Sofferenza e danno morale. Chi fa cosa?

Andrea Gentilomo
03 Settembre 2019

L'autore analizza i confini normativi e giurisprudenziali della sofferenza nell'ambito del risarcimento del danno alla persona, individuando gli snodi più problematici che investono i ruoli tecnici e giuridici nell'inquadramento di un aspetto che mostra una difficile definizione.
Inquadramento

La questione del risarcimento della “sofferenza” implica molteplici problemi che derivano dall'ambiguità di contenuto del termine, dall'intreccio della definizione del danno in una prospettiva strettamente giuridica e dei problemi di accertamento, tecnico e non, della sofferenza stessa. A questo si aggiunge la necessità di definire soluzioni operative adatte a risolvere in tempi ragionevoli masse ragguardevoli di evenienze, mantenendo in equilibrio equità e sostenibilità economica.

Non è qui il caso di ripercorrere il complesso percorso normativo e giurisprudenziale che ha segnato la vita del danno biologico. Allo stato, il punto di inizio del discorso è necessariamente costituito dalla definizione di danno biologico contenuta nell'art. 138 d. lgs. 7 settembre 2005 n. 209 (come modificato dall'art. 1, comma 17, l. 4 agosto 2017, n. 124), secondo cui «… per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito …». Tale definizione rientra tra i criteri per l'elaborazione di una tabella unica nazionale delle menomazioni e del valore economico per punto di invalidità.

I criteri per l'elaborazione dei valori economici prevedono che il valore del punto sia tarato sull'entità della menomazione (espressa dalla “percentuale di invalidità”) e che gli aspetti dinamico-relazionali incidano in modo “più che proporzionale” sul valore pecuniario del punto base. In sostanza, il valore del “punto base” è espressione della gravità della menomazione (nel cui contesto gli aspetti dinamico-relazionali sono particolarmente rilevanti rispetto a quelli strettamente anatomo-funzionali) e la quota di danno biologico prevede un incremento percentuale e progressivo per considerare la «componente di danno morale da lesione dell'integrità fisica» (sic). Parrebbe quindi di intendere che vi sia una proporzionalità presuntiva del danno morale rispetto alla gravità della lesione alla sola integrità fisica.

Lo stesso articolo, al comma 3, stabilisce che: «Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l'ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale di cui al comma 2, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30 per cento». Non si tratta più di una modulazione del valore del punto ma del risarcimento calcolato in base alla tabella, motivato da un'incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali, che deve essere rilevante e riguardare aspetti specifici oltre che obiettivamente accertati.

Per lesioni di lieve entità (art. 139 d. lgs. 7 settembre 2005 n. 209) vale la modulazione del risarcimento riguardo all'incidenza rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali ed anche laddove la compromissione psico-fisica abbia determinato o continui a provocare una sofferenza psico-fisica di particolare entità.

In altri termini, si tratta di un danno che richiede una lesione dell'integrità psico-fisica della persona incidente sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali, escludendo i riflessi lavorativi (attuali, futuri, potenziali che siano). Anche se si tratta di un'ovvietà, questa definizione implica che il danno deriva dalla coesistenza inscindibile di una lesione e del suo riflesso sul modo di essere per così dire ordinario della persona; e da ciò discende che non ogni lesione determina danno se manca il riflesso sulle condizioni ordinarie di vita, anche se, di per sé sola considerata, la lesione costituisce un evento patologico (e quindi potenzialmente suscettibile di diagnosi medica e medico-legale).

Si assume che le tabelle valutative della menomazione permanente nella loro espressione numerica percentuale comprendano questi riflessi e, anzi, secondo alcune interpretazioni siano, in effetti, la codificazione numerica della contrazione delle ordinarie attività cui una persona sana, a parità di età, genere etc., avrebbe potuto attendere. Nella molto citata ordinanza 7513/2018 della III sez. della Cassazione civile (Cass. civ., sez. III, ord., (ud. 18-12-2017) 27 marzo 2018, n. 7513) si legge: «La conclusione è che, quando un barème medico legale suggerisce per una certa menomazione un grado di invalidità - poniamo - del 50%, questa percentuale indica che l'invalido, a causa della menomazione, sarà teoricamente in grado di svolgere la metà delle ordinarie attività che una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età, sarebbe stata in grado di svolgere, come già ripetutamente affermato da questa Corte (sez. III, sent. n. 20630 del 13/10/2016; Sez. III, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014.

