Giurisdizione ordinaria per la revoca degli amministratori della partecipata da parte del Sindaco neoeletto

03 Settembre 2019

La società il cui capitale è detenuto in tutto o in parte da un ente pubblico non muta la sua natura di soggetto privato dal momento che il suo rapporto con l'ente è di assoluta autonomia...
Massima

La società il cui capitale è detenuto in tutto o in parte da un ente pubblico non muta la sua natura di soggetto privato dal momento che il suo rapporto con l'ente è di assoluta autonomia. Ne consegue che quando l'ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della società non esercita un potere autoritativo ma l'ordinario potere dell'assemblea quindi le controversie in tema di nomina e revoca degli amministratori di società a partecipazione pubblica competono alla giurisdizione ordinaria.

Il caso

Le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sull'atto di revoca degli amministratori di una partecipata del Comune (che direttamente e indirettamente, per mezzo di un'altra società controllata, detiene l'intero capitale sociale) emanata dal Sindaco neoeletto in virtù dei poteri conferiti dall'art. 50 del TUEL (d.lgs. n. 267/2000). La Cassazione - affermando la giurisdizione del giudice ordinario - ha ritenuto la revoca sorretta da giusta causa (negando, dunque, agli amministratori il risarcimento dei danni patrimoniale e all'immagine), facendo leva sul fatto che il primo cittadino può liberamente scegliere come membri degli organi di governance della società pubblica soggetti in linea con il suo indirizzo politico e le scelte imprenditoriali della società.

Le questioni

La sentenza in esame offre diversi spunti di riflessione con riguardo alle società partecipate dagli enti locali che rappresentano la maggioranza nel variegato panorama delle compagini sociali in mano pubblica.

In particolare, la questione attiene alla legittimità dell'atto di revoca dell'intero Consiglio di amministrazione di una società a totale partecipazione pubblica operante nel settore della ristorazione scolastica siglato dal nuovo Sindaco che, ai sensi dell'art. 50 del TUEL, gode anche del potere di nomina e revoca dei rappresentanti delle aziende controllate.

Nella fattispecie de qua viene in rilievo, per quanto qui maggiormente rileva, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario invocato dalla s.p.a. già nelle fasi precedenti del giudizio e respinto dai giudici di primo e secondo grado. Sotto questo profilo la Corte di Cassazione nella pronuncia in esame si allinea alla statuizione della Corte di appello di Milano precisando – in ossequio alla prevalente giurisprudenza delle Sezioni unite (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un., ord. 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ord. 14 settembre 2017, n. 21299; Cass., Sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24591) - che “una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale”. Questo assunto trova fondamento nel rapporto che lega la società e l'ente pubblico che è di assoluta autonomia, “posto che l'ente può incidere sul funzionamento e sull'attività della società non già attraverso l'esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.

Ed è proprio l'autonomia che caratterizza le società pubbliche a condurre la Cassazione ad affermare la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie nel quale sono coinvolte compagini sociali in mano pubblica tra cui rientrano, per quanto in questa sede maggiormente interessa, anche quelle relative alla nomina e alla revoca dei membri del C.d.a.

Invero, la PA quando nomina o revoca gli amministratori “non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l'ordinario potere dell'assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto”. Inoltre, “l'amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell'ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (articolo 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell'amministratore di nomina assembleare”.Infine, l'equiparazione tra amministratori di nomina assembleare e quelli designati dall'ente pubblico si riscontra anche nella forma di tutela a cui possono accedere, atteso che entrambi possono giovarsi solo della monetizzazione della funzioneai sensi dell'art. 2383 c.c.

Da ciò discende, all'evidenza, “l'inquadramento privatistico delle società in mano pubblica, col relativo assoggettamento alla giurisdizione ordinaria, come del resto testimoniato da diverse disposizioni normative. Precisamente si allude all'art. 6 l. n. 145/2002 che ha positivizzato il sistema dello spoil system, dall'art. 1 del d.lgs. n. 6/2003 che ha permesso di inserire nello statuto la possibilità di nomina o revoca dei membri degli organi da parte di soggetti privati e, da ultimo, l'art. 1 comma 3 del D.Lgs. n. 175/2016 (c.d. TUSP), il quale – anche non applicandosi ratione temporis al caso concreto – testimonia l'applicabilità del diritto societario alle società partecipate in tutti i casi in cui le disposizioni del codice civile non siano espressamente derogate dal Testo Unico.

