voto non è stato esercitato a seguito della dichiarazione del soggetto cui spetta di volersi astenere per conflitto di interessi, potendo una tale dichiarazione essere rilasciata solo da chi sia presente), il potenziale contrasto con quanto affermato dal Tribunale di Firenze è, in realtà, soltanto apparente.

All'evidenza, si tratta di circostanze contingenti, che non configurano una dissociazione tra partecipazione sociale e diritto di voto – per così dire – strutturale (com'è a dirsi, invece, in presenza di usufrutto di azioni o di quote, giusta quanto stabilito dall'art. 2352, comma 1, c.c.).

In quest'ottica, il carattere contingente dell'impedimento all'esercizio del diritto di voto legittima l'individuazione di una deroga al divieto di intervento in assemblea evincibile dall'art. 2370 c.c., vieppiù espressamente ricavabile dalla legge (con precipuo riferimento alla situazione di conflitto di interessi) e, così, una delle ipotesi che, come prospettato dall'ordinanza annotata, consentono la disapplicazione del principio generale dettato dall'art. 2370 c.c.

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