Dal testo dell'art. 138 pare intendersi che il danno morale riguardi solo le lesioni di non lieve entità ma la questione non è di particolare rilievo in questa sede.

L'accertamento

Si pone la questione dei ruoli nell'accertamento delle varie caratterizzazioni richiamate. Non v'è dubbio che la risarcibilità del danno biologico richiede un inquadramento medico (e nello specifico, medico-legale), tanto che in assenza di un'obiettivazione delle lesioni è esclusa; e ciò a prescindere dall'ambiguità lessicale della formula “suscettibile di” che potrebbe essere intesa come una potenziale accertabilità di per sé sufficiente.

Parimenti è pacifico che la “prova” del danno non può che essere giuridica, anche se il ruolo del consulente medico è essenziale nel definire e accertare per via tecnica i fondamenti biologici del danno medesimo.

Si tratta, quindi, di definire più che i ruoli, gli ambiti in cui una valutazione tecnica può fornire elementi utili (se non necessari) per la costruzione probatoria del danno.

E questo impone di delineare il significato delle singole categorie in discussione per evitare le ambiguità, correttamente individuate nella molto discussa ordinanza della III sezione Cassazione civile n. 7513 del 27 marzo 2018, laddove si osserva che «Nella materia del danno non patrimoniale, infatti, la legge contiene pochissime e non esaustive definizioni; quelle coniate dalla giurisprudenza di merito e dalla prassi sono usate spesso in modo polisemico; quelle proposte dall'accademia obbediscono spesso agli intenti della dottrina che le propugna. Accade così che lemmi identici vengano utilizzati dai litiganti per esprimere concetti diversi, ed all'opposto che espressioni diverse vengano utilizzate per esprimere il medesimo significato».

A oggi, esiste una presa di posizione netta sul punto per quanto riguarda il versante giuridico, costituito dall'ordinanza richiamata, che opera una distinzione tra «conseguenze dannose del tutto anomale e peculiari» e «pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale» definiti come condizioni soggettive «non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione)».

Da ciò deriva una bipartizione netta tra condizioni che ricadono in un ambito di valutazione medica e condizioni estranee a questa. Sin qui apparentemente non dovrebbero sorgere questioni interpretative, salvo precisare che l'analisi bio-medica in ogni caso riguarda solo i presupposti clinici generali e che la prova della concreta interferenza in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali deriva da prove prettamente giuridiche. Per esemplificare, le sequele di una frattura complessa di polso nell'arto dominante possono comportare un ostacolo consistente in una serie di attività sportive; si tratta, però, di una pre-condizione alla personalizzazione, perché sarà necessaria la prova che la persona effettivamente praticava quella specifica disciplina con assiduità e piacere tali da definirla in concreto come aspetto dinamico-relazionale specifico di quel soggetto. È evidente che tutto questo esula da una valutazione medica e richiede strumenti di indagine e prova di natura puramente giuridica.