A sostegno della giurisdizione ordinaria per gli atti di nomina e revoca degli amministratori la Cassazione richiama anche l'art. 2449, comma 1, c.c., che chiarisce che la facoltà del compimento dei predetti atti deve essere “conferita al socio pubblico dallo statuto, cioè da un atto fondamentale di natura negoziale (articolo 2328 c.c., comma 3) e che, con l'abrogazione (…) dell'articolo 2450 c.c. - a norma del quale la legge o lo statuto potevano attribuire la nomina e la revoca ad un ente pubblico estraneo al capitale sociale - è stato posto in chiaro che gli atti in questione competono all'ente pubblico uti socius, e dunque iure privatorum e non iure imperii”.

Pertanto, come precisato dalla costante giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. un, ord. 23 gennaio 2015, n. 1237; Cass. Sez. un., 30 dicembre 2011, n. 30167) il confine tra la giurisdizione amministrativa e ordinaria poggia essenzialmente sulla natura del provvedimento impugnato. Al giudice amministrativo vanno attribuite le controversie relative ai provvedimenti unilaterali di naturaautoritativa, che sono, di fatto, preliminari rispetto alle successive deliberazioni societarie, “con i quali l'ente pubblico delibera di costituire la società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della medesima”.

Al contrario, spettano al giudice ordinario le cause “aventi ad oggetto gli atti societari "a valle" della scelta di fondo dell'utilizzazione del modello societario”, ovvero quelle connesse con l'esercizio da parte dell'ente pubblico delle facoltà proprie del socio, “fra le quali rientrano quelle volte ad accertare l'intera gamma delle patologie e delle inefficacie negoziali inerenti la struttura del contratto sociale, ancorché ad essa estranee e/o sopravvenute e derivanti da irregolarità- illegittimità della procedura amministrativa a monte”

Pertanto, le Sezioni unite concludono che la fattispecie concreta - nella quale si dibatte della legittimità dell'atto di revoca degli amministratori di una partecipata emesso dal Sindaco neoeletto entro 45 giorni dal suo insediamento – deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario.

Invero, il provvedimento de quo attiene ad una fase successiva alla costituzione della società e, in quanto idoneo ad incidere sulla struttura societaria, deve essere ricondotto alla “potestà di diritto privato ascrivibile all'ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio (col corollario, che ne discende, che il rapporto controverso resta nella titolarità della società, unico soggetto tenuto a rispondere dell'eventuale obbligazione risarcitoria derivante dall'illegittimità del provvedimento medesimo)”. In altre parole il provvedimento del Sindaco, ha una “connotazione societaria "interna"”, mediante il quale viene espressa la volontà del Comune di procedere alla sostituzione dell'intero Consiglio di amministrazione della partecipata, Ciò “conduce a interpretare i (…) commi 8 e 9 dell'articolo 50 TUEL quali norme etero-integrative dell'articolo 2449 c.c., che, nei limiti temporali previsti, consentono all'ente pubblico, in deroga alla previsione statutaria di durata minima dell'incarico, di revocare i componenti dell'organo di gestione in precedenza nominati”.

Attraverso la ricostruzione appena richiamata la Corte di Cassazione sconfessa la tesi recepita dalla Corte d'Appello (priva di riscontro nella giurisprudenza di legittimità) che ruota intorno al duplice rapporto che si istaurerebbe in capo agli amministratori di nomina pubblica: “uno con l'ente designante, di natura pubblicistica, e l'altro, con la società gestita, di natura privatistica”. Questa ricostruzione del giudice di secondo grado avrebbe – erroneamente secondo il giudizio della Cassazione - portato a ritenere sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo sulla legittimità dell'atto di revoca.

Inoltre, le Sezioni unite precisano che la natura autoritativa dell'atto di revoca e, conseguentemente, la giurisdizione del g.a. non può essere ancorata neanche all'assunto sostenuto dagli amministratori controricorrenti, che hanno provato ad affermare l'inapplicabilità delle disposizioni del TUEL, in quanto al Sindaco sarebbe riconosciuta la possibilità di revocare i membri dell'organo di amministrazione di una compagine partecipata solo nel caso in cui tra questi ultimi e “l'amministrazione comunale in carica intercorre un rapporto di esponenzialità politica od eminentemente pubblicistica”.

Altro profilo rilevante oggetto della sentenza annotata – diretto precipitato dell'accertata legittimità dell'esercizio del potere di revoca da parte del Sindaco – è relativo alla sussistenza della giusta causa di revoca che, se non esistente, aprirebbe la strada al risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 2383, comma 3, c.c.

Riformando la sentenza della Corte territoriale, che aveva ritenuto insussistente la giusta causa, il giudice di legittimità “ritiene, in contrario, che la previsione di cui all'articolo 50, commi 8 e 9 TUEL, integri ex se una giusta causa oggettiva di revoca degli amministratori”.

Detto principio poggia sulle ragioni che si andranno sinteticamente a richiamare. Depone nel senso della ricostruzione fornita dalla Cassazione la necessità di attribuire un'autonoma rilevanza alle predette norme del Testo Unico Enti Locali altrimenti “risulterebbero inutiliter datae qualora anche la potestà del Sindaco di revoca e di nomina degli amministratori, da esercitare entro il breve termine di 45 giorni dall'insediamento, dovesse essere sorretta da una motivazione atta a giustificarla”.

Infatti, è evidente che il provvedimento di revoca del Consiglio di amministrazione può essere adottato in qualsiasi momento dall'ente socio – secondo le regole statutarie e assembleari – in caso di inadempimento, o di inesatto adempimento al mandato conferito. Al contempo, però, non è ipotizzabile che, “nel brevissimo arco temporale a disposizione del Sindaco, questi sia in grado non solo di verificare la professionalità tecnica degli amministratori in carica, ma persino di prevederne la futura incapacità gestionale”.

Pertanto, le norme di cui si discorre non sono altro che un'estrinsecazione del meccanismo dello spoil system (sistema delle spoglie) il quale è stato, tra l'altro, avallato anche dalla Corte Costituzionale nel 2006 e nel 2010 in presenza di due condizioni afferenti ai soggetti a cui è riferito. È, infatti, necessario che questi ultimi siano titolari di organi di vertice dell'amministrazione e siano stati nominati intuitu personae, ovvero sulla base di valutazioni personali coerenti con l'indirizzo politico.

La fattispecie in esame rientra nell'area di operabilità del c.d. meccanismo scambiatorio poiché è innegabile che il Comune proceda alla nomina degli amministratori e di coloro che rivestono una carica apicale nella società controllata “sulla scorta di un rapporto di natura fiduciaria, fondato sull'intuitus personae”: nella designazione, oltre ai richiesti requisiti di tipo oggettivo, assume un peso preponderante “la valutazione della attitudine dei prescelti a conformare le loro scelte imprenditoriali all'indirizzo politico espresso dall'ente, e di perseguire, secondo le priorità e le modalità da questo indicate, gli obiettivi di gestione della partecipata che l'amministrazione comunale si propone di raggiungere”. Il predetto rapporto di fiducia che lega l'Amministrazione comunale ai membri degli organi di governance è, di regola, destinato a venire meno a seguito di nuove elezioni.

Dunque, le Sezioni unite precisano a chiare lettere che l'art. 50 TUEL risponde all'esigenza “della nuova amministrazione di poter contare sull'immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, "eredita'" del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze”.

Sulla scorta di ciò, appare coerente il ragionamento sostenuto dalla Cassazione volto a sostenere la sussistenza, nel caso in esame, dei presupposti della giusta causa oggettiva, in quanto non può essere introdotta una distinzione tra nomina e revoca dell'organo di amministrazione. Più nel dettaglio, non può ritenersi la prima contraddistinta dall'intuitus personae e ancorare solo la seconda al criterio della continuità della gestione societaria. In altri termini, la revoca non è altro che “la condizione indispensabile per poter procedere ad una nuova nomina, deve, per contro, ritenersi giustificata dal semplice venir meno del rapporto fiduciario, onde evitare che la nuova maggioranza politica sia vincolata dalla scelta non condivisa compiuta da quella precedente”.

In conclusione, le Sezioni unite calando i principi generali nella fattispecie concreta, da un lato, ritengono sussistente la giurisdizione del giudice ordinario sull'atto di revoca del nuovo Sindaco dell'intero Consiglio di amministrazione della società controllata dal Comune e, dall'altro, qualificano l'art. 50 TUEL come giusta causa oggettiva di revoca degli amministratori, per consentire al Sindaco di scegliere persone in linea con l'indirizzo politico e imprenditoriale dell'amministrazione comunale.