Per quanto riguarda la sofferenza e il danno morale, le questioni sono ancor più articolate. Il testo dell'art. 139 cod. ass. (ma non l'art. 138) introduce la categoria “sofferenza psico-fisica di particolare intensità” quale presupposto della modulazione risarcitoria (assimilata in questo alla rilevante incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali). Si tratta di una formula che pone relativamente pochi problemi di interpretazione, essendo chiaramente legata a manifestazioni specifiche di un quadro clinico. Di fatto, i parametri di uso corrente s'incentrano propriamente su caratteristiche cliniche e non sono vincolati a una specifica reattività soggettiva. Si tratta, in altri termini, di presunzioni fondate su un dato clinico. A titolo di esempio: la necessità di assumere analgesici maggiori è la traccia documentabile di una sintomatologia dolorosa somatica intensa; la presenza di fissatore esterno implica una serie di limitazioni che comportano un disagio marcato nello svolgimento della vita; ancora, ferite a lenta guarigione che richiedono medicazioni avanzate e ravvicinate determinano dolore e limitazioni. Questo riguarda la componente fisica; una ragionevole presunzione è che tali condizioni si accompagnino a uno stato di discomfort peggiorativo anche sul versante psichico, pur senza arrivare a una forma psichiatrica vera e propria (vale a dire, inquadrabile nosologicamente) che assumerebbe un ruolo autonomo di co-patologia (si pensi, ad esempio, a sintomi da disturbo dell'adattamento per una condizione di allettamento prolungato), anche se solo in forma di inabilità temporanea (perché non cronicizza).

Il vero problema è il danno morale, rispetto al quale si vedono posizioni nettamente contrapposte.

Infatti, la già citata ordinanza rinvia a pregiudizi soggettivi che devono essere privi di «basi organiche» e «estranei alla determinazione medico-legale»; gli esempi di queste situazioni sono il dolore nell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione.

Su un versante opposto si trova il documento redatto dalla Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni “Accertamento e valutazione medico-legale della sofferenza morale”, del 3 maggio 2018, in cui si asserisce nettamente che i pregiudizi nella sfera morale sono suscettibili di accertamento medico-legale tanto quanto il danno biologico; vi si trova una definizione di “sofferenza morale” nei seguenti termini: «stato emotivo della persona, temporaneo e/o permanente, produttivo di percezione di disagio/degrado/dolore, rispetto alla condizione anteriore», specificando che tale condizione è di competenza medica qualora «derivi da una lesione-menomazione all'integrità psico-fisica».

Sofferenza morale è una categoria che non è prevista dalla norma di riferimento, che menziona unicamente il “danno” morale, ma, d'altro canto, anche l'ordinanza citata rinvia a una “sofferenza”. Tuttavia, se si analizzano le due definizioni si trova una sostanziale convergenza descrittiva. In primo luogo, si basano su una percezione del sé da parte della persona, condizione esplicitata nella definizione SIMLA (“produttiva di percezione”) che si ritrova anche nella versione per così dire giuridica, ove si menzionano i «pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore)». Si tratta di definizioni descrittive e riferite a condizioni psicologiche defettive ma senza caratterizzazioni psicopatologiche, pur essendo strettamente correlate alla componente di danno biologico fondato sull'esistenza di una lesione; non sono di per sé malattia ma sono connesse a un quadro patologico. Rinviano (anche se utilizzano forme lessicali in parte difformi) ad aree sovrapponibili (disagio-degrado-dolore vs dolore dell'animo-vergogna-disistima di sé-paura-disperazione) dai confini non ben definibili e categorizzabili se non per il fatto di non essere malattia.

Le soluzioni riguardo la “prova” sono molto differenti. L'ordinanza rinvia agli strumenti di prova propri del processo, precisando che è onere del danneggiato allegare e provare, dopo aver limitato l'area a quanto non è di valutazione medico-legale

Il documento SIMLA afferma la necessità di «individuare condivisi parametri tecnici idonei a definire quali-quantitativamente la sofferenza morale individuale del danneggiato, in relazione sia all'entità ed al decorso della lesione/malattia, sia alla successiva eventuale menomazione permanente.

La sofferenza morale dovrà essere definita in funzione di tutte le componenti percettive del disagio/degrado/dolore.

Tali componenti dovranno essere descritte sia in riferimento alla temporaneità che alla permanenza della menomazione, secondo la metodologia accertativa e la criteriologia valutativa proprie della Medicina Legale, con epicrisi complessiva espressa qualitativamente mediante aggettivazione e/o quantitativamente per mezzo di gradazione numerica, di cui ad un successivo elaborando documento tecnico».