Osservazioni

La pronuncia annotata, partendo dall'analisi della legittimità della revoca degli amministratori della società controllata da parte del Sindaco nel termine di 45 giorni dal suo insediamento, torna sulla tematica della natura delle società pubbliche, oggetto di particolare attenzione sia del legislatore confluita nel d.lgs. n. 175/2016 che della dottrina e della giurisprudenza.

Innanzitutto, la sentenza esamina la questione (da tempo dibattuta) del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario per quanto concerne le varie vicende che riguardano la vita societaria.

Le Sezioni unite richiamando il proprio consolidato e (pressoché) univoco filone interpretativo hanno ritenuto assoggettabili alla giurisdizione ordinaria le controversie societarie che riguardano le compagini sociali in mano pubblica. Anche la sentenza in commento aderisce all'orientamento c.d. panprivatistico, il quale ritiene applicabile alle società partecipate la disciplina ordinaria del diritto societario, che, per quanto in questa sede maggiormente rileva, esplica i propri effetti in materia di nomina e revoca dell'organo di amministrazione.

Questa ricostruzione fa essenzialmente leva sulla natura privata delle società in cui le Amministrazioni possiedono in tutto o in parte il capitale: le compagini sociali in mano pubblica, invero, non perdono la struttura di soggetto privato solo perché sono presenti soci pubblici. Precisamente, non assume “rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell'azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera nell'esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l'ente pubblico: il rapporto tra la società e l'ente locale è di assoluta autonomia, in quanto la posizione dell'amministrazione all'interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla prevalenza del capitale da esso conferito e soltanto in tale veste l'ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società” (in questi esatti termini Cass., Sez. un., ordinanza 1 dicembre 2016, n. 24591).

Da ciò discende che l'ente pubblico può avvalersi degli strumenti che gli sono riconosciuti dal diritto societario uti socius, senza poter incidere in maniera unilaterale sulle vicende societarie mediante poteri di natura autoritativa che si esplicano attraverso atti compiuti iure imperii (ex multis Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 6 giugno 1997, n. 5085; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un. 15 aprile 2005, n. 7799; Cass., Sez. un., ordinanza 10 febbraio 2015, n. 2505; Cass., Sez. un., ordinanza 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ordinanza 14 settembre 2017, n. 21299).

L'inquadramento privatistico delle società partecipate si inserisce, altresì, nel solco scavato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea (CGUE sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05; CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 C-464/04; CGUE sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), la quale ha affermato il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all'art. 345 TFUE, in virtù del quale “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale”.

Gli appena richiamati principi ermeneutici che non prevedono per le società pubbliche apprezzabili deviazioni dal diritto civile trovano conferma nella disciplina positiva.

Più nel dettaglio, nonostante non sia più vigente , è opportuno richiamare l'art. 4 comma 13 del D.L. n. 95/2012, convertito in L. n. 135/2012 il quale nella versione originaria – poi abrogata dal d.lgs. 175/2016 - disponeva che “le disposizioni (…) in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.

La ratio sottesa a questa disposizione inserita nel c.d. Decreto spending review è chiara, in quanto il ricorso a società pubbliche si considera una distorsione nell'utilizzo delle risorse pubbliche che impone “una regola ermeneutica di chiusura orientata al diritto societario comune”.

Le medesime esigenze sono confluite D.lgs. n. 175/2016 (non applicabile ratione temporis al caso concreto). Tre sono le disposizioni che segnano il definitivo transito delle società partecipate nell'orbita del diritto comune. In primo luogo, l'art. ,1 comma 3, TUSP dispone che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato”. Il principio affermato mira ad “assegnare all'intervento di regolazione una valenza prettamente privatistica, con applicazione generale delle disposizioni contenute nel codice civile, salvo “deroghe” di rilevanza privata o pubblica poste dal decreto stesso (Cfr. Parere 21 aprile 2016, n. 968 reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato sullo schema di decreto recante “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”).

Anche l'art. 12 del D.lgs. 175/2016 incoraggia il sistema privatistico, spostando il baricentro della responsabilità degli organi di governance verso il diritto civile. La suddetta disposizione prevede che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”. Viene, tuttavia, fatta salva “la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”.

Infine, l'art. 14 del T.U. società partecipate in tema di crisi d'impresa, afferma in maniera netta che tutte le compagini pubbliche (anche in house) “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”.

In definitiva, oggi non può più seriamente dubitarsi della natura giuridica privata delle società in cui le Amministrazioni detengono delle partecipazioni: vanno, infatti, “respinte le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche” (Cass., sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196).

Questo ragionamento è stato avallato anche dal Consiglio di Stato che nel Parere n. 968/2016 reso sul Testo Unico società partecipate ha precisato che “la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che sussiste compatibilità tra “scopo pubblico” e “scopo lucrativo”. Lo strumento delle società è, infatti, utilizzato anche nel settore del diritto civile per il conseguimento di scopi non lucrativi (…)”. Più in dettaglio, il Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574) ha chiarito che dopo la riforma del diritto societario del 2003, “l'interesse sociale non ha una connotazione omogenea ed unitaria, in quanto confluiscono nell'assetto societario non solo interessi eterogenei che fanno capo agli stessi soci (si pensi al socio investitore e a quello imprenditore), ma anche interessi diversi riferibili a soggetti terzi. In questa prospettiva, non può ritenersi che il rispetto dell'interesse pubblico sia idoneo ad alterare il tipo societario conducendo alla configurazione di una società diversa da quella contemplata dal codice civile”.

La ricostruzione in chiave civilistica delle società partecipate sembrerebbe avvalorata anche dall'art. 2449 c.c., il quale con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede esclusivamente un “particolare” potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.

Pertanto, per quanto qui maggiormente rileva, l'ente pubblico nel momento in cui nomina e revoca gli amministratori della partecipata non esercita un proprio potere, ma si surroga al potere che ordinariamente spetterebbe all'assemblea. In altre parole, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità, la facoltà attribuita all'ente si qualifica come “sostitutiva della generale competenza dell'assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa” (Cass., Sez. un., ordinanza 23 gennaio 2015, n. 1237).

Ancora, sempre a norma dell'art. 2449 c.c. è evidente l'equiparazione tra gli amministratori nominati dai soggetti pubblici e quelli designati dall'assemblea. Infatti il comma 2 della predetta disposizione precisa che “hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea” e, dunque, non sono soggetti alle indicazioni provenienti dall'ente che li ha nominati.

La totale uguaglianza tra gli amministratori a prescindere dalle modalità con cui vengono individuati fa propendere anche le Sezioni unite in analisi per la natura giuridica privata delle società in mano pubblica.

Ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale che ruota intorno alle compagini sociali pubbliche è facilmente intuibile l'interpretazione fornita dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario. In particolare, il confine deve essere individuato in base alla natura dell'atto che riguarda la vita della società.

Spettano, infatti, “alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto (…) i provvedimenti di natura autoritativa, preliminari e funzionali rispetto alle successive deliberazioni societarie, con cui gli enti locali esprimono la funzione di indirizzo e di governo rispetto agli organismi preposti alla produzione, gestione ed erogazione dei servizi pubblici di loro pertinenza (Cass. sez. un. 23200/2009): e quindi in concreto l'attività unilaterale prodromica ad una vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società, o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima”.

Di convesso, il giudice ordinario ha giurisdizione su “tutti i successivi atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario - dal contratto di costituzione della società, alla successiva attività della compagine societaria partecipata con cui l'ente esercita dal punto di vista sia soggettivo che oggettivo le facoltà proprie del socio (azionista), fino al suo scioglimento - restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito; con conseguente loro attribuzione alla giurisdizione ordinaria; (…) nell'ambito di quest'ultima categoria rientrano le controversie rivolte ad accertare l'intero spettro delle patologie ed inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto sociale, siano esse estranee (Cass. sez. un. 4116/2007; 13033/2006; 10994/2006) e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità-illegittimità della procedura amministrativa a monte (…). E vi rientrano a fortiori i profili di illegittimità degli atti consequenziali compiuti dalla società già istituita, costituendo gli stessi espressione non di potestà amministrativa, bensì del sistema delle invalidità-inefficacia del contratto sociale e delle relative conseguenze, che postula una verifica, da parte del giudice, di conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali l'atto negoziale è sorto ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici (in questi esatti termini Cass., Sez. un., sentenza 30 dicembre 2011, n. 30167; in senso conforme Cass., Sez. un., sentenza 2 agosto 2011, n. 16856).

Anche la Corte Costituzionale (sentenza 16 giugno 2006, n. 233 e sentenza 5 febbraio 1992, n. 35) ha ricondotto le disposizioni relative alla nomina e revoca degli amministratori da parte enti pubblici nell'alveo del diritto privato e “ha sottolineato che l'intuitus personae sotteso al rapporto di nomina degli amministratori esclude la rilevanza immediata dei principi di cui all'articolo 97 Cost., comma 2, (buon andamento ed imparzialità)” (Cass., Sez. un., ordinanza 10 febbraio 2015, n. 2505).