Prescindendo dal fatto che non risulta emanato il documento tecnico, a chi scrive pare difficile immaginare una gradazione numerica riferita a una dimensione puramente soggettiva come dovrebbe essere uno “stato emotivo della persona produttivo di percezione”, a meno di rientrare nella sofferenza psico-fisica di cui si è discusso nel paragrafo precedente ove trovano spazio presunzioni fondate su criteri clinici oggettivabili.

Se si tratta di una dimensione “emotiva”, essa è necessariamente legata al funzionamento psichico del singolo che, di conseguenza, dovrà essere indagato nella sua dinamicità rispetto alla struttura di personalità precedente e alla plasticità rispetto alle esigenze imposte dalla nuova condizione psico-fisica ed esistenziale. Forse l'esempio più calzante è costituito dallo sforzo di ricostruire o raggiungere nuovamente l'assetto precedente, dovendo ricorrere a strategie di adattamento per aggirare o contenere gli effetti menomanti. Molti anni or sono, in un breve saggio sui riflessi esistenziali delle menomazioni visive (GENTILOMO A. “Non vedere più”, in P. Cendon, a c. di, Trattato breve dei nuovi danni, Padova, vol. I, pag. 197-214, 2001) si è osservato che: «in alcune circostanze il nuovo equilibrio ha portato alla ricostituzione di un sé con una nuova organizzazione (si pensi al pittore che non poté più percepire il colore, ma che riuscì a iniziare un nuovo modo di dipingere) non necessariamente depauperata o, quanto meno, così gravemente deficitaria. In altri, invece, il nuovo uomo è una pallida ombra dell'essere precedente e l'aspetto negativo appare dominante».

È plausibile che si riuscirà a individuare parametri di funzionamento psichico (non patologico) utili per arrivare a una epicrisi complessiva espressa qualitativamente; se questa via sarà concretamente percorribile, allora la presa di posizione SIMLA avrà un solido fondamento scientifico e applicativo. Certo è che, in questa prospettiva, sarà necessaria un'analisi multidisciplinare che in primo luogo escluda l'esistenza di patologie psichiche nosologicamente definite e, quindi, definisca le nuove modalità di funzionamento dell'interazione dinamica del sé psichico con quello somatico, abbandonando tradizionali dicotomie corpo – mente (che aleggiano nell'ordinanza ricordata prima, laddove si rinvia a pregiudizi privi di “base organica”); modalità che andranno poi categorizzate in modo da arrivare a una sorta di classificazione di gravosità dei vari meccanismi di compensazione/adattamento.

In conclusione

Tutto ciò è affascinante; è legittimo chiedersi, però, come possa integrarsi nei processi di valutazione e liquidazione del mondo reale che richiedono tempi ridotti e non sempre possono avvalersi di competenze sufficientemente affinate in tutti i versanti coinvolti. In una visione operativa, nelle vicende in cui la persona infortunata proponga profili di danno riconducibili all'area prima delineata (e quindi estranei alla sofferenza psico-fisica ex art. 139 cod. ass. e agli specifici aspetti dinamico-relazionali – che sono parte integrante della valutazione medico-legale), allo stato si potrebbe stabilire in primo luogo la sussistenza o meno di una forma di “sofferenza” definibile come patologia. Se non dovesse emergere una malattia, in questa fase storica (non essendo ancora disponibili gli strumenti indicati nel documento SIMLA), in aderenza ai riferimenti prettamente giuridici prima richiamati, non rimane che ricorrere agli argomenti di prova di derivazione strettamente processuale.

La proposta/rivendicazione dell'autonomia medico-legale nell'inquadramento di questi aspetti ha uno spazio reale, sempre che si arrivi a definire parametri funzionali e strumenti di accertamento clinico affidabili e concretamente applicabili; e questo costituisce un campo in cui dovrà mostrarsi appieno la cultura scientifica e la consapevolezza metodologica della disciplina.

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