Dunque, la sentenza in esame recepisce questo orientamento affermando che il provvedimento di revoca degli amministratori della partecipata adottato dal Sindaco neoeletto ex art. 50 d.lgs. 267/2000 debba essere attribuito alla giurisdizione del giudice ordinario, qualificando il predetto atto “espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all'ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio”.

Più in dettaglio, il comma 8 della predetta disposizione del TUEL dispone che “sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio il Sindaco provved(e) alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune (…) presso enti, aziende ed istituzioni”. Il comma successivo dell'art. 50 TUEL prevede, invece, che “tutte le nomine e le designazioni debbono essere effettuate entro quarantacinque giorni dall'insediamento ovvero entro i termini di scadenza del precedente incarico”.

La pronuncia in esame riconosce natura etero-integrativa dell'art. 2449 c.c., poiché permette di revocare entro 45 giorni dall'insediamento della nuova amministrazione i componenti dell'organo di gestione della società pubblica, in deroga alla previsione di una durata minima della carica (prevista in questo caso dallo Statuto).

Le Sezioni unite acclarata la giurisdizione del giudice ordinario passano a indagare la sussistenza di una giusta causa di revoca, poiché il disposto dell'art. 2383, comma 3, c.c., riconosce “il diritto dell'amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa”. Ribaltando la decisione del giudice d'appello la Cassazione ritiene che l'art. 50 TUEL, espressione del sistema dello spoil system, “integri ex se una giusta causa oggettiva di revoca degli amministratori”.

Non è, infatti, ragionevolmente ipotizzabile che il Sindaco nei 45 giorni a sua disposizione sia in grado di verificare la professionalità e la capacità gestionale degli amministratori della società pubblica. Al contrario, la nomina degli amministratori è fondata su un rapporto di natura fiduciaria nell'ambito del quale ha rilevanza soprattutto l'attitudine di conformare le scelte imprenditoriali all'indirizzo politico dell'ente. Partendo da detto presupposto è evidente che la disposizione del Testo Unico enti locali mira a garantire un rapido spazio di manovra al neoeletto Sindaco per poter immediatamente disporre di soggetti negli organi di governance societaria che siano in linea con le linee di indirizzo e di gestione della società fissate dalla nuova amministrazione comunale, senza dover essere costretto a mantenere l'eredità delle nomine del precedente governo.

Conclusioni

La sentenza annotata fornisce una ulteriore conferma della scelta operata - dapprima dalla giurisprudenza e seguita, più recentemente, dal legislatore del d.lgs. n. 175/2016 - in ordine alla natura essenzialmente privata delle compagini societarie pubbliche, da cui consegue la giurisdizione del giudice ordinario sulle vicende “a valle” della scelta del modello societario.

Il predetto approdo non era scontato ed è stato per lungo controverso, poiché nelle società in mano pubblica convivono l'interesse pubblico e quello privato rendendo l'intreccio tra norme civili e speciali arduo da districare. Infatti, queste hanno innegabilmente natura di soggetto privato, dalla quale discende l'applicabilità delle disposizioni previste per le società dal codice civile, ma al contempo usufruiscono di risorse pubbliche derivanti dalla quota dell'ente socio, che possono alterarne la natura e il relativo statuto.

Tuttavia, la diffusione del modulo organizzativo societario ha man mano favorito il trionfo del diritto privato sul diritto pubblico. Questa vis expansiva delle norme del diritto comune derivanti dall'adozione di modelli paritetici è emersa sotto diversi profili tra cui spiccano la responsabilità degli organi di governo societario e la fallibilità. Anche il rinvio dell'art. 1 del TUSP al diritto comune in assenza di deroghe puntuali contenute nel d.lgs. n. 175/2016 è sintomo della (quasi) totale equiparazione tra compagini sociali private e pubbliche, da cui restano, per specifici profili, escluse solo le società in house.

In questo quadro si inserisce la fattispecie oggetto della pronuncia delle Sezioni unite in commento che ruota attorno alla qualifica di atto adottato iure privatorum, di natura non autoritativa, della revoca degli amministratori della partecipata da parte dell'ente locale al momento del cambio di compagine politica al vertice dell'amministrazione, che conduce ad affermare la giurisdizione del giudice ordinario.